mercoledì 8 gennaio 2014

Ora si paga il prezzo dell’inerzia sul Porcellum

Stefano Menichini 
Europa
  

Più che all'impazienza di Renzi, Letta deve attribuire le difficoltà di oggi agli ostruzionismi dell'ultimo anno sulla riforma elettorale.
Dicono che Enrico Letta sia esasperato per la fibrillazione che dal campo democratico rimbalza negativamente sul governo. E che anche per questo sia determinato a stringere i partiti nella tenaglia del patto per il 2014, intorno a un tradizionalissimo “tavolo di maggioranza”. Il premier è talmente impegnato nella preparazione di questo passaggio domestico da annullare il bilaterale con un alleato importante come la Turchia.
È un po’ la legge del contrappasso, dopo che a fine anno la caotica gestione ministeriale del decreto salva-Roma aveva coinvolto il novissimo Pd renziano in una vicenda a dir poco imbarazzante.
Ma guardando indietro con obiettività, Letta non deve prendersela con Renzi se la materia cruciale della riforma elettorale mette ora a rischio gli equilibri politici che dopo la secessione berlusconiana si pretendevano «più stabili». La matassa poteva e doveva essere sbrogliata molto tempo fa, coerentemente con l’affermazione lettiana secondo la quale il governo voleva continuare a lavorare perché meritava di farlo, e non grazie alla situazione di necessità dell’assenza di una legge elettorale decente.
Ora si capisce quanto sia stato imprudente – da parte di partiti, settori di partiti e di governo – fare ostruzionismo sulla riforma elettorale. S’era fatto affidamento sul fatto che in fondo le elezioni anticipate non convenivano a nessuno e s’era lasciato che la sostituzione del Porcellum, declamata come indifferibile, in realtà slittasse nelle sabbie mobili della competente commissione del senato.
Il Letta spazientito di oggi è coerente con il Letta che fino all’ultimo aveva sperato e s’era discretamente adoperato affinché a sinistra non si mettesse in moto la slavina renziana. Già, neanche questo va dimenticato quando ci si occupa delle relazioni fra i due dioscuri democratici: che se fosse dipeso da palazzo Chigi, oggi il Pd non avrebbe questo segretario anzi non avrebbe neanche celebrato congresso e primarie. E l’intero sistema politico non avrebbe subìto la scossa che nell’ultimo mese ne ha cambiato i tempi e l’agenda.
Ora dunque il presidente del consiglio si trova a gestire una situazione resa difficile da passate inerzie. A Renzi non può imputare fretta e impazienza. Ai suoi, il segretario garantisce di non voler affatto il voto in maggio, ma ribadisce di non poter deflettere dagli impegni assunti al momento dell’elezione: ne va della sua credibilità. Anche se, a ben guardare, quegli obiettivi coincidono con quelli solennemente indicati dal capo dello stato nell’atto di varare la legislatura.

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