La Stampa12/03/2014
Tra mille agguati e mille affanni la cavalcata di Matteo
Renzi si avvia a superare il primo ostacolo, l’approvazione alla Camera
della legge elettorale. Ma il successo non dovrebbe illudere troppo il
premier, sia perché il passaggio del testo al Senato si annuncia ancor
più tempestoso, sia perché è sulla partita economica che si gioca
l’azzardo più importante per le sorti del suo governo.
È su questo terreno, infatti, che il neo-inquilino di
Palazzo Chigi spera di stringere quella alleanza con la gran parte dei
cittadini italiani che potrebbe consentirgli di abbattere le barricate
che partiti, a cominciare dal suo, sindacati e Confindustria si
apprestano a elevare per opporsi ai suoi progetti. Ecco perché
l’appuntamento con le elezioni europee del 25 maggio è fondamentale per
Renzi e a questo obiettivo sono subordinate tutte le scelte che, in
questi mesi, si appresta a compiere.
Un significativo successo elettorale permetterebbe al
premier di far dimenticare «il peccato originale» della sua presa del
potere, la manovra di palazzo che ha estromesso Enrico Letta da Palazzo
Chigi, ma anche di legittimare nella forma più indiscutibile, quella del
consenso democratico, sia i suoi progetti, sia il metodo per attuarli.
Non desta alcuna sorpresa il fatto che Renzi sia riuscito,
già nei primi giorni di lavoro del suo governo, a mettersi contro il
maggior sindacato del nostro paese, la Cgil e, contemporaneamente, pure
la Confindustria. Può essere un rischio mortale per il suo governo, ma è
una strada obbligata, perché è la conseguenza logica di una domanda con
risposta incorporata: si può lottare contro le corporazioni con l’aiuto
delle corporazioni? Ma alla prima domanda, ne segue una seconda: come
si fa a pensare di sconfiggere una coalizione di resistenze così
formidabili? Anche a questo secondo quesito, c’è una risposta scontata,
che risale addirittura ai nostri avi latini: dividendola.
Renzi ha cominciato subito a mettere in pratica questa
antica strategia. Con la scelta di privilegiare il taglio dell’Irpef
rispetto a quello dell’Irap vuole dividere gli interessi degli
imprenditori tra coloro che prevalentemente esportano e coloro che
soffrono, sul mercato interno, la debolezza dei consumi. Nello stesso
tempo, cerca di separare la dirigenza Cgil della maggioranza dei suoi
iscritti, perché alle lamentele di Camusso per la mancata consultazione
dei sindacati si prepara a rispondere con una riduzione delle tasse
proprio sui redditi più bassi.
Il rifiuto del tradizionale modello concertativo da parte
del premier non prevede, d’altra parte, uno scontro totale con le
rappresentanze imprenditoriali e sindacali, perché Renzi nega a loro il
diritto di veto sui provvedimenti governativi, ma cerca un negoziato,
una specie di «do ut des», attraverso il quale esse rinuncino a vantaggi
e garanzie ormai insostenibili di quelle categorie «protette», in
cambio di concrete contropartite salariali e occupazionali. Anche in
questo caso, una proposta con molti rischi da parte del presidente del
Consiglio, perché tende ad agevolare le richieste delle aziende e degli
iscritti per ridurre i poteri dei vertici confindustriali e sindacali.
Se si considera, poi, l’esigenza primaria di un successo al
voto di fine maggio, è ovvia la scelta di subordinare gli interessi dei
lavoratori autonomi, meno garantiti, a quelli dei dipendenti statali e
delle grandi imprese, più garantiti. È vero che Renzi cerca di allargare
il tradizionale perimetro dei consensi al Pd, ma neanche il suo
frenetico e spregiudicato trasversalismo politico può fargli dimenticare
la necessità di sostenere, innanzi tutto, le categorie sulle quali, da
quasi 70 anni, si fonda il suffragio alla sinistra italiana.
Ha suscitato giustificati stupori l’invito che Massimo
D’Alema ha rivolto a Renzi per presentare il suo ultimo libro. Se si
pensa, però, che anche il primo presidente del Consiglio ex comunista
arrivò a Palazzo Chigi con una manovra di palazzo, che anche lui cercò
di fronteggiare il potere dell’allora capo Cgil, Sergio Cofferati, che
anche lui chiese un voto che sanzionasse la sua legittimità a governare,
forse, l’incontro potrebbe assumere un curioso significato. Vista la
sconfitta, su tutti fronti, subita da D’Alema nella sua esperienza
governativa, sia da Cofferati, sia dal verdetto elettorale, si potrebbe
pensare o che l’ex capo della sinistra italiana voglia elargire, in
quell’occasione, qualche paterno e beneaugurante consiglio all’ultimo
suo successore o preannunciargli, più o meno malignamente, il destino
che lo aspetta.
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