Oggi la direzione Pd di fronte a una novità: non è più la
trattativa sulle riforme a mettere a rischio il governo, bensì molto
spesso il contrario
Fino a oggi lo schema di ragionamento è sempre stato il
seguente: i tempi, i modi e l’esito della trattativa sulla riforma
istituzionale e sulla riforma elettorale condizioneranno la tenuta della
maggioranza e del governo. Sicché ogni mossa di Renzi sullo scacchiere è
stata puntualmente valutata in base ai danni o ai vantaggi che poteva
arrecare a Enrico Letta.
Ora forse bisogna cominciare a capovolgere lo schema. Lo fa intuire
una frase aspra del segretario del Pd, ma soprattutto è il pensiero che
monta un po’ in tutti i Palazzi della politica.
Perché cresce la consapevolezza che potrebbero non bastare, le
migliori intenzioni di lavorare in parlamento per tutto il 2014 sulla
riforma elettorale e su importanti modifiche della Costituzione come la
fine del bicameralismo. Renzi, non sappiamo quanto volentieri, si è
adattato a questa prospettiva di medio periodo. Napolitano l’ha sempre
caldeggiata e “protetta”. Quasi tutti i partiti, compreso Berlusconi
checché se ne dica, hanno trovato una convenienza nel programmare la
resa dei conti elettorale nel 2015.
Solo che, per quanto non più “aggredito” dalla fretta di nessuno, il
governo sembra non farcela di suo. E la domanda non è più: i partiti
daranno a Letta il tempo di lavorare? Bensì: Letta reggerà per il tempo
che è necessario ai partiti e al parlamento per fare riforme di portata
costituzionale?
«Se Letta si logora è perché governa male, non perché c’è un nuovo segretario del Pd». La frase nella missiva di Renzi alla Stampa
è pesante. Anche ingenerosa. Ma proviamo per una volta a prendere il
segretario Pd alla lettera, per quello che dice e non per il disegno che
gli si attribuisce.
Dalle slot machine al caso Di Girolamo. Dai soldi dei professori alla
storia della Cancellieri. Dal decreto salva-Roma alla vicenda
Alfano-Shalabayeva fino al caos sull’Imu e alle ripetute gaffes
del ministro Saccomanni. Nessuno di questi momenti di difficoltà, se
non addirittura di crisi, del governo sono stati causati dal Pd, da
Renzi e men che meno dalle trattative sulla riforma elettorale. È vero,
il Pd non ha fatto nulla per occultare o minimizzare le difficoltà –
come sarebbe stato peraltro difficile e controproducente, sotto la
pressione congiunta di varie opposizioni agguerrite – però i problemi
sono tutti nati all’interno del governo, e non per demerito del premier
ma per una oggettiva fragilità originaria che la rottura tra Ncd e Pdl
non ha sanato.
Del resto non bisogna avere memoria corta. Dissensi, distinguo e
distanze dal governo sono evidenti in tutte le componenti del Pd almeno
da agosto (dopo l’uno-due Shalabayeva-Imu), quando Renzi non si era
quasi neanche candidato alla guida del partito. Perfino Bersani ed
Epifani hanno avuto forti accenti critici in diverse occasioni, ribaditi
da Gianni Cuperlo da quando è in prima fila. Il che rende stonata
l’intimazione che talvolta si alza dall’interno del Pd rivolta al
segretario a essere «più leale» verso palazzo Chigi.
In ballo non c’è maggiore o minore lealtà, bensì la possibilità di
tenuta di equilibri politici che dopo la rottura tra Berlusconi e Alfano
non si sono affatto stabilizzati. E che, parlando del centrodestra,
sono resi ancora più precari dalla ingovernabilità interna a Forza
Italia e dalla possibilità di un ricongiungimento, se non altro
elettorale, tra i fratelli coltelli dell’ex Pdl.
Questo è il contesto che si trova oggi di fronte la direzione del Pd:
una incertezza sul futuro della maggioranza e del governo che è
oggettiva, non indotta dalla volontà o dalla fretta di qualcuno. E che
dovrebbe indurre tutti i democratici a condividere gli sforzi e le
accelerazioni sulla riforma elettorale, se non altro come autodifesa se
non si vuole correre il rischio di ritrovarsi ad affrontare eventuali
elezioni anticipate con il sistema proporzionale regalatoci dalla Corte
costituzionale e tanto apprezzato (pour cause) da Casaleggio e Grillo.
Se poi nel Pd ci fosse qualcuno che la restaurazione proporzionalista
non la vivesse come un rischio bensì come una speranza, è a lui che si
dovrebbe intimare di uscire allo scoperto, e di spiegare perché un
partito che ora ha una leadership competitiva e che sale piano piano
verso il 34 per cento dovrebbe abbandonare l’ambizione maggioritaria
comune a tutti i grandi partiti europei e tornare, nel Terzo millennio,
alla spartizione partitocratica che era la caratteristica peggiore della
Prima repubblica, graziosamente perpetuatasi per tutta la Seconda.
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