Più che all'impazienza di Renzi, Letta deve attribuire le
difficoltà di oggi agli ostruzionismi dell'ultimo anno sulla riforma
elettorale.
Dicono che Enrico Letta sia esasperato per la fibrillazione che
dal campo democratico rimbalza negativamente sul governo. E che anche
per questo sia determinato a stringere i partiti nella tenaglia del
patto per il 2014, intorno a un tradizionalissimo “tavolo di
maggioranza”. Il premier è talmente impegnato nella preparazione di
questo passaggio domestico da annullare il bilaterale con un alleato
importante come la Turchia.
È un po’ la legge del contrappasso, dopo che a fine anno la caotica
gestione ministeriale del decreto salva-Roma aveva coinvolto il
novissimo Pd renziano in una vicenda a dir poco imbarazzante.
Ma guardando indietro con obiettività, Letta non deve prendersela con
Renzi se la materia cruciale della riforma elettorale mette ora a
rischio gli equilibri politici che dopo la secessione berlusconiana si
pretendevano «più stabili». La matassa poteva e doveva essere sbrogliata
molto tempo fa, coerentemente con l’affermazione lettiana secondo la
quale il governo voleva continuare a lavorare perché meritava di farlo, e
non grazie alla situazione di necessità dell’assenza di una legge
elettorale decente.
Ora si capisce quanto sia stato imprudente – da parte di partiti,
settori di partiti e di governo – fare ostruzionismo sulla riforma
elettorale. S’era fatto affidamento sul fatto che in fondo le elezioni
anticipate non convenivano a nessuno e s’era lasciato che la
sostituzione del Porcellum, declamata come indifferibile, in realtà slittasse nelle sabbie mobili della competente commissione del senato.
Il Letta spazientito di oggi è coerente con il Letta che fino
all’ultimo aveva sperato e s’era discretamente adoperato affinché a
sinistra non si mettesse in moto la slavina renziana. Già, neanche
questo va dimenticato quando ci si occupa delle relazioni fra i due
dioscuri democratici: che se fosse dipeso da palazzo Chigi, oggi il Pd
non avrebbe questo segretario anzi non avrebbe neanche celebrato
congresso e primarie. E l’intero sistema politico non avrebbe subìto la
scossa che nell’ultimo mese ne ha cambiato i tempi e l’agenda.
Ora dunque il presidente del consiglio si trova a gestire una
situazione resa difficile da passate inerzie. A Renzi non può imputare
fretta e impazienza. Ai suoi, il segretario garantisce di non voler
affatto il voto in maggio, ma ribadisce di non poter deflettere dagli
impegni assunti al momento dell’elezione: ne va della sua credibilità.
Anche se, a ben guardare, quegli obiettivi coincidono con quelli
solennemente indicati dal capo dello stato nell’atto di varare la
legislatura.
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