Renzi ha sfondato il muro, l'intesa con Berlusconi è ampia ben
oltre il sistema elettorale. Letta dà il via libera e riduce il margine
di resistenza di Alfano. Ma l'adesione degli altri partiti rimane
essenziale.
Il fatto in sé è enorme. O meglio, promette di essere enorme, in
attesa di verificare se e come la promessa sarà mantenuta: per la prima
volta in vent’anni di bipolarismo, i due partiti maggiori trovano un
accordo su una riforma ampia dell’intero sistema istituzionale, quindi
non limitata all’urgenza della legge elettorale. Un risultato al quale
si è andati vicini già in passato, sempre avendo Berlusconi come
interlocutore. E che sempre è venuto meno perché i calcoli di parte del
capo del centrodestra l’hanno fatto saltare.
Questa volta pare essere molto diverso. Il lungo incontro al Nazareno
non ha offerto assolutamente nulla al teatro e alla
spettacolarizzazione (nessuna foto, nessun accostamento tra Berlusconi e
il segretario del Pd e perfino l’edificio del Pd, impatto simbolico
ridotto quasi a zero), in compenso ha avuto molta sostanza. L’accordo
dichiarato da Renzi («profonda sintonia con Forza Italia») e confermato
da Berlusconi è una cosa molto seria, molto ampia e molto ambiziosa.
Stavolta non si vede l’interesse di Berlusconi a far saltare il tavolo:
tutti notano (da sinistra con amarezza) il suo «rientro sulla scena», in
più l’ampiezza del programma di riforma allontana la scadenza
elettorale, che era uno degli obiettivi non dichiarati di un partito
forzista sbandato.
Per la parte di Renzi, c’è poco da aggiungere a quanto s’è già detto e
scritto: se questa riforma davvero prendesse corpo, il nuovo segretario
del Pd assurgerebbe a poche settimane dall’insediamento al ruolo di deus ex machina dell’intero
sistema politico, colui che è riuscito dove un’intera generazione di
leader (che si ritenevano e si ritengono tanto più “solidi” di lui) ha
fallito e anzi ha perduto credibilità e potere. Renzi potrebbe
presentarsi all’opinione pubblica come colui che forza la mano, vince le
resistenze della vecchia politica e consegna al paese un sistema
istituzionale più leggero, più economico, più efficiente.
Naturalmente c’è un paradosso in questa strana serata. Ed è che un
accordo che mira esplicitamente a «eliminare il potere di veto dei
piccoli partiti» (Renzi) e «rafforzare i grandi partiti» (Berlusconi) ha
un futuro solo se troverà da qui a lunedì l’adesione di Scelta civica,
di Sel e soprattutto del Ncd di Alfano. Il che giustifica le parole
ancora generiche del segretario del Pd a proposito degli aspetti
specifici del nuovo sistema: si sa che si ispira al modello spagnolo; si
sa che avrà circoscrizioni molto piccole con liste bloccate di
candidati; si sa che prevederà un premio di maggioranza a chi raggiunge
la soglia del 35 per cento. Molti altri aspetti rimangono aperti, a
cominciare dal metodo di ripartizione dei seggi, che se fosse nazionale
equivarrebbe a una forte ri-proporzionalizzazione, fin quasi a
somigliare all’attuale Porcellum.
Si possono poi nutrire dubbi sul successo delle riforme
costituzionali, visto che entrambe mirano a colpire e ridimensionare
drasticamente alcune istituzioni che sono anche autentici centri di
potere: il Senato e, perfino più del senato, le Regioni. Quando l’iter
legislativo partirà, se partirà davvero, entreranno in campo formidabili
stopper, giocatori di lobby agguerrite.
Anche per queste future difficoltà, nell’incontrarsi e nel trovarsi
d’accordo stasera Pd e Forza Italia devono riconoscere di non essere
autosufficienti. Né politicamente (per le conseguenze insostenibili che
avrebbe una rottura tra Pd e alleati), né di conseguenza a livello
parlamentare: qualsiasi legge verrebbe affossata nel segreto dell’urna
alla Camera, se dovesse essere il simbolo di un patto fra Renzi e
Berlusconi escludente e penalizzante per tutti gli altri.
Questo riconoscimento di non autosufficienza indurrà, temo, a un
annacquamento della portata maggioritaria del sistema. E che sia così lo
si capisce dalle primissime reazioni, che sono di orgogliosa
rivendicazione di ruolo da parte di Sc e Ncd, formazioni che però non si
tirano affatto indietro.
Di grande significato poi la posizione di Enrico Letta, che dà l‘imprimatur a
un intero processo riformatore che – se dovesse effettivamente avviarsi
– farà lavorare il parlamento per mesi e accompagnerà l’opera del
governo fino al 2015: ciò che volevano il presidente del consiglio e il
presidente della repubblica. Lo schierarsi di Letta toglie
obiettivamente molti margini di manovra alla resistenza del suo vice
Alfano.
Infine, le ricadute a sinistra, o meglio nel Pd. Si avverte navigando
nel web la rabbia di chi non può proprio ascoltare il concetto di
«profonda sintonia» associato a Berlusconi, e che considera Renzi
responsabile di averlo rimesso in gioco.
In realtà Berlusconi, anche fuori dal parlamento, non è mai stato
veramente fuori gioco a partire dal febbraio scorso, dalla sera dei
risultati elettorali. Ci saranno mal di pancia, ci saranno tensioni, ci
saranno polemiche. Ci sarà anche una discussione sul sistema elettorale
che potrebbe vedere scontenti anche i sostenitori di un maggioritario
più forte e genuino, quindi alcuni renziani o neo-renziani. Ma se
l’accordo si allarga e prende corpo, prenderà anche una forza
irresistibile, soprattutto per suo valore di risposta a una diffusa e
fin qui insoddisfatta domanda popolare di riforma della politica: alla
fine il Pd, tutto il Pd e anzi tutto il centrosinistra, potrà essere
protagonista di uno sblocco del sistema del quale sarà il primo ad
avvantaggiarsi.
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