venerdì 14 marzo 2014

I conservatori che usano il bollino della Ragioneria

Fabrizio Rondolino 
Europa  

Stucchevole e provincialissima la disputa sulle "coperture". Ma la percezione di un paese è assai più importante dei suoi conti
«Signora mia, ma dove sono le coperture? Qui non ci sono le coperture!»: come tanti piccoli ragionieri chini sulla loro piccola calcolatrice, editorialisti e commentatori, professori e parlamentari, anchor-men ed ex ministri si affollano a spiegare – quasi sempre con simulata e ostentatissima preoccupazione, e sostenendo con squisita ipocrisia di tifare per l’Italia – che lo show di Matteo Renzi è, per l’appunto, soltanto uno show. Perché «mancano le coperture».
Intanto, nel mondo reale, il Tesoro ieri ha messo all’asta 7,75 miliardi di Btp: la domanda superava gli 11 miliardi, i rendimenti sono calati di 31 punti base, un nuovo minimo storico è stato raggiunto. Come mai? Ai mercati non interessano le «coperture»? Gli investitori non hanno letto il Corriere e neppure Repubblica? O magari sono così sciocchi che un paio di slides bastano a convincerli a investire un pacco di miliardi?
In questa stucchevole e provincialissima disputa sulle “coperture” si misura tutta l’arretratezza della nostra classe dirigente, il cui orizzonte non riesce mai ad oltrepassare il rassicurante tran tran quotidiano e clientelare dell’ordinaria amministrazione. Così, quando un presidente del consiglio si presenta al paese dicendo che farà questo e quello, i campioni della stagnazione chiedono il bollino della Ragioneria.
Ma l’economia non funziona affatto così. Non è un sudoku, ma un organismo vivente. Per questo i ragionieri e i tecnici e i professori della Bocconi e i politici che hanno dato loro ascolto in tutti questi anni non hanno mai combinato nulla: perché hanno passato il tempo a scrivere affannosamente numeretti su un foglietto sgualcito, sommando e sottraendo alla rinfusa, mentre fuori dai loro uffici tecnici un intero ecosistema si trasforma ogni giorno – in peggio o in meglio – senza chiedere permesso.
Il problema dell’Italia è la crescita, come è arcinoto. La crescita non la fanno i governi, né per decreto né con i piani quinquennali, ma i lavoratori: quelli dipendenti e quelli autonomi, gli imprenditori e i professionisti. E la fanno gli investitori, naturalmente: stranieri e italiani. Per stimolare la crescita bisogna investire un po’ di soldi (meglio tagliando drasticamente la spesa che aumentando le tasse, seppure sulle rendite finanziarie) e alleggerire la burocrazia. Se nei prossimi mesi il Pil crescerà oltre l’1 per cento, come le misure del governo lasciano concretamente sperare, il problema delle «coperture» sarà automaticamente risolto. Con buona pace dei ragionieri schizzinosi che oggi bocciano le decisioni di Renzi fingendo di non capirle.
Tutte le previsioni sono opinabili, e dunque non resta che aspettare. Ma c’è un’ulteriore novità, forse la più importante, nei provvedimenti decisi dal consiglio dei ministri: il marketing. Gli stessi che da due giorni vanno preoccupati in cerca delle «coperture», non nascondono un profondo fastidio per la “televendita” di Renzi, già paragonato a Wanna Marchi e oggetto di infiniti motteggi nei salotti e nelle redazioni.
Eppure il problema più grande dell’Italia è proprio questo: nessuno se la compra, cioè nessuno investe. Vendere il paese è la vera missione del presidente del consiglio, e per farlo servono il marketing e la pubblicità. Quando Renzi dice che la nomina di Cantone di per sé migliora la posizione dell’Italia nelle classifiche internazionali sulla corruzione, e dunque aiuta lo sviluppo, afferma una sacrosanta verità. La percezione di un paese è assai più importante dei suoi conti (che peraltro tutti sanno essere manipolati). Investire significa puntare sul futuro, e per vendere e comprare il futuro bisogna essere ottimisti. E, per favore, non chiamatela comunicazione: è politica, finalmente.

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