mercoledì 22 gennaio 2014

La minoranza del partito divisa e quello strappo deciso prima.

Corriere della Sera del 22/01/14
Maria Teresa Meli
 

ROMA — Le dimissioni di Gianni Cuperlo sono di ieri. Ma in realtà il presidente dell’Assemblea nazionale del Pd aveva già deciso di dimettersi il giorno della direzione. Non dopo la replica di Matteo Renzi, però, bensì prima. Ossia al termine di una tormentata assemblea della minoranza che aveva preceduto la riunione del Nazareno.

Già, tormentata, perché a quell’appuntamento Cuperlo si era presentato sposando la linea dura. E proponendo di votare contro la relazione del leader. Ma quell’idea non ha fatto breccia. La maggioranza dei partecipanti a quell’incontro ha preferito la strada dell’astensione. Di fatto, anche se non formalmente, perché non c’è stato nessun voto interno in questa occasione, la proposta del presidente non ancora dimissionario, l’altro ieri, è finita in minoranza. Cuperlo, perciò, non era dell’umore migliore per affrontare la direzione. E infatti, entrando nella sala della riunione, ha confidato subito le sue intenzioni: «Questo sarà il mio ultimo intervento da presidente». A sera, di fronte all’insistenza dei suoi, che tentavano di dissuaderlo, aveva promesso di «pensarci la notte».

Perciò non è stato l’affondo di Renzi a convincere allo strappo Cuperlo. La dinamica dei fatti spiega quindi perché il segretario non si sia dato troppo da fare per convincere Cuperlo a ripensarci. Primo, ha capito che le dimissioni sarebbero state date a prescindere. Secondo, vedendo che la minoranza è divisa tra i duri e i dialoganti e che questi ultimi hanno la meglio dal punto di vista numerico, il sindaco di Firenze non ritiene necessario dover tenere per forza tutti insieme. Tra l’altro, in quell’area le differenziazioni si basano anche sui personalismi. A nessuno è sfuggito, per esempio, il fatto che proprio quando Cuperlo ha indurito i toni, Fassina li ha ammorbiditi. E tutti scommettono sul fatto che si sia già aperta una contesa per la leadership di quell’area. Per questo motivo, Renzi non sembra fermarsi e sta già cercando di individuare un nuovo presidente con la parte «dialogante» della minoranza. Circola il nome dell’ex segretario Guglielmo Epifani, ma c’è anche chi assicura che sarà una donna a sedere su quella poltrona.

Questa, però, è la fotografia della minoranza in direzione. E non è sovrapponibile a quella dei gruppi parlamentari. Alla Camera come al Senato Renzi non ha la maggioranza dei parlamentari. In quei due palazzi i rapporti di forza sono rovesciati. Il che rappresenta un’insidia, come sa bene lo stesso segretario, che per questa ragione ha voluto incontrare ieri i deputati del Pd. Tocca a loro occuparsi della legge elettorale adesso. Ma le prese di posizione di bersaniani e dalemiani sono tutt’altro che rassicuranti. Anche quella fetta della minoranza che è disposta a confrontarsi con il segretario, propone degli aggiustamenti alla revisione del Porcellum, concordata con Berlusconi. E siccome alla Camera c’è il voto segreto, il rischio è che passi qualche emendamento non gradito né al leader del Pd, né al gran capo di Forza Italia. Non quelli sulle preferenze, perché anche Alfano, nell’ultimo colloquio che hanno avuto, ha lasciato chiaramente intendere a Renzi che su quel fronte la sua sarà una battaglia di bandiera, su cui non spingerà l’acceleratore. No, il problema è un altro. È quello della soglia del 5% per i partiti che si coalizzano. Troppo alta. Su questo punto più di un esponente del Pd spinge il sindaco di Firenze, a trattare. Il rischio, infatti, è che, come dice un renziano della seconda ora, il Parlamento si trasformi in un «Vietnam per il segretario».

Finora, il leader del Pd ha sempre avuto la meglio perché ha giocato nel partito, forte del risultato ottenuto alle primarie. Ma nei palazzi della politica, dove i riti e i trucchi sono gli stessi della prima Repubblica, il segretario potrebbe impantanarsi e con lui potrebbero affondare anche le riforme. Però Renzi non teme questo scenario, che pure gli dipingono anche alcuni fedelissimi. La sua convinzione è che, alla fine, avrà la meglio: «Non ci sarà la palude». Tanta sicurezza gli deriva da due motivi. Il segretario è convinto che alla fine «prevarrà la disciplina di partito», perché gli ex pci l’hanno nel Dna. E il leader potrebbe avere ragione, da questo punto di vista, almeno sentendo parlare Matteo Orfini: «Non si possono presentare emendamenti di corrente alla riforma. Dopodiché quando si è scelta una linea, votandola a maggioranza, ci si attiene a quella». Già, per dirla con il veltroniano Walter Verini «la legge elettorale non è come la fecondazione assistita, non sono previsti casi di coscienza».

Però la vera carta su cui punta Renzi è un’altra. Come ha avuto modo di confidare ai suoi: «Tireranno la corda, però non fino a far saltare tutto, seppellendo il governo sotto le macerie e andando alle elezioni». Anche perché, pure se si votasse con la legge elettorale, frutto della sentenza della Consulta, le candidature le deciderebbe il segretario. E quelli che gli hanno teso una trappola in aula, difficilmente rivedrebbero i loro scranni parlamentari...




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