Stucchevole e provincialissima la disputa sulle "coperture". Ma la
percezione di un paese è assai più importante dei suoi conti
«Signora mia, ma dove sono le coperture? Qui non ci sono
le coperture!»: come tanti piccoli ragionieri chini sulla loro piccola
calcolatrice, editorialisti e commentatori, professori e parlamentari,
anchor-men ed ex ministri si affollano a spiegare – quasi sempre con
simulata e ostentatissima preoccupazione, e sostenendo con squisita
ipocrisia di tifare per l’Italia – che lo show di Matteo Renzi è, per
l’appunto, soltanto uno show. Perché «mancano le coperture».
Intanto, nel mondo reale, il Tesoro ieri ha messo all’asta 7,75
miliardi di Btp: la domanda superava gli 11 miliardi, i rendimenti sono
calati di 31 punti base, un nuovo minimo storico è stato raggiunto. Come
mai? Ai mercati non interessano le «coperture»? Gli investitori non
hanno letto il Corriere e neppure Repubblica? O magari sono così sciocchi che un paio di slides bastano a convincerli a investire un pacco di miliardi?
In questa stucchevole e provincialissima disputa sulle “coperture” si
misura tutta l’arretratezza della nostra classe dirigente, il cui
orizzonte non riesce mai ad oltrepassare il rassicurante tran tran
quotidiano e clientelare dell’ordinaria amministrazione. Così, quando un
presidente del consiglio si presenta al paese dicendo che farà questo e
quello, i campioni della stagnazione chiedono il bollino della
Ragioneria.
Ma l’economia non funziona affatto così. Non è un sudoku, ma un
organismo vivente. Per questo i ragionieri e i tecnici e i professori
della Bocconi e i politici che hanno dato loro ascolto in tutti questi
anni non hanno mai combinato nulla: perché hanno passato il tempo a
scrivere affannosamente numeretti su un foglietto sgualcito, sommando e
sottraendo alla rinfusa, mentre fuori dai loro uffici tecnici un intero
ecosistema si trasforma ogni giorno – in peggio o in meglio – senza
chiedere permesso.
Il problema dell’Italia è la crescita, come è arcinoto. La crescita
non la fanno i governi, né per decreto né con i piani quinquennali, ma i
lavoratori: quelli dipendenti e quelli autonomi, gli imprenditori e i
professionisti. E la fanno gli investitori, naturalmente: stranieri e
italiani. Per stimolare la crescita bisogna investire un po’ di soldi
(meglio tagliando drasticamente la spesa che aumentando le tasse,
seppure sulle rendite finanziarie) e alleggerire la burocrazia. Se nei
prossimi mesi il Pil crescerà oltre l’1 per cento, come le misure del
governo lasciano concretamente sperare, il problema delle «coperture»
sarà automaticamente risolto. Con buona pace dei ragionieri schizzinosi
che oggi bocciano le decisioni di Renzi fingendo di non capirle.
Tutte le previsioni sono opinabili, e dunque non resta che aspettare.
Ma c’è un’ulteriore novità, forse la più importante, nei provvedimenti
decisi dal consiglio dei ministri: il marketing. Gli stessi che da due
giorni vanno preoccupati in cerca delle «coperture», non nascondono un
profondo fastidio per la “televendita” di Renzi, già paragonato a Wanna
Marchi e oggetto di infiniti motteggi nei salotti e nelle redazioni.
Eppure il problema più grande dell’Italia è proprio questo: nessuno
se la compra, cioè nessuno investe. Vendere il paese è la vera missione
del presidente del consiglio, e per farlo servono il marketing e la
pubblicità. Quando Renzi dice che la nomina di Cantone di per sé
migliora la posizione dell’Italia nelle classifiche internazionali sulla
corruzione, e dunque aiuta lo sviluppo, afferma una sacrosanta verità.
La percezione di un paese è assai più importante dei suoi conti (che
peraltro tutti sanno essere manipolati). Investire significa puntare sul
futuro, e per vendere e comprare il futuro bisogna essere ottimisti. E,
per favore, non chiamatela comunicazione: è politica, finalmente.
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