mercoledì 23 ottobre 2013

Il Partito bad company: la rivoluzione di Renzi

Avere meno di 40 anni e disinteressarsi del ceto politico è di per sé una rottura
  
Di Matteo Renzi, che fra poco più di un mese guiderà il maggior partito italiano e che fra sei mesi potrebbe addirittura sedere a palazzo Chigi, sappiamo meno di quanto sapessimo di Silvio Berlusconi nel febbraio del ’94. Per esempio, la sua giovane età ci consegna una biografia necessariamente succinta, dove i successi e gli errori sono, per dir così, in miniatura. Non sappiamo poi quale squadra intenda mettere in campo, quali siano i suoi uomini migliori, quale rete di relazioni si stia formando intorno al leader.
Qualcuno aggiunge anche che di Renzi non conosciamo le idee, le proposte, i programmi. Ma questa è una sciocchezza: non tanto perché anche il sindaco di Firenze si è diligentemente sottoposto, come gli altri tre candidati, al rito del documento congressuale, ma perché avere meno di quarant’anni e disinteressarsi del ceto politico è di per sé, nell’Italia politica di oggi, un programma rivoluzionario.
Non so se Renzi terrà fede alla sua scapigliatura e saprà approfittare con coraggio e determinazione dell’immensa libertà che si è conquistato sulle macerie della sinistra italiana: ma se davvero rimarrà sindaco di Firenze – ecco un’altra pietra angolare del suo programma – mezza rivoluzione sarà già compiuta. Renzi infatti non è un’opzione politica interna al Pd così come l’abbiamo conosciuto in questi anni: è il suo accantonamento senza se e senza ma. Il Pd è la bad company della sinistra italiana: allontanarsene anche fisicamente è il gesto inaugurale della nuova stagione.
Fra i critici di Renzi c’è chi ricorda l’esempio di Tony Blair, che prima di conquistare il governo conquistò il partito, e lo rifece a sua immagine e somiglianza. Faccia dunque il segretario a tempo pieno, suggeriscono costoro, perché il lavoro da fare è tanto faticoso quanto necessario. Ma noi non siamo la Gran Bretagna, e non lo saremo mai. Il problema in Italia non è fare un partito renziano, ma impedire al partito (ai partiti) di uccidere Renzi. Diventare segretario del partito non serve a rifondarlo, cambiarlo, ristrutturarlo: è semmai il modo migliore per impedirgli di nuocere.
Nella scommessa di Renzi c’è un nocciolo autenticamente innovativo perché radicale: il male della politica inefficiente e corrotta sta nella radice, e questa radice sono i partiti, ridotti da anni a fabbriche di ceto politico e uffici di collocamento per tutti gli sfigati che non trovano lavoro sul libero mercato. Di questi partiti non c’è più bisogno: di certo, non dovrà averne bisogno Renzi.
I conservatori, giustamente, sono terrorizzati: non perché perderanno il congresso, ma perché viene loro sottratto il giocattolo che li ha intrattenuti per settant’anni: il Partito. Con la maiuscola, naturalmente. Identitario e protettivo, autoreferenziale e rassicurante. Che non deve essere “un trampolino per il governo”, perché governare è meno nobile che chiacchierare. Che non prevede “un uomo solo al comando”, perché tutti – capicorrente e portaborse, vecchie glorie e giovani turchi – devono avere la loro parte.  Questa idea del partito, la cui origine sta nel fatto che il Pci, non potendo governare l’Italia, doveva comunque intrattenere i propri militanti, è definitivamente in crisi.
Non è naturalmente un caso se la conclusione del ciclo post-comunista coincide con l’esaurimento della spinta propulsiva berlusconiana: la lunga agonia del Pci, che strada facendo ha inglobato un pezzo di sinistra Dc in un amalgama talmente ben riuscito da terrorizzare gli elettori spingendoli a votare Monti e persino Grillo, o a non votare affatto, è finalmente giunta a conclusione. I (post) comunisti continueranno a esistere – come anche i berlusconiani – ma il loro ruolo sarà d’ora in avanti marginale: e marginale diventerà così anche la sudditanza alla Cgil, alle procure e a Repubblica.
In un paese normale non dovrebbe avere alcun significato su quale giornale si scrive: dovrebbe contare soltanto che cosa, e come, si scrive. Qui da noi non è così, e i giornali tendono ad essere più militanti (e più monolitici) dei partiti. Collaborare con Europa – che non è né un partito né tantomeno un monolite, ma certo non è un giornale estraneo al Pd – significa per me prima di tutto entrare in un gruppo di lavoro animato da una schietta passione politica e da una sana curiosità intellettuale, che prova a ripensare la sinistra senza alcuna nostalgia per quella che ha trasformato l’exploit di un imprenditore di talento in un ventennio di barbarie politica. Siamo all’anno zero, finalmente, ed è un’ottima notizia.

Fabrizio Rondolino

Europa-23/10/2013

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