foto del giorno
mercoledì 31 luglio 2013
Fiat via dall’Italia? No, se n’è già andata
Matteo Tacconi
Europa
Marchionne dice che qui «le condizioni industriali sono
impossibili». Ma dal 2004 a oggi la produzione del Lingotto in Italia è
crollata. Ecco le cifre e il confronto con Volkswagen
L’anno scorso ci fu il passo indietro su Fabbrica Italia,
progetto da venti miliardi di investimenti. «Un errore, una strategia
non in linea con l’andamento dei mercati». Oggi c’è la minaccia, giunta
alla vigilia dell’incontro con la Fiom di venerdì (non ancora
confermato), di assemblare all’estero i nuovi modelli dell’Alfa, a causa
delle «condizioni industriali italiane impossibili».
L’impressione è che ogni annuncio di Sergio Marchionne sottenda una
strategia chiara: spostare fuori ulteriori segmenti di produzione,
togliendoli agli impianti italiani. Una strategia che, come in una
specie di gioco delle parti, dall’altro lato della barricata – governo e
sindacati – ci si rifiuta di recepire, evocando i soliti discorsi:
produrre in Italia si deve, si può; la Fiat ha avuto tanto, non può
tradire.
Se con le parole si fa tattica, i numeri restituiscono uno scenario
indiscutibile. Consultando la banca dati dell’Organizzazione
internazionale dei costruttori d’auto (Oica) la cifra della gestione
Marchionne, iniziata nel 2004, è lampante. La Fiat non se ne sta
andando: se n’è già andata.
Nel 2004 l’azienda sfornava un milione e 9528 vetture in Italia,
quasi la metà del totale della produzione (due milioni e 119mila). Nel
2011, l’anno a cui le ultime stime ufficiali dell’Oica fanno
riferimento, solo 685mila veicoli sono stati realizzati in patria, a
fronte dei due milioni e 399mila complessivi. La quota italiana è scesa
al 28 per cento.
In compenso nello stabilimento polacco si è passati da 306mila a
400mila mezzi, con una variazione di trenta punti percentuali. In
Turchia da 140mila a 197mila (40 per cento), in Brasile da 441mila a
750mila (70 per cento) e in Cina da 23mila a 141mila, con un incremento
del 591 per cento. Tutto questo senza tenere conto degli investimenti
massicci a Kragujevac, in Serbia, dai cui capannoni, operativi dall’anno
scorso, sono già uscite più di 100mila 500L. Viceversa la produzione a
Tychy, in Polonia, è stata rivista al ribasso. Ma al netto di queste
oscillazioni il messaggio resta evidente: l’Italia, nell’ottica del
Lingotto, è abbastanza marginale. Lo diverrà ancora di più. Forse.
Fiat non è un’anomalia, nel contesto delle casate occidentali. In
questi ultimi vent’anni il baricentro produttivo dell’auto ha registrato
due spostamenti. In chiave europea, i paesi dell’Est hanno giocato la
parte dei protagonisti. In un’ottica globale, invece, sono stati i paesi
emergenti, Cina in testa, a ruggire.
Le statistiche relative a Psa (Peugeot-Citroen), per fare un
paragone, non si discostano troppo da quelle Fiat. Tra il 2004 e il 2011
c’è stato solo un lieve incremento di produzione (da tre milioni e
400mila a tre milioni e 600mila circa), la Francia ha perso parecchio
(da un milione e 900mila a un milione e 300mila veicoli) e ci sono stati
investimenti significativi in Repubblica ceca e Slovacchia, Cina, Iran e
Brasile.
Diverso il caso Volkswagen, non solo in termini di quote di mercato e output (nel
2011 sono state prodotte più di otto milioni di vetture, tre in più
rispetto al 2004). È vero che la casata tedesca ha potenziato ogni suo
impianto all’estero, con la risibile eccezione di quello slovacco,
portando le unità realizzate in Cina da 575mila a quasi due milioni. Ma a
differenza della Fiat e di Psa non ha dismesso in casa propria. Anzi.
Se nel 2004 si producevano in Germania quasi due milioni di veicoli,
oggi è stato sfondato il muro dei due milioni e mezzo. A Wolfsburg
delocalizzazione e salvaguardia della produzione locale vanno a
braccetto.
Quanta confusione sotto il cielo del PD
Riccardo Imberti
In questi giorni si è
tenuta la direziona nazionale del PD. La cronaca ha riferito dello
scontro interno sulle regole. In merito ad alcuni interventi qualche
domanda viene spontanea, una in particolare: ma Bersani,
Franceschini, Fioroni sanno quanto sia lontano quello che vanno
dicendo dallo spirito di servizio che tante volte hanno proclamato?
Anche in questa occasione mi sono convinto della necessità di un
radicale ricambio di classe dirigente a tutti i livelli. È ora di
mettere alla prova energie nuove che sappiano liberare il PD dalle
vecchie logiche della spartizione del potere. I richiami al passato e
alle tradizioni, sempre di più appaiono strumentali al mantenimento
di equilibri di potere e alla conservazione. Bersani e Franceschini
sono stati segretari del partito e nessuno ha mai messo in dubbio che
in caso di vittoria alle elezioni avrebbero assunto la leadership per
il governo del Paese. Devono spiegare perchè oggi questo non va più
bene. Quando si perdono le elezioni il gruppo dirigente trae
normalmente le conclusioni e consente ad altri di assumersi la
responsabilità di guidare il partito. Invece sta accadendo il
contrario. Dopo il tempo dello smarrimento e della delusione, dopo
formali dimissioni, sono tornati tutti lì a imporre regole per
garantirsi una continuità che l'elettorato italiano ha già
bocciato. Ma c'è soprattutto una grande questione politica che fa
capolino nel dibattito di questi giorni. Lo stesso gruppo dirigente,
dopo averci spiegato che mai avrebbe fatto l'alleanza con Berlusconi,
non solo l'ha subita, ma pare che intenda mantenerla, arrivando a
proporre lo slittamento del congresso per non mettere in difficoltà
il governo delle larghe intese. Questo si chiama suicidio politico.
Spero che nei prossimi giorni si ravvedano e modifichino radicalmente
la loro posizione per il bene del partito e del Paese. Scalfari sul
fondo di Repubblica di domenica, nel passaggio sul PD e sulle regole,
ha scritto una cosa di buon senso: si facciano primarie aperte per
l'elezione del segretario e poi, quando si tratterà di scegliere il
premier, se il segretario eletto non darà sufficienti garanzie di
vittoria, attraverso le primarie, metta in campo le energie migliori
che ha a disposizione e siano i cittadini a indicare il candidato più
adatta a battere il centrodestra. Questa saggezza spero venga
adottata dal gruppo dirigente e dal segretario nazionale. È l'unica
strada seria per riprendere un cammino di buona politica, in grado di
dare speranza ai tanti lavoratori che quotidianamente perdono il posto di
lavoro e ai troppi giovani che, nonostante gli sforzi, faticano a
trovarlo.
P.S.
Leggo sulla stampa locale
che sono in atto grandi manovre per il congresso provinciale e che in
campo pare vi siano due candidature: il segretario uscente Piero
Bisinella e Michele Orlando. Leggo anche che tutti e due avrebbero
simpatie per Renzi, staremo a vedere...chissà che non sia il turno
di una candidata donna, magari anch'essa con simpatie renziane. Di
questo passo a Brescia Renzi, se si candida alla segreteria nazionale
dovrebbe avvicinarsi al 90%, per la gioia dei renziani DOC. Ma la
notizia più simpatica e interessante (sempre data dai giornali) è
che è nata la componente dei girellini: l'area dei lettiani
bresciani si è data un nuova articolazione distinguendosi da
Galperti? Staremo a vedere se sono solo illazioni giornalistiche o
c'è del vero. Questa estate possiamo impegnarla oltre che alle
letture e al relax a sciogliere i rebus del Partito Democratico
bresciano.
dire quacosa di sensato!
De Gregori
Non ce la faccio più a sentir recitare la solita solfa "Dì qualcosa
di sinistra". Era la bellissima battuta di un vecchio film, non può
diventare l'unica bandiera delle anime belle di oggi. Proviamo piuttosto
a dire qualcosa di sensato, di importante, di nuovo. Magari scopriremo
che è anche di sinistra.
martedì 30 luglio 2013
Israele-Palestina, Kerry ottimista: “Accordo possibile entro nove mesi”
La Stampa 30/07/2013
Il segretario di Stato americano:
«Avvio dei colloqui positivo, entro due settimane un nuovo incontro»
«Avvio dei colloqui positivo, entro due settimane un nuovo incontro»
«Israeliani e palestinesi hanno trovato un’intesa per cercare di raggiungere un accordo di pace nei prossimi nove mesi». Lo ha detto il segretario di Stato John Kerry nel corso della conferenza stampa dedicata ai negoziati in corso a Washington, i primi da tre anni, tra i negoziatori di entrambe le parti.
Dopo incontri «molto positivi» alla Casa Bianca, ha proseguito Kerry, le due parti si incontreranno entro le prossime due settimane per continuare le discussioni. Non è ancora stato deciso se l’appuntamento si terrà nei territori palestinesi o in Israele. I dettagli sugli accordi finora raggiunti resteranno «confidenziali»: «nessuno», ha precisato il successore di Hillary Clinton, «dovrebbe prendere in considerazione alcun rapporto a meno che non venga direttamente da me».
Il titolare del dipartimento di Stato ha garantito che gli Stati Uniti «lavoreranno continuamente come facilitatore in ogni passo» del processo verso la pace e ha ribadito la posizione dell’amministrazione Obama, quella di una soluzione a «due stati che vivono poacificamente uno a fianco dell’altro».
«Non c’è un’altra alternativa», ha detto Kerry, aggiungendo che «abbiamo bisogno di essere forti in quanto crediamo per raggiungere la pace». E ancora: «sebbene possa capire lo scetticismo» sul tema, «non credo in esso e non ho tempo per esso». Secondo Kerry, «quando qualcuno dice che israeliani e palestinesi non troveranno un’intesa, non credetegli».
Dopo l’intervento di apertura di Kerry, ha preso la parola Saeb Erekat, a capo dei negoziatori palestinesi. Erekat ha spiegato che «i palestinesi hanno sofferto a sufficienza e non possono che beneficiare di tali negoziati. E’ tempo per loro di vivere in pace, libertà e indipendenza all’interno del loro Stato sovrano». Dal canto suo Tzipi Livni, a capo dei negoziatori israeliani, ha proseguito dicendo che «siamo venuti qui oggi da una regione piena di problemi e in via di cambiamento (...) Ci è voluto ben più di un semplice biglietto aereo per venire qui. Ci è voluto un atto coraggioso di leadership da parte del primo ministro [israeliano Benjamin] Netanyahu». In merito al processo di pace «sappiamo che non sarà facile (...) ma vi posso garantire che è nostra intenzione non discutere sul passato ma prendere decisioni sul futuro».
La crisi non aspetta nessuno. Nemmeno il Pd
Alfredo Bazoli
L’afasia e la difficoltà attuali chiedono coraggio e soluzioni forti Sono un convinto sostenitore di questo governo. Lo sono, non perché sia particolarmente lieto delle larghe intese, né perché mi faccia piacere dover mediare le nostre scelte con il centrodestra, ma perché sono persuaso che l’esito elettorale e le condizioni del paese oggi non ci consentano alternative migliori. So che molti dentro il Pd ragionano allo stesso modo, con un punto però di robusta discussione, che riguarda i limiti oltre i quali lo stato di necessità nel quale ci troviamo non può valere più. Alcuni ritengono che, proprio per l’eccezionalità della situazione, per la difficoltà di comporre visioni così diverse, occorra essere particolarmente esigenti, per non correre il rischio di perdere la propria identità. Altri, ed io tra questi, sono convinti che prima e più delle proprie istanze, dei propri legittimi valori, vi siano le esigenze del paese, oggi in condizione drammatiche, e che pertanto occorra una dose di cautela e prudenza aggiuntiva nel valutare ostacoli e difficoltà, perché l’opinione pubblica attende con ansia soluzioni. E, giustamente, non ci perdonerebbe un ennesimo fallimento. Ma non c’e dubbio che alcuni limiti non possono essere valicati. Se, per esempio, ci venisse chiesto di approvare, pena la crisi, norme ad personam o radicalmente in contrasto con i nostri principi (che so, un nuovo condono fiscale), credo che nessuno di noi, e di certo non io, potrebbe trincerarsi dietro lo stato di necessità per giustificare la continuità di questo governo. D’altro canto, e sotto altro profilo, un governo che si limitasse a traccheggiare, senza affrontare i nodi e le questioni sul tappeto, sarebbe naturalmente destinato ad essere travolto dagli effetti di una crisi che non fa sconti a nessuno, e che non aspetta i tempi lunghi della politica ordinaria. Occorre dunque essere leali alle ragioni e nel sostegno al governo, ma si deve riconoscere che questa condizione di emergenza non può diventare lo scudo e la giustificazione per qualunque scelta o inerzia, e a maggior ragione ciò deve valere per le dinamiche interne del Partito democratico. Trovo in altre parole del tutto irragionevole che la scelta delle regole congressuali del Pd, e dunque degli assetti che ne deriveranno, possa essere influenzata e in qualche misura determinata dal difficile e complicato sentiero che sta percorrendo il governo, quasi che fosse opportuno che nessuno osasse disturbare il manovratore. So bene, e non mi sfugge, che un segretario particolarmente forte del Pd potrebbe essere vissuto come un pericolo per la tenuta di una maggioranza così complicata, così come accadde in certa misura durante l’ultima esperienza di Prodi, dopo l’incoronazione di Veltroni. E tuttavia sono persuaso che l’attuale condizione di afasia e difficoltà dei partiti, ed anche del Partito democratico, comporti la ricerca di coraggio e soluzioni forti, anche in termini di leadership: non è questo il tempo della timidezza, non può esserlo per il Pd e per il congresso che ci apprestiamo a vivere. Aggiungo che i paventati rischi di fibrillazione tra partito e governo non debbono essere sopravvalutati. Nessun leader avveduto e responsabile del Pd, e di certo non quello che ho in testa io, che oggi fa il sindaco e si misura quotidianamente con la complessità dei problemi, avrebbe davvero interesse a minare la strada di un governo operativo e fattivo, per il semplice ma decisivo rilievo che anch’egli si gioverebbe di un paese avviato al risanamento e alla ripresa. Se poi, malauguratamente, il governo non si dovesse dimostrare all’altezza della difficile sfida che ha di fronte, credo che nessuno di noi vorrebbe farsi cogliere impreparato, e non c’è dubbio che un partito con un leader forte e carismatico sarebbe la migliore premessa per trovarsi pronti ad una nuova competizione, e probabilmente in posizione di vantaggio. Europa Quotidiano - 30/07/2013
Salvatore Vassallo: Epifani media, ma non c'è nulla da mediare
"Al Segretario del Pd Epifani donando di consentire presto
una leadership forte e democratica. Ci sono quattro persone che
controllano tutto: Davide Zoggia, Maurizio Migliavacca, Nico Stumpo e
Dario Franceschini. Volevano cambiare le modalità di elezione del
segretario facendolo votare ai soli iscritti e volevano dividere i
congressi territoriali dal nazionale.
Ora sono costretti a
trattare, ma intendono depotenziare la competizione per il segretario,
dissuadere Renzi dal candidarsi e mantenere il potere locale.
Epifani media, ma non c'è nulla da mediare: deve solo fissare le date di
congressi nazionali e regionali e non seguire persone in scadenza che
vogliono cambiare tutto prima del congresso. Quando chi gestisce le
regole è opportunista non ha più credibilità."
Via libera al «libraio» abusivo
Spiazzati i politici devoti
luigi la spina
La Stampa 30 luglio 2013
E adesso chi glielo dice alla Gelmini, a
Lupi, a Sacconi che ormai è inutile voler far piacere alla Chiesa
chiedendo, ad esempio, una moratoria sulla legge contro l’omofobia? E
chi glielo dirà a Pannella che decenni di allarmi contro le ingerenze
vaticane sono da archiviare nel cestino della memoria?
La verità è che quel bianco viaggiatore con
la sua nera borsa ha spiazzato, tra le tante vecchie abitudini, anche la
politica italiana.
Quella politica che ha sempre cercato il pronto e, magari
persino anticipato, allineamento ai voleri della gerarchia cattolica.
Quella che, davanti a milioni di giovani, si aspettava il tuono del Papa
contro i matrimoni gay, contro l’uso del preservativo, in nome di quei
«valori non negoziabili» che, da circa vent’anni, offrono un comodo
riparo per sperare di raccogliere alle urne il frutto di tanta
servizievole disponibilità.
Chissà quale sorpresa e quale sconcerto, invece, ascoltando
un Papa che parla di Dio, dell’amore tra tutti i fratelli del mondo,
della comprensione umana, come ricetta universale di speranza per un
futuro migliore. Uguale sorpresa e uguale sconcerto, però, avranno
sicuramente provato quei vetero anticlericali di casa nostra, sempre
pronti a negare che la Chiesa possa avere una voce pubblica, che possa
legittimamente esprimere un giudizio sulla nostra società e sulla nostra
politica e che debba solo rifugiarsi nei confessionali e nei conforti
di una silenziosa e timida fede privata.
Chi potrà mai sapere come si fa ad essere più laici di
questo Papa che strapazza cardinali, vescovi, prelati e va in
utilitaria, più di sinistra di un Papa che parla sempre di poveri, più
rivoluzionari di un Papa che invita i giovani «a fare casino» e, magari,
più conservatori di un Papa che si appella continuamente a Cristo?
E’ come se Papa Francesco, di colpo, avesse levato la
stampella alla politica italiana, quella stampella a cui tutti si
appoggiavano, sia per sostenerla, sia per abbatterla. Un gioco delle
parti in cui era troppo facile allinearsi dietro l’etichetta più
conveniente, in cui le squadre erano sempre formate dagli stessi
giocatori, in cui, in fondo, non perdeva mai nessuno. E’ come se non
valessero più nulla pie frequentazioni in sagrestia e assidue presenze
in salotti romani pieni di fruscianti vesti cardinalizie. E’ come se la
politica italiana dovesse prendere posizione liberamente, senza
aspettare il rimbombo che arriva dall’altra riva del Tevere. Una novità
che dovrebbe spazzare via ipocrisie pubbliche e convenienze private,
scambi elettorali e favori oscuri. Ma sarà davvero pronta la politica
italiana, abituata, da decenni, a schieramenti così comodi, a fare da
sola le sue scelte sul futuro della nostra società?
Evitiamo di morire per Berlusconi
Stefano Menichini
Europa
Davvero il Pd rischia di saltare in caso di condanna in Cassazione?
Purtroppo non è un ragionamento assurdo. Però si può evitare, anche
decidendo sul congresso
Bisogna fare di tutto perché quella di Ugo Sposetti non diventi
una profezia che si autoavvera. E cioè perché non sia comunque il Pd,
con qualsiasi esito della camera di consiglio, a volare in pezzi a causa
della sentenza della Cassazione sul processo Mediaset.
Sposetti è votato alle analisi provocatorie, che però spesso hanno un fondamento.
Possiamo perfino prescindere dalle scontate reazioni del Pdl nel caso
di conferma delle due sentenze di primo grado e d’appello, con relative
pene, a carico di Berlusconi. Perché tutti sanno che l’eventuale
condannato è anche il leader più affezionato all’attuale quadro politico
e alla sopravvivenza del governo Letta. Insomma, non saranno le
Santanché a far saltare il banco delle larghe intese.
Il vero interrogativo riguarda la tenuta del Pd di fronte alla
prospettiva di governare ancora a lungo con un Berlusconi truffatore
patentato, bandito dalla vita politica, magari costretto agli arresti
domiciliari. Interrogati, dirigenti di tutte le aree Pd escludono
contraccolpi, con un argomento semplice: non sarà una condanna in più o
in meno a cambiare il giudizio sull’uomo col quale abbiamo deciso di
provare a governare senza alcuna illusione sulla sua probità.
Facile dirlo oggi. Nel caso, la volontà di tenuta andrà verificata
sotto la pressione di un’opinione pubblica interna e internazionale
rinfocolata dalla mannaia giudiziaria su Berlusconi. È facilmente
prevedibile che dall’interno dello stesso Pd a quel punto partirebbero
schegge di insofferenza.
Per questo è cruciale affrontare il passaggio rimanendo uniti, dando
l’idea di un Pd pronto e affidabile in ogni caso, in grado di scegliere
il meglio per il paese e di farlo coincidere col meglio per sé.
Non è quanto è uscito dall’ultima riunione di direzione. E ora
sarebbe stato pessimo se un rinvio delle decisioni congressuali avesse
lasciato negli occhi quella immagine dei democratici, e l’incertezza sui
tempi, sui modi, sui candidati e sul ruolo di colui che a destra
considerano il vero avversario in caso di elezioni ravvicinate. Non
andrà così, a quanto pare c’è la volontà di sciogliere i nodi. Speriamo.
C’è chi dice che un Renzi in campo possa funzionare come deterrente
alle bizze berlusconiane, quindi come polizza d’assicurazione per Letta.
Finché lo dicono i renziani, l’opinione ha un valore relativo. Sarebbe
utile se si dessero da fare per convincerne il presidente del consiglio.
lunedì 29 luglio 2013
«Chi sono io per giudicare un gay?»
Papa Francesco a tutto campo. «Scarano? Non era stinco di santo». «La borsa nera? Ci tengo Bibbia e rasoio». «Ratzinger in Vaticano? Come avere un nonno in casa». Poi apre a divorziati e separati: «E' ora della misericordia»
Pirellone, "50mila euro di consulenza al leghista Galli per la macroregione"
La denuncia arriva dal capogruppo pd alla Regione Lombardia: "Il governatore Maroni ha affidato l'incarico all'ex presidente della Provincia di Varese. Forse per compensare la sua mancata nomina ad assessore?"
Dario Galli, ex presidente leghista della Provincia di
Varese, oggi commissario dell'ente e già nel consiglio di
amministrazione di Finmeccanica, è stato nominato consulente "per lo
sviluppo di progetti speciali a livello macroregionale" dal presidente
della Regione Lombardia e leader della Lega, Roberto Maroni. E' quanto
riferisce il gruppo consiliare lombardo del Pd in una nota in cui si
parla di un "costo di 50mila euro" per la Regione.
"Sembra che per lo sviluppo dell'improbabile macroregione occorra un superconsulente - sostiene nella nota il capogruppo Alessandro Alfieri.
"Sembra che per lo sviluppo dell'improbabile macroregione occorra un superconsulente - sostiene nella nota il capogruppo Alessandro Alfieri.
Israele-Palestina I negoziati riaprono a Washington
Primarie aperte per non chiudere il Pd
di ILVO DIAMANTI
Il Partito Democratico procede verso il congresso. Si
svolgerà a fine novembre, ha garantito il reggente, Guglielmo Epifani.
Con quali regole, però, non si sa ancora. Le regole, d'altronde, non
scaldano il cuore dei militanti e degli elettori. Più sensibili ai
discorsi sui valori. Ai contenuti. Di cui, peraltro, si sente parlare
poco. Le regole, però, contengono i valori.
Li rendono possibili ed effettivi. E le procedure congressuali, attraverso cui vengono scelti i dirigenti e il leader, contribuiscono a definire l'identità stessa del partito. In particolare in questa fase, in cui le elezioni sono divenute un confronto fra persone. Cioè, tra leader di partito. Per questo la discussione avviata in questi giorni è tanto importante. E accesa. Perché serve a stabilire "cosa" e "chi" sarà il Pd. Due questioni che coincidono largamente.
Sono due gli argomenti che generano maggiore tensione. Il primo riguarda il rapporto fra partito e governo. Si traduce nella distinzione oppure la coincidenza fra segretario di partito e premier. L'indicazione del segretario e della maggioranza del Pd prevede l'incompatibilità fra i due ruoli. Un orientamento già sostenuto da Fabrizio Barca, nel suo documento, proposto alcuni mesi fa. Si tratta di una scelta diversa, rispetto alla breve storia del partito. Sia Veltroni sia Bersani, infatti, dopo essere stati eletti segretari, hanno guidato il Pd e gli alleati alle elezioni politiche. Naturalmente, questa distinzione marca la distanza fra il partito - che è "parte" - e il governo dello Stato - che è di tutti. Anche se in altre democrazie europee, come la Germania e l'Inghilterra, il leader del partito che vince le elezioni diviene, automaticamente, premier. Mentre in Francia, regime semi-presidenziale, il presidente è, di fatto, anche leader del suo partito. In Italia, però, la storica sovrapposizione fra Stato e partiti, formatasi durante il fascismo e riprodotta anche successivamente, rende difficile accettare la coincidenza di ruoli. In particolare oggi. In tempi di sfiducia verso i partiti e le istituzioni. E di polemica accesa contro i costi della politica. Tuttavia, nei fatti, è difficile dissociare i due ruoli. In particolare, guidare il governo senza il controllo sul partito. Come dimostra l'esperienza di Prodi. Tra il 1996 e il 1998: premier senza partito. In balia delle fluttuazioni dell'Ulivo - internamente e profondamente diviso. Mentre dieci anni dopo, nel 2008, la caduta del suo governo fu, se non favorita, almeno agevolata dall'elezione alla segreteria del Pd di Walter Veltroni. Non a caso, candidato premier alle elezioni politiche di quell'anno.
La seconda questione riguarda il "metodo" per designare il segretario. Fino ad oggi, è stato scelto attraverso primarie "aperte" agli elettori del Pd. Così sono stati eletti Veltroni, nel 2007, e Bersani, nel 2009. Le primarie hanno costituito, per questo, una sorta di "rito fondativo" che radica la legittimazione del partito, prima ancora della leadership, sul coinvolgimento dei militanti, ma anche degli elettori. D'altra parte, la partecipazione alle primarie può essere considerata una sorta di "iscrizione", visto che richiede la condivisione - e la sottoscrizione - dei valori e dei programmi del partito, ma anche il pagamento di una quota. Un'autodichiarazione esplicita a favore del partito.
Li rendono possibili ed effettivi. E le procedure congressuali, attraverso cui vengono scelti i dirigenti e il leader, contribuiscono a definire l'identità stessa del partito. In particolare in questa fase, in cui le elezioni sono divenute un confronto fra persone. Cioè, tra leader di partito. Per questo la discussione avviata in questi giorni è tanto importante. E accesa. Perché serve a stabilire "cosa" e "chi" sarà il Pd. Due questioni che coincidono largamente.
Sono due gli argomenti che generano maggiore tensione. Il primo riguarda il rapporto fra partito e governo. Si traduce nella distinzione oppure la coincidenza fra segretario di partito e premier. L'indicazione del segretario e della maggioranza del Pd prevede l'incompatibilità fra i due ruoli. Un orientamento già sostenuto da Fabrizio Barca, nel suo documento, proposto alcuni mesi fa. Si tratta di una scelta diversa, rispetto alla breve storia del partito. Sia Veltroni sia Bersani, infatti, dopo essere stati eletti segretari, hanno guidato il Pd e gli alleati alle elezioni politiche. Naturalmente, questa distinzione marca la distanza fra il partito - che è "parte" - e il governo dello Stato - che è di tutti. Anche se in altre democrazie europee, come la Germania e l'Inghilterra, il leader del partito che vince le elezioni diviene, automaticamente, premier. Mentre in Francia, regime semi-presidenziale, il presidente è, di fatto, anche leader del suo partito. In Italia, però, la storica sovrapposizione fra Stato e partiti, formatasi durante il fascismo e riprodotta anche successivamente, rende difficile accettare la coincidenza di ruoli. In particolare oggi. In tempi di sfiducia verso i partiti e le istituzioni. E di polemica accesa contro i costi della politica. Tuttavia, nei fatti, è difficile dissociare i due ruoli. In particolare, guidare il governo senza il controllo sul partito. Come dimostra l'esperienza di Prodi. Tra il 1996 e il 1998: premier senza partito. In balia delle fluttuazioni dell'Ulivo - internamente e profondamente diviso. Mentre dieci anni dopo, nel 2008, la caduta del suo governo fu, se non favorita, almeno agevolata dall'elezione alla segreteria del Pd di Walter Veltroni. Non a caso, candidato premier alle elezioni politiche di quell'anno.
La seconda questione riguarda il "metodo" per designare il segretario. Fino ad oggi, è stato scelto attraverso primarie "aperte" agli elettori del Pd. Così sono stati eletti Veltroni, nel 2007, e Bersani, nel 2009. Le primarie hanno costituito, per questo, una sorta di "rito fondativo" che radica la legittimazione del partito, prima ancora della leadership, sul coinvolgimento dei militanti, ma anche degli elettori. D'altra parte, la partecipazione alle primarie può essere considerata una sorta di "iscrizione", visto che richiede la condivisione - e la sottoscrizione - dei valori e dei programmi del partito, ma anche il pagamento di una quota. Un'autodichiarazione esplicita a favore del partito.
Tuttavia,
c'è chi preferirebbe rinunciare alle primarie, limitandole alla scelta
del candidato premier. Dunque, nell'ambito della coalizione. La scelta
del segretario, invece, dovrebbe avvenire attraverso congressi di
partito. Fra gli iscritti. Al più, come ha precisato Epifani, fra gli
"aderenti" (?). Come si vede, la discussione sulle regole evoca
questioni sostanziali. Che riguardano quale modello di partito insegua
il Pd. E, prima ancora, con quali progetti, contenuti, programmi.
Leader.
Invece, è difficile scacciare il sospetto che tutta, ma
proprio tutta, la discussione ruoti intorno al futuro di Matteo Renzi.
Che un'ampia parte del gruppo dirigente fatica ad accettare alla guida
del Pd. Renzi stesso, d'altronde, pare molto più interessato a
conquistare la guida del governo più che quella del partito.
Probabilmente, anche gli altri leader del Pd lo preferirebbero in quel
ruolo. Dopo l'esperienza delle elezioni recenti, è evidente come Renzi
sia in grado di allargare i consensi del centrosinistra. Di farlo
"vincere" davvero. Tuttavia, in questo momento, il posto di premier è
già occupato. Da un altro leader del Pd, Enrico Letta. Giovane e
accreditato nell'opinione pubblica. Letta guida una maggioranza che
riunisce gli avversari di sempre. Pd e Pdl. Un governo di emergenza e di
necessità. Così le strade di Renzi e di Letta sembrano incrociarsi e,
in parte, scontrarsi. La durata del governo, infatti, appare un
vantaggio per Letta e, comunque, un fattore di usura per Renzi. Così gli
avversari di Renzi scommettono sulla durata del governo. Mentre Renzi
sembra scommettere sulla fine delle larghe intese e del governo di
scopo. Al di là di valutazioni politiche: per ragioni interne al Pd.
Ammetto
che questa discussione non mi appassiona. E mi pare, anzi,
inaccettabile. Il Pd ha bisogno di una leadership autorevole e
condivisa. E, per questo, espressa attraverso il coinvolgimento degli
elettori. Il più largo possibile. Dunque, attraverso primarie aperte. Il
congresso, le primarie, devono offrire al Pd l'occasione per discutere
del presente e del futuro. Del Paese. Dell'economia, del lavoro e del
non lavoro. Delle riforme istituzionali ed elettorali. Ma anche di se
stesso. Perché il Pd è ancora, come lo definiva Berselli nel 2008, un
"partito ipotetico" . Un "partito incompiuto", chiarisce il politologo
Terenzio Fava, in un volume in uscita (per Aracne). Perché in costante
conflitto interno. Tra giovani e vecchi, centro e periferia, ex e
post/democristiani e comunisti... Fra "veltroniani", "dalemiani",
"rutelliani", "popolari", "ulivisti", "liberal", "teodem". E ancora:
renziani, giovani turchi, ecc. Per questo al Pd può far comodo questa
fase di sospensione, all'ombra di un governo sospeso. Ma un partito
sospeso non può durare a lungo. Per questo il congresso è una tappa
importante, decisiva. E deve essere affrontata in modo aperto. Senza
rete. Senza cercare regole per escludere o scoraggiare "qualcuno" in
particolare. Per la stessa ragione, se Renzi ambisce a guidare il
governo, domani, deve candidarsi a guidare il partito. Oggi. Per
progettare il futuro. Non "contro", ma "oltre" questo "governo di
servizio" - a tempo determinato. Perché senza conquistare il partito,
comunque, non riuscirà a governare molto a lungo.
La Repubblica 29 luglio 2013
Israele, via alla ripresa dei negoziati Rilasciati 104 detenuti palestinesi
Esteri
La Stampa 28/07/2013
- medio oriente
Il governo ordina le scarcerazioni
Via libera ai negoziati e alla liberazione dei detenuti
palestinesi. Dopo un dibattito drammatico di sei ore, in cui spaccature e
tensioni si sono manifestate con forza nella coalizione di governo, il
premier Benyamin Netanyahu ha ottenuto con 13 voti a favore, 7 contrari e
due astensioni il sì all’iniziativa del segretario di Stato John Kerry
sulle trattative israelo-palestinesi.
Il primo appuntamento, preliminare e tecnico, è in programma martedì a Washington. Dal governo Netanyahu ha incassato due puntelli importanti, necessari alla riuscita del progetto. Il primo: un assenso, molto sofferto, alla liberazione di 104 palestinesi detenuti in Israele da oltre 20 anni, da prima degli accordi di Oslo, per aver partecipato a fatti di sangue. Il secondo: l’impegno a far approvare alla Knesset (il parlamento) una legge che consenta di sottoporre ad un referendum qualsiasi accordo venga raggiunto con i palestinesi.
In questo modo Netanyahu si garantisce per i prossimi mesi la tenuta della coalizione governativa, malgrado la fronda del partito nazionalista Focolare ebraico. Di fronte a questi sviluppi la prima reazione dei dirigenti palestinesi è stata positiva. «Un passo avanti verso la pace», ha commentato il negoziatore palestinese Saeb Erekat. «Speriamo di riuscire a sfruttare questa circostanza».
La mattinata era iniziata con toni tempestosi e con picchetti di protesta sulla collinetta antistante la sede del governo a Gerusalemme. I parenti di israeliani uccisi negli anni Ottanta protestavano sonoramente contro l’imminente decisione di rimettere in libertà gli autori di quegli attentati. Nei loro volantini avevano pubblicato i numeri di telefono privati dei ministri che presto sono stati sommersi di accorati sms affinché non dessero a Netanyahu il voto desiderato. La seduta di governo si è aperta con forte ritardo. Come aveva già fatto ieri in una lettera aperta alla nazione, Netanyahu ha ribadito che la liberazione di quegli «assassini» (nell’ottica palestinese sono piuttosto «prigionieri di guerra» e «combattenti per la libertà ») gli provoca forti sofferenze. Eppure gli interessi della nazione, ha spiegato, devono avere la precedenza. A dargli manforte, la negoziatrice Tzipi Livni che, a quanto risulta, ha fatto ai ministri un discorso appassionato e travolgente.
La liberazione dei 104 palestinesi richiesti da Abu Mazen dunque si farà, ma in quattro scaglioni: il primo fra una decina di giorni, l’ultimo fra otto mesi circa. Un ministro ha spiegato che se nel frattempo i palestinesi compiranno «provocazioni» (ad esempio, portando avanti iniziative unilaterali in organizzazioni internazionali) le liberazioni si fermeranno. La spinosa questione della liberazione di arabi cittadini di Israele sarà rinviata fino all’ultimo. Le remore, dunque, sono ancora molte, e la fiducia reciproca scarseggia. Eppure, malgrado tutto, martedì a Washington Erekat, la Livni e il consigliere di Netanyahu Yitzhak Molcho prenderanno in mano l’agenda dei negoziati e ne discuteranno le modalità. In seguito, se tutto andrà per il verso giusto, le trattative israelo-palestinesi potranno finalmente decollare, dopo aver languito per circa quattro anni.
Il primo appuntamento, preliminare e tecnico, è in programma martedì a Washington. Dal governo Netanyahu ha incassato due puntelli importanti, necessari alla riuscita del progetto. Il primo: un assenso, molto sofferto, alla liberazione di 104 palestinesi detenuti in Israele da oltre 20 anni, da prima degli accordi di Oslo, per aver partecipato a fatti di sangue. Il secondo: l’impegno a far approvare alla Knesset (il parlamento) una legge che consenta di sottoporre ad un referendum qualsiasi accordo venga raggiunto con i palestinesi.
In questo modo Netanyahu si garantisce per i prossimi mesi la tenuta della coalizione governativa, malgrado la fronda del partito nazionalista Focolare ebraico. Di fronte a questi sviluppi la prima reazione dei dirigenti palestinesi è stata positiva. «Un passo avanti verso la pace», ha commentato il negoziatore palestinese Saeb Erekat. «Speriamo di riuscire a sfruttare questa circostanza».
La mattinata era iniziata con toni tempestosi e con picchetti di protesta sulla collinetta antistante la sede del governo a Gerusalemme. I parenti di israeliani uccisi negli anni Ottanta protestavano sonoramente contro l’imminente decisione di rimettere in libertà gli autori di quegli attentati. Nei loro volantini avevano pubblicato i numeri di telefono privati dei ministri che presto sono stati sommersi di accorati sms affinché non dessero a Netanyahu il voto desiderato. La seduta di governo si è aperta con forte ritardo. Come aveva già fatto ieri in una lettera aperta alla nazione, Netanyahu ha ribadito che la liberazione di quegli «assassini» (nell’ottica palestinese sono piuttosto «prigionieri di guerra» e «combattenti per la libertà ») gli provoca forti sofferenze. Eppure gli interessi della nazione, ha spiegato, devono avere la precedenza. A dargli manforte, la negoziatrice Tzipi Livni che, a quanto risulta, ha fatto ai ministri un discorso appassionato e travolgente.
La liberazione dei 104 palestinesi richiesti da Abu Mazen dunque si farà, ma in quattro scaglioni: il primo fra una decina di giorni, l’ultimo fra otto mesi circa. Un ministro ha spiegato che se nel frattempo i palestinesi compiranno «provocazioni» (ad esempio, portando avanti iniziative unilaterali in organizzazioni internazionali) le liberazioni si fermeranno. La spinosa questione della liberazione di arabi cittadini di Israele sarà rinviata fino all’ultimo. Le remore, dunque, sono ancora molte, e la fiducia reciproca scarseggia. Eppure, malgrado tutto, martedì a Washington Erekat, la Livni e il consigliere di Netanyahu Yitzhak Molcho prenderanno in mano l’agenda dei negoziati e ne discuteranno le modalità. In seguito, se tutto andrà per il verso giusto, le trattative israelo-palestinesi potranno finalmente decollare, dopo aver languito per circa quattro anni.
domenica 28 luglio 2013
Tonini: “Nessuna paura. La morte è un ritorno a Dio”
Michele Brambilla
Ravenna
Solo dopo un’ora di colloquio trovo la sfrontatezza per la domanda che mi ero ripromesso di rivolgere al cardinale più vecchio del mondo: ma lei, eminenza, non ha paura della morte? «No»: la risposta di Ersilio Tonini, 97 anni, arcivescovo emerito di Ravenna e di Cervia, è immediata e tanto vigorosa da far apparire quasi misterioso il contrasto tra una simile forza interiore e l’esile, minuta figura dell’uomo che la contiene. Sarà per via della fede: un cristiano pensa che la morte non sia la fine di tutto. Ma pensa o spera? La seconda domanda che faccio è ancora più irriverente: lei non ha mai dubbi di fede? «No», risponde ancora, «grazie a Dio non ho mai avuto dubbi», e probabilmente qualsiasi prelato avrebbe risposto così, ma il cardinal Tonini trasmette qualcosa che ti fa pensare: questo ci crede davvero.
Abita in due piccole stanze dell’Opera Santa Teresa del Bambino Gesù, un istituto per malati gravi. Ma non è qui perché stia poco bene, o per via dell’età: abita qui dal dicembre del 1975, quando salì sulla cattedra di Sant’Apollinare. Decise subito di lasciare l’appartamento riservato all’arcivescovo, in uno splendido palazzo, a una comunità di recupero per tossicodipendenti; e venne qui in quest’Opera Santa Teresa che è considerata il cuore della carità romagnola. Fu un gesto choccante, che mandò in crisi l’anticlericalismo tanto radicato da queste parti.
Sta bene. Per come può star bene un uomo di 97 anni: ma diciamo subito, tanto per prevenire la domanda che si fa sempre in questi casi, che è lucido. «Ho imparato a non aver paura della morte soprattutto quando sono stato parroco, a Salsomaggiore. Appena arrivato, una notte mi mandano a chiamare, c’è uno sta che sta morendo e vuole il prete. Ricordo ancora che mestiere faceva: il tassista. Mi dice: reverendo mi aiuti, voglio comparire dinnanzi a Dio con l’anima libera. Nella sua semplicità voleva offrire la propria morte come atto di restituzione della vita avuta in dono da Dio. Andava incontro alla morte con una serenità impensabile. Mi dissi: c’è sempre gente che ci supera, all’infinito, nella fede».
«Fare il parroco, stare in mezzo alla gente, per me è stata una grande lezione. Mi si è svegliato il senso dello stupore. E mi sono convinto che l’uomo è una meraviglia: davvero si capisce perché nella Bibbia è definito il capolavoro di Dio... Anche nelle persone che credevi più banali alla fine scopri risorse impensabili, un deposito segreto. L’uomo è una creatura tale che non può dissolversi nel nulla». L’ha detto tante volte ma non può non ricordarlo anche ora, nel momento in cui pensa alla sua fede che non è mai venuta meno: «Lo debbo ai miei genitori. Mia madre aveva la terza elementare, ma aveva il gusto di Dio. Quando stava per morire non aveva neppure 60 anni. Ci riunì tutti, noi eravamo cinque figli. Diede a ciascuno di noi il suo suggerimento. Era serena. Per me la famiglia è stato un dono infinito: ho vissuto la sapienza dei poveri, del mondo contadino». Gli chiedo se «parla» ancora con i suoi genitori: «Sì, certo, io li percepisco come vivi».
In un certo senso si considera un collega: ha cominciato a occuparsi di giornalismo nel 1947 dirigendo un settimanale diocesano; nel 1978 Paolo VI lo volle presidente del consiglio di amministrazione di «Avvenire», e vent’anni fa è andato in tv con Enzo Biagi per spiegare agli italiani che cosa sono i dieci comandamenti. Diventò allora un volto noto, la parola di Dio sul piccolo schermo. Nel 1994 Giovanni Paolo II lo nominò cardinale ed Enzo Biagi scrisse: «Non sarà facile per me chiamarlo eminenza. Diventerà un principe della Chiesa però io continuerò a vederlo come il pretino delle mie parti».
«Ero molto legato a Biagi, insieme girammo i teatri di tutta Italia per parlare dei comandamenti. Era vivace, anche puntiglioso in certi momenti, ma è stato geloso del suo mestiere, e questo per me è un merito. Io credo che il giornalismo abbia un grande compito storico, e credo che lo abbia svolto bene, credo che abbia aiutato questa generazione a essere attenta».
«Volevo molto bene anche a Montanelli. Quando, nel 1994, lasciò il Giornale, mi fece chiamare. Mi telefonarono: Montanelli ha bisogno di lei. Aveva voluto radunare alcuni amici. Fu un momento molto bello e mi commuovo ancora quando lo ricordo: si riconosceva che questo benedetto mestiere, o mestieraccio, è - volere o no - uno degli elementi decisivi per lo sviluppo della storia. Se il giornalismo è riuscito a diventare non solo un “fotografo” di quel che accade, ma anche un elemento attivo e positivo della storia, lo si deve anche a uomini come Biagi e Montanelli».
Diffida delle Cassandre, dei pessimisti in servizio effettivo e permanente: «Secondo me il mondo oggi è migliore di trenta o quaranta anni fa. Le racconto un piccolo episodio. Questo Papa, Benedetto XVI, all’inizio del suo pontificato, volle andare in un posto lontanissimo, non ricordo più quale, ma io mi chiedevo che cosa potesse interessargli proprio quell'angolo della terra, lui che si apprestava a ricoprire una responsabilità così grande... E poi ho capito: la novità dell’attuale momento storico è proprio l’universalità. Ci sono popoli che fino a pochi anni fa non avevano voce, e che ora si fanno sentire... L’avere trascurato per tanto tempo una così grande parte dei nostri fratelli è stato un errore enorme. Prenda l’Africa. Oggi l’Africa ci sta dicendo: ci siamo anche noi». E la Chiesa? «Anche la Chiesa oggi è in uno dei suoi momenti migliori. Io sono molto sereno sulla Chiesa di oggi. E questo Papa mi piace molto».
Gli chiedo come immagina il paradiso: «Come Dio che si manifesta nel suo splendore, nella bellezza totale. È difficile trovare parole appropriate. Ma sarà anche il momento in cui avremo la comprensione del tutto. E avremo lo stupore, che è la cosa più bella». Adesso è un po’ stanco, ci saluta. Ci accompagna nel corridoio, su un muro c’è un manifesto con scritto: «Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore».
Morto il cardinale Ersilio Tonini
Morto all'età di 99 anni il cardinale Ersilio Tonini. Conosciuto da
tutti come grande comunicatore e prete controcorrente, Tonini aveva
iniziato il seminario a 11 anni, a 23 era sacerdote. E' stato Giovanni
Paolo II nel 1994 a nominarlo cardinale. Si è spento all'Opera Santa
Teresa di Ravenna, dove alloggiava da molti anni, nella notte fra sabato
e domenica per complicazioni alle sue precarie condizioni di salute.
(RCD - Corriere Tv)
Nel paese delle banane tristi
per l'editoriale ho scelto di pubblicare questo articolo comparso su Europa come segno di solidarietà a una bella persona....quelle che fanno bella la politica. Riccardo
Filippo Sensi
Europa
L'episodio di Cervia pone sempre la stessa domanda: siamo diventati un paese razzista?
Avevo un pregiudizio positivo nei confronti delle banane, non
fosse altro per i Velvet Underground o Harry Belafonte. Mi hanno sempre
messo allegria, come gli elefanti. Quando il povero David Miliband e’
finito massacrato dai media per una sua foto con una banana in mano, ho
pensato alla potenza e alla spietatezza dei media britannici, sbagli un
frutto, e sei fregato a vita, sarai per sempre quello della banana.
Per questo, quando ho sentito del lancio di banane a Cervia
all’indirizzo del ministro Cecile Kyenge, ho pensato che basta, non ne
avrei più voluto sapere, mai piu’. Perché non mi fanno più ridere le
banane, e non mi fa ridere un Paese, il nostro, in cui succedono episodi
del genere. Non ho visto foto, né filmati, forse meglio così;
giornalisticamente dovrei stare lì a capire meglio, a sapere se poi
questi geni li hanno presi o meno, chi erano, se appartenevano a questa o
quella organizzazione politica. Ancora spero che non sia vero, che non
sia possibile, che sia solo una buccia, di banana.
Qualche giorno fa l’orango, le scuse impacciate, insufficienti di
Calderoli che ancora sta li a fare il vicepresidente del Senato, che
vergogna. Ora come allora il ministro ha dato mostra di una classe
dolente, di una amara ironia che la rende ancora più ammirevole in
questa Italia che, in una vertigine di cupio dissolvi, sembra volere
assomigliare sempre più alle peggiori barzellette sul suo conto, al suo
rovescio mostruoso, al suo peggio.
Sono pochi imbecilli, si dirà, qualcuno su Twitter, giustamente,
ricorda che non siamo solo l’Italia che tira le banane, siamo anche il
paese che conta fra i suoi ministri una persona così, equilibrata,
gentile, mite come dovrebbe essere la democrazia.
Mi chiedo, però: come si combatte tutto questo? E ancora, siamo
sempre stati così? O qualcosa si è rotto nella grammatica di un Paese
che si è sempre raccontato come non razzista, e invece. La domanda è
proprio questa: siamo un paese razzista? E ci siamo abituati a questo,
lo vediamo come un piccolo tributo da pagare magari alla
globalizzazione?
Esistono persone, spero poche, temo tante, che vivono la sola presenza di Cecile Kyenge al governo come una provocazione. Già, una provocazione. Una minaccia. Tale da poterla esorcizzare, evocando le bestie della giungla o tirando le banane a una giovane donna, mentre alla Casa Bianca siede un cinquantenne che si chiama Barack Obama, e anche da loro all’inizio gli sbagliavano il nome (da noi pure, si dice chienghe, per chi deve fare i servizi alla radio e alla tv).
Esistono persone, spero poche, temo tante, che vivono la sola presenza di Cecile Kyenge al governo come una provocazione. Già, una provocazione. Una minaccia. Tale da poterla esorcizzare, evocando le bestie della giungla o tirando le banane a una giovane donna, mentre alla Casa Bianca siede un cinquantenne che si chiama Barack Obama, e anche da loro all’inizio gli sbagliavano il nome (da noi pure, si dice chienghe, per chi deve fare i servizi alla radio e alla tv).
Forse semplicemente, anche a furia di Calderoli e di Borghezio, siamo
diventati quello che siamo, un posto in cui una donna viene insultata
per il colore della pelle, un posto in cui questa stessa donna e’
esponente di un esecutivo; un posto in cui ti chiamano orango e ti
tirano le banane per il colore della tua pelle, un posto in cui siamo
sempre più stufi che la stupidità di qualcuno ci ricordi da dove
veniamo, fosse chissà dove andiamo. Un posto, insomma, dove perfino le
banane sono diventate tristi.
A proposito di comportamenti indegni. di Alfredo Bazoli
E’ successo questo: in questi giorni siamo stati in aula due giorni ininterrotti per l’ostruzionismo dei grillini. Ovviamente durante la notte le presenze erano molto diradate, e tuttavia i deputati del M5S si sono avvicendati nelle dichiarazioni di voto senza alcuna interruzione.
La prima notte, verso l’una, mi pare, l’aula era semi deserta, presenti non più di una sessantina di parlamentari, soprattutto giovani, di cui una buona metà del partito democratico, tra cui anche io. Clima rilassato, distratto, incline all’ironia, come in tutte le occasioni di sedute fiume di qualunque assemblea.
Prende la parola un deputato grillino sconosciuto ai più, che parla
interrompendosi spesso, con alcune pause tra una frase a l’altra.
L’impressione è che sia un po’ emozionato, e che continui a smarrire il
filo del discorso. Presiede l’aula in quel momento il vicepresidente Di
Maio, del M5S, che a metà discorso lo interrompe e gli chiede se se la
sente di perseguire, ottenendo una risposta affermativa. Qualche collega
sorride, nel sentire distrattamente questo grillino impacciato ed
emozionato, alcuni si chiedono ad alta voce se non abbia scambiato o
smarrito i fogli del suo discorso.
D’altro canto in molti dei loro interventi i deputati del M5S
lanciano accuse pesanti, anche offensive, all’indirizzo del PD, e ogni
tanto è anche piacevole farsi un po’ beffe di loro. L’intervento si
conclude nella distrazione generale, come era cominciato, fatti salvi i
generosi applausi che, come di consueto, si riservano tra loro i
grillini. Nessuno eccepisce nulla, tanto meno il presidente Di Maio.
Il giorno dopo qualche giornale rivela che si trattava di un deputato
affetto da sclerosi multipla, in difficoltà a parlare per la sua
malattia. Beppe Grillo, e i suoi accoliti, si scagliano contro i
deputati della maggioranza, accusandoli di aver preso in giro un uomo
malato, di indegnità morale, di comportamenti vergognosi.
Ora, io mi chiedo: chi è indegno in questa vicenda? Chi è così
abietto da utilizzare l’handicap di una persona per pura
strumentalizzazione politica, per gettare ulteriore discredito sui suoi
avversari? Questa vicenda, a me pare, rivela a quale livello Beppe
Grillo, ma insieme a lui tutti quei settori della società italiana e
dell’informazione che puntano sulla disarticolazione dei partiti, e così
sulla destrutturazione del sistema istituzionale, abbiano deciso di
portare lo scontro.
Non ci si arresta davanti a nulla pur di alimentare il disgusto nei
confronti della politica e dei partiti. Dentro il clima di sfiducia del
paese ci si può permettere di utilizzare anche i mezzi più infimi per
gettare discredito, sicuri che il messaggio passerà, che ogni
semplificazione, anche la più irragionevole, produrrà un’onda di
indignazione utile allo scopo. È la strategia di Casaleggio, che parla
di autunno caldo formulando un auspicio, più che una previsione,
all’insegna del tanto peggio tanto meglio, e che si avvale della tattica
di Grillo, e dei grillini, gli uomini del bianco e del nero, gli araldi
della visione superficiale, sostanzialmente incapaci di vedere le
sfumature, inadeguati a comprendere la complessità delle cose.
Ne sono sempre più convinto, non è quella la strada per recuperare
alla politica ciò che ha smarrito da tempo, vale a dire capacita’ di
visione, autorevolezza e serietà, tentativo che spetta invece a noi, e’
tutto sulle nostre spalle, pur in queste condizioni difficili, in questo
tempo così faticoso che ci è dato di attraversare.
sabato 27 luglio 2013
appello on line a Epifani: “Lasciate le regole dello statuto”
Guglielmo Epifani, Segretario Nazionale del Partito Democratico
Da iscritti o da elettori, sosterremo candidati diversi, anche in aperta
contrapposizione tra loro. Alcuni di noi pensano che il segretario
nazionale del Pd debba essere anche il nostro candidato Premier, altri
che sia più utile tenere distinte le due figure. Una alternativa di cui
certamente continueremo a discutere e che in ogni caso non può essere
risolta una volta per tutte da una norma che rigidamente imponga una
delle due soluzioni. Ma, insieme, chiediamo con forza che il Congresso
si svolga nei tempi e nei modi fissati dallo Statuto, come nel 2009.
Agli eletti e ai dirigenti del PD chiediamo di sottoscrivere questo appello, rivolto al Segretario Nazionale Guglielmo Epifani.
Quando abbiamo fondato il PD abbiamo scelto di dare valore alle regole della nostra democrazia interna. Perché il PD non è un partito personale, di proprietà dei dirigenti pro tempore. E nel PD quindi i dirigenti pro tempore non possono modificare le regole a piacimento.
Tutti i democratici non si stancheranno mai di condannare il blitz con cui una maggioranza parlamentare non più tale tra i cittadini, quando il suo mandato stava per concludersi, decise di cambiare il sistema elettorale al solo scopo di limitare i danni di una sconfitta elettorale imminente e al costo di rendere ingovernabile il Paese. Nel nostro partito non può accadere una cosa simile. Una segreteria di transizione e un gruppo dirigente eletto in un contesto ormai superato, a mandato concluso, non possono modificare lo Statuto. L’arbitro non può cambiare le regole nel momento in cui sarebbe invece suo dovere fischiare l’avvio di un confronto leale.
Per convocare il Congresso non c’è bisogno del resto di complesse elaborazioni. Sarebbe sufficiente che la Direzione Nazionale approvasse le poche righe che seguono:
Per convocare il Congresso non c’è bisogno del resto di complesse elaborazioni. Sarebbe sufficiente che la Direzione Nazionale approvasse le poche righe che seguono:
«Le elezioni del Segretario e dell’assemblea Nazionale, dei Segretari e delle Assemblee regionali sono indette ai sensi degli articoli 9 e 15 dello Statuto, secondo le modalità già previste dal Regolamento per l’elezione del Segretario e dell’Assemblea nazionale approvato dalla Direzione Nazionale del Partito Democratico il 26 giugno 2009. Ai fini della sua applicazione, tutte le date fissate dal citato Regolamento sono riferite all’anno 2013 e modificate in modo che le elezioni finali, aperte a tutti gli elettori del partito democratico che decidano di essere registrati nell’apposito Albo, anche al momento del voto, siano convocate per il 17 novembre 2013. Ai sensi dei rispettivi Statuti regionali, le Direzioni Regionali deliberano, entro il 10 settembre, le modalità delle elezioni dei Segretari provinciali e di circolo che dovranno comunque svolgersi in concomitanza con le riunioni di circolo di cui all’articolo 4 del citato Regolamento Nazionale. In caso di mancata approvazione del regolamento regionale entro il 15 settembre 2013, provvede la Commissione nazionale.»
Agli eletti e ai dirigenti del PD chiediamo di sottoscrivere questo appello, rivolto al Segretario Nazionale Guglielmo Epifani.
Quando abbiamo fondato il PD abbiamo scelto di dare valore alle regole della nostra democrazia interna. Perché il PD non è un partito personale, di proprietà dei dirigenti pro tempore. E nel PD quindi i dirigenti pro tempore non possono modificare le regole a piacimento.
Tutti i democratici non si stancheranno mai di condannare il blitz con cui una maggioranza parlamentare non più tale tra i cittadini, quando il suo mandato stava per concludersi, decise di cambiare il sistema elettorale al solo scopo di limitare i danni di una sconfitta elettorale imminente e al costo di rendere ingovernabile il Paese. Nel nostro partito non può accadere una cosa simile. Una segreteria di transizione e un gruppo dirigente eletto in un contesto ormai superato, a mandato concluso, non possono modificare lo Statuto. L’arbitro non può cambiare le regole nel momento in cui sarebbe invece suo dovere fischiare l’avvio di un confronto leale.
Per convocare il Congresso non c’è bisogno del resto di complesse elaborazioni. Sarebbe sufficiente che la Direzione Nazionale approvasse le poche righe che seguono:
Per convocare il Congresso non c’è bisogno del resto di complesse elaborazioni. Sarebbe sufficiente che la Direzione Nazionale approvasse le poche righe che seguono:
«Le elezioni del Segretario e dell’assemblea Nazionale, dei Segretari e delle Assemblee regionali sono indette ai sensi degli articoli 9 e 15 dello Statuto, secondo le modalità già previste dal Regolamento per l’elezione del Segretario e dell’Assemblea nazionale approvato dalla Direzione Nazionale del Partito Democratico il 26 giugno 2009. Ai fini della sua applicazione, tutte le date fissate dal citato Regolamento sono riferite all’anno 2013 e modificate in modo che le elezioni finali, aperte a tutti gli elettori del partito democratico che decidano di essere registrati nell’apposito Albo, anche al momento del voto, siano convocate per il 17 novembre 2013. Ai sensi dei rispettivi Statuti regionali, le Direzioni Regionali deliberano, entro il 10 settembre, le modalità delle elezioni dei Segretari provinciali e di circolo che dovranno comunque svolgersi in concomitanza con le riunioni di circolo di cui all’articolo 4 del citato Regolamento Nazionale. In caso di mancata approvazione del regolamento regionale entro il 15 settembre 2013, provvede la Commissione nazionale.»
Pd, appello on line: “Lasciate le regole dello statuto”.
Sindaci renziani all’attacco
Già più di 800 firme a sostegno di una lettera aperta a Epifani rilanciata tra gli altri da Pippo Civati. Zanonato: "Alla gente non interessano le beghe interne". I fedelissimi del sindaco di Firenze: "Mossa scorretta e grottesca". Cofferati: "Un passo indietro incomprensibile"
...L’arbitro non può cambiare le regole mentre dovrebbe fischiare l'inizio...
Brescia: Avanzata dei renziani nel Partito democratico
Verso il congresso Dopo la vittoria in Loggia sono iniziate le manovre interne
Nove gruppi, cresce l'influenza del sindaco di Firenze
Renzi a Brescia per la campagna elettorale di Del Bono (Fotogramma)
Pd in subbuglio a Brescia: una galassia in movimento che registra
nuovi posizionamenti interni, alleanze che cambiano, strategie che
divergono. A segnare novità negli equilibri interni al Pd bresciano
contribuiscono le prossime scadenze, locali e nazionali, i congressi del
partito e la sorte del governo, la sua durata, l'eventualità di nuove
elezioni più o meno ravvicinate.
A leggere la mappa del maggiore partito del centrosinistra a Brescia si contano,
con consistenza numerica e «peso» anche politico diverso l'una
dell'altra, almeno otto aree. Quella più strutturata e organizzata, la
più presente sull'esterno nel dibattito politico nazionale e cittadino,
promotrice di frequenti interventi e iniziative, è l'area di sinistra,
il Cipec, Centro di iniziative politiche e culturali. Provengono dalle
fila ex Ds il leader, il senatore Paolo Corsini, sindaco di Brescia dal
'98 al 2008, affiancato da Claudio Bragaglio, lunga esperienza nel
partito e nelle istituzioni che, dopo la decisione di non ricandidarsi
al consiglio comunale di Brescia, continua l'impegno attivo nel partito.
Presenza di spicco nel Cipec anche quella di Paolo Pagani responsabile a
livello provinciale per il tema del lavoro, ma altrettanto di spicco la
presenza femminile. Provengono dai Ds anche nel gruppo donne del Cipec
Serafina Bandera, Rosangela Comini e Laura Parenza oggi consigliere in
Loggia.
Area più piccola ma di peso politico in crescita quella
cattolica, il gruppo dei «lettiani», di cui è leader l'onorevole Guido
Galperti da sempre legato all'attuale presidente del consiglio. All'area
fa riferimento Gianantonio Girelli consigliere regionale. Attorno a
Girelli si è aggregata una squadra di giovani (qualcuno li ha battezzati
i «girellini») che ricoprono ruoli nel partito e sostengono il
consigliere nel suo impegno in Regione Lombardia: ci sono tra gli altri
Matteo Grandelli responsabile organizzativo del partito, Nicola Del Bono
e Alessandro Duina entrambi collaboratori del gruppo regionale Pd. Fra i
lettiani anche Pierluigi Mottinelli, consigliere provinciale, che
rinsalda il legame dell'area con la Valcamonica.
Del Pdb, acronimo
di «Partire da Brescia», nato nel 2009 in occasione delle primarie per
il segretario provinciale (il gruppo sostenne la candidatura di Riccardo
Frati, ma poi non fece mancare la maggioranza al segretario eletto
Pietro Bisinella) fanno parte renziani doc come il sindaco di Paderno
Franciacorta Antonio Vivenzi (coordinatore provinciale dei comitati a
sostegno del sindaco di Firenze) ma anche Gianluca Del Barba consigliere
di amministrazione di Cogeme e Mara Bergomi. Con la partecipazione di
Renzi alle primarie il gruppo si è avvicinato ai cattolici democratici,
gruppo di cui fa parte il deputato Alfredo Bazoli ma da cui s'è sfilata
l'on. Marina Berlinghieri.
«Delboniani», forti per numero di
iscritti e di voti in città, i fedelissimi del sindaco, tra cui Valter
Muchetti oggi assessore e il presidente del consiglio comunale Giuseppe
Ungari. «Delboniani» ci sono anche in provincia, come il capogruppo Pd
in Broletto Diego Peli, ma anche il sindaco di Iseo Riccardo
Venchiaruti, vicino al gruppo è Aldo Rebecchi. Vicinissimi a Del Bono,
definiti «Nordisti» per l'appartenenza alla zona nord di Brescia, dove
c'è uno dei circoli più attivi e numerosi del Pd, il segretario
cittadino Giorgio De Martin, Gigi Fondra, attuale assessore, Roberto
Cammarata, Gianbattista Ferrari. Al circolo è iscritto anche Pierangelo
Ferrari, ex Ds dirigente storico del partito, tuttora fra i leader più
influenti. Nella geografia interna del Pd anche «Libertà Eguale», con
Giovanni Fornoni, area liberaldemocratica e Niccolò Gatta di spiccate
simpatie. Infine i «camuni», area a forte connotazione territoriale:
sindaci della Valcamonica come Corrado Tomasi e Mario Bezzi, vicini a
Renzi e, tra i gruppi minori, «Prossima Brescia», con Louise Bonzoni e
Ciro Ramaschiello, vicini a Pippo Civati.
Italia Brontesi
Corriere della sera Brescia
Egitto, strage nella notte al Cairo I Fratelli musulmani: 200 vittime
La denuncia del partito di Morsi: «L’Esercito ha sparato sulla folla».
Il governo nega: «Solo lacrimogeni»
Condanna dell’Ue: «Basta violenze»
Il governo nega: «Solo lacrimogeni»
Condanna dell’Ue: «Basta violenze»
Dopo il venerdì di proteste al Cairo si è scatenato l’inferno. Nella capitale, dove si erano radunati migliaia di i manifestanti pro e anti-Morsi si sono verificati violenti scontri che hanno visto anche l’intervento dell’Esercito.
Fonti vicine ai Fratelli Musulmani riferiscono che il bilancio sarebbe salito a oltre duecento morti e potrebbe addirittura peggiorare. Secondo quanto denunciato da Gehad el-Haddad, portavoce della formazione islamista cui fa capo lo stesso Morsi le forze di sicurezza egiziane avrebbero compiuto un vero e proprio agguato contro il sit-in a oltranza, organizzato dai Fratelli Musulmani nella parte nord-orientale del Cairo per esprimere sostegno al deposto presidente Mohamed Morsi. «Non sparano per ferire, ma per uccidere», afferma Gehad El-Haddad, aggiungendo che i dimostranti sono stati colpiti alla testa e al petto.
Il ministero dell’Interno egiziano ha subito smentito di aver usato proiettili contro i manifestanti pro Morsi e ha accusato i Fratelli musulmani di avere aperto il fuoco. Smentite sono arrivate anche dalla polizia che attraverso il il generale Hany Abdel Latif ha puntato il dito contro gli islamisti considerati responsabili delle violenze. Gli agenti, ha detto Latif in un comunicato diffuso dalla televisione, «non hanno usato nient’altro che i gas lacrimogeni».
L’Ue condanna con forza la perdita di vite umane causata degli incidenti avvenuti durante le manifestazioni di ieri e segue con preoccupazione quanto sta avvenendo in Egitto. In una nota, Catherine Ashton, l’Alto rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza, invita inoltre le autorità responsabili ad interim della guida del Paese a garantire lo svolgimento di ordinate e pacifiche dimostrazioni e rivolge un appello a tutte le parti affinché si astengano da atti di violenza.
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