Corriere della Sera del 15/03/14
Francesco Verderami
Uno, per mantenere il primato del
centrodestra, deve intanto occhieggiare al leader del centrosinistra.
L’altro, per costruire un nuovo centrodestra, deve intanto stare al
governo con il leader del centrosinistra. Berlusconi e Alfano
sembrano i capponi di Renzi, che al momento ritiene di averli in
pugno.
E mentre Berlusconi e Alfano sono intenti a beccarsi —
«come accade troppo sovente tra compagni di sventura» — Renzi
annuncia di voler conquistare il loro elettorato «alle prossime
Politiche». È da vedere se ci riuscirà, ma è chiaro che già le
Europee sono diventate per il Cavaliere e il suo ex delfino uno
spartiacque, se è vero che il capo di Forza Italia arriva a sfidare
la legge chiedendo di potersi candidare pur di ravvivare lo spirito
d’appartenenza del proprio elettorato, se il fondatore del Nuovo
centrodestra deve tentare di uscire dal cono d’ombra del premier
per garantirsi un dividendo elettorale nelle urne e dare slancio al
suo progetto.
Così si dividono nel loro stesso campo, che il
segretario del Pd dice di voler invadere. E non c’è dubbio che la
condizione in cui si trovano oggi ha origine nella decisione del
Cavaliere di rompere con il governo Letta, di cui era di fatto il
dominus, perché ne dettava i tempi e l’agenda. Nemmeno la sentenza
di condanna sul caso Mediaset avrebbe scalfito il ruolo dell’ex
premier, nemmeno l’onta della decadenza dal Senato, se avesse
resistito. Così lo consigliavano i familiari e gli amici più
fedeli, e lui sembrava essersi convinto, tanto da aver preparato un
«discorso alla nazione» dove aveva scritto di provare «un profondo
senso di ingiustizia», e in cui però ribadiva di voler tenere
«separato il mio personale destino giudiziario dal destino politico
del governo», perché «c’è qualcosa di più grande, ed è il
bene del mio Paese».
Si era persuaso che sacrificandosi sarebbe
stato santificato. Ed è per questo che in estate aveva anche
predisposto un piano di riassetto del Pdl: «Facciamo due
coordinatori», disse ad Alfano: «Uno lo scelgo io, e sarà Toti.
L’altro lo scegli tu, e sarà Lupi». Invece fu «il blackout» —
come lo definì Confalonieri — che cambiò il verso della politica,
segnò il divorzio dai «traditori» rimasti al governo con «i miei
carnefici» e aprì la strada al sindaco di Firenze. Il Cavaliere
voleva che cadesse Letta, sebbene fosse stato Renzi — allora
candidato alla segreteria del Pd — a spingere perché il voto sulla
decadenza di Berlusconi non si incrociasse con le primarie di
partito. Ed era stato Renzi a sostenere la campagna per impedire il
voto segreto al Senato sulla decadenza di Berlusconi. E fu sempre
Renzi, il giorno dopo il voto, a cinguettare «game over Berlusconi».
Lo stesso Renzi che da trionfatore avrebbe ricevuto Berlusconi nella
sede del Pd al Nazareno.
Non è paradossale se oggi Berlusconi
fa asse con Renzi sulle riforme, mentre Renzi fa asse con Alfano sul
governo. Più semplicemente si attiene alle regole della politica per
restare in gioco, «per evitare — come ha sostenuto Verdini in una
riunione di partito — di lasciare tutto campo al Nuovo
centrodestra». È vero, se Forza Italia decidesse di far saltare
l’intesa sulla legge elettorale, a ruota salterebbe anche il
governo. Ma il Cavaliere è conscio di trovarsi in una morsa: se
rompesse sul riassetto istituzionale si attirerebbe gli strali del
Paese, se proseguisse — rimanendo fuori dal governo — darebbe
l’idea di aver abdicato. Insomma, lo schema della «doppia
maggioranza» pesa, specie a Forza Italia. È una condizione alla
lunga insostenibile, e Brunetta riconosce che «la nostra posizione è
complessa».
C’è un solo modo per tentare di spezzare la
tenaglia, e il capogruppo azzurro alla Camera ci arriva al termine di
un lungo ragionamento in nome «delle riforme, dell’Europa e della
pacificazione». Finché: «... Renzi non può pensare di giocare con
i due forni o si farebbe male. Il premier deve aprire a una grande
coalizione». Dentro Forza Italia insomma c’è chi vorrebbe tornare
dov’era quando c’era il Pdl e il Pd subiva i ritmi e le richieste
del centrodestra, accettando di votare l’abrogazione dell’Imu
sulla prima casa. La politica come la storia non si fa con i se, ma
di questo si discute nel partito e da molto tempo.
«Silvio,
pensa cosa sarebbe stato se fossimo rimasti uniti e al governo...»,
ha detto un paio di settimane fa Romani al Cavaliere durante una cena
ad Arcore. E i commensali raccontano che Berlusconi abbia prestato
«attenzione» al discorso del capogruppo forzista al Senato. Ma
Forza Italia non è più al governo e il Pdl si è diviso in due
partiti impegnati in una guerra feroce, incapaci a far asse perché
divisi sulla legge elettorale, impossibilitati a far pace perché
divisi dalla competizione alle Europee. E chissà se e in che modo si
ritroveranno dopo il voto, specie se Renzi continuerà a tenerli in
pugno.
L’impressione è che nel centrodestra sia
maledettamente difficile ricomporre la frattura e che ogni iniziativa
per riaggregarlo non avvenga con i tempi giusti. Casini da un mese si
è mosso per tentare l’impresa, la sua intervista al Foglio di due
giorni fa — in cui sottolineava la necessità di unire «i partiti
che si richiamano al Ppe» — era impeccabile. Peccato sia stata
pubblicata con tre anni di ritardo rispetto a quando il Cavaliere
nominò «Angelino» segretario del Pdl dandogli la missione di
comporre la frattura con l’Udc. Ma allora il leader centrista disse
no. E dopo Casini anche Monti rifiutò il ruolo di candidato premier
dei «moderati». A veder bene i capponi di Renzi non sono solo
Berlusconi e Alfano...
Nessun commento:
Posta un commento