domenica 19 gennaio 2014

Un patto forte e positivo. Che ha bisogno di altri contraenti

Stefano Menichini 
Europa

Renzi ha sfondato il muro, l'intesa con Berlusconi è ampia ben oltre il sistema elettorale. Letta dà il via libera e riduce il margine di resistenza di Alfano. Ma l'adesione degli altri partiti rimane essenziale.
Il fatto in sé è enorme. O meglio, promette di essere enorme, in attesa di verificare se e come la promessa sarà mantenuta: per la prima volta in vent’anni di bipolarismo, i due partiti maggiori trovano un accordo su una riforma ampia dell’intero sistema istituzionale, quindi non limitata all’urgenza della legge elettorale. Un risultato al quale si è andati vicini già in passato, sempre avendo Berlusconi come interlocutore. E che sempre è venuto meno perché i calcoli di parte del capo del centrodestra l’hanno fatto saltare.
Questa volta pare essere molto diverso. Il lungo incontro al Nazareno non ha offerto assolutamente nulla al teatro e alla spettacolarizzazione (nessuna foto, nessun accostamento tra Berlusconi e il segretario del Pd e perfino l’edificio del Pd, impatto simbolico ridotto quasi a zero), in compenso ha avuto molta sostanza. L’accordo dichiarato da Renzi («profonda sintonia con Forza Italia») e confermato da Berlusconi è una cosa molto seria, molto ampia e molto ambiziosa. Stavolta non si vede l’interesse di Berlusconi a far saltare il tavolo: tutti notano (da sinistra con amarezza) il suo «rientro sulla scena», in più l’ampiezza del programma di riforma allontana la scadenza elettorale, che era uno degli obiettivi non dichiarati di un partito forzista sbandato.
Per la parte di Renzi, c’è poco da aggiungere a quanto s’è già detto e scritto: se questa riforma davvero prendesse corpo, il nuovo segretario del Pd assurgerebbe a poche settimane dall’insediamento al ruolo di deus ex machina dell’intero sistema politico, colui che è riuscito dove un’intera generazione di leader (che si ritenevano e si ritengono tanto più “solidi” di lui) ha fallito e anzi ha perduto credibilità e potere. Renzi potrebbe presentarsi all’opinione pubblica come colui che forza la mano, vince le resistenze della vecchia politica e consegna al paese un sistema istituzionale più leggero, più economico, più efficiente.
Naturalmente c’è un paradosso in questa strana serata. Ed è che un accordo che mira esplicitamente a «eliminare il potere di veto dei piccoli partiti» (Renzi) e «rafforzare i grandi partiti» (Berlusconi) ha un futuro solo se troverà da qui a lunedì l’adesione di Scelta civica, di Sel e soprattutto del Ncd di Alfano. Il che giustifica le parole ancora generiche del segretario del Pd a proposito degli aspetti specifici del nuovo sistema: si sa che si ispira al modello spagnolo; si sa che avrà circoscrizioni molto piccole con liste bloccate di candidati; si sa che prevederà un premio di maggioranza a chi raggiunge la soglia del 35 per cento. Molti altri aspetti rimangono aperti, a cominciare dal metodo di ripartizione dei seggi, che se fosse nazionale equivarrebbe a una forte ri-proporzionalizzazione, fin quasi a somigliare all’attuale Porcellum.
Si possono poi nutrire dubbi sul successo delle riforme costituzionali, visto che entrambe mirano a colpire e ridimensionare drasticamente alcune istituzioni che sono anche autentici centri di potere: il Senato e, perfino più del senato, le Regioni. Quando l’iter legislativo partirà, se partirà davvero, entreranno in campo formidabili stopper, giocatori di lobby agguerrite.
Anche per queste future difficoltà, nell’incontrarsi e nel trovarsi d’accordo stasera Pd e Forza Italia devono riconoscere di non essere autosufficienti. Né politicamente (per le conseguenze insostenibili che avrebbe una rottura tra Pd e alleati), né di conseguenza a livello parlamentare: qualsiasi legge verrebbe affossata nel segreto dell’urna alla Camera, se dovesse essere il simbolo di un patto fra Renzi e Berlusconi escludente e penalizzante per tutti gli altri.
Questo riconoscimento di non autosufficienza indurrà, temo, a un annacquamento della portata maggioritaria del sistema. E che sia così lo si capisce dalle primissime reazioni, che sono di orgogliosa rivendicazione di ruolo da parte di Sc e Ncd, formazioni che però non si tirano affatto indietro.
Di grande significato poi la posizione di Enrico Letta, che dà l‘imprimatur a un intero processo riformatore che – se dovesse effettivamente avviarsi – farà lavorare il parlamento per mesi e accompagnerà l’opera del governo fino al 2015: ciò che volevano il presidente del consiglio e il presidente della repubblica. Lo schierarsi di Letta toglie obiettivamente molti margini di manovra alla resistenza del suo vice Alfano.
Infine, le ricadute a sinistra, o meglio nel Pd. Si avverte navigando nel web la rabbia di chi non può proprio ascoltare il concetto di «profonda sintonia» associato a Berlusconi, e che considera Renzi responsabile di averlo rimesso in gioco.
In realtà Berlusconi, anche fuori dal parlamento, non è mai stato veramente fuori gioco a partire dal febbraio scorso, dalla sera dei risultati elettorali. Ci saranno mal di pancia, ci saranno tensioni, ci saranno polemiche. Ci sarà anche una discussione sul sistema elettorale che potrebbe vedere scontenti anche i sostenitori di un maggioritario più forte e genuino, quindi alcuni renziani o neo-renziani. Ma se l’accordo si allarga e prende corpo, prenderà anche una forza irresistibile, soprattutto per suo valore di risposta a una diffusa e fin qui insoddisfatta domanda popolare di riforma della politica: alla fine il Pd, tutto il Pd e anzi tutto il centrosinistra, potrà essere protagonista di uno sblocco del sistema del quale sarà il primo ad avvantaggiarsi.

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