Renzi ha escluso il riconoscimento di forme equiparabili al
matrimonio, quindi non si capisce perché non si possa trovare una
convergenza all’interno della maggioranza
La bandiera dei cosiddetti valori non negoziabili torna a essere
usata per marcare il territorio. Il Ncd dice: da qui non si passa. Per
la verità Alfano parla di nozze gay e, giustamente, Renzi precisa che il
Pd propone il riconoscimento di unioni civili che sono cosa diversa dal
matrimonio. Un equivoco intenzionale, evidentemente, per tenere alta la
tensione e possibile una via di uscita condivisa.
A me pare che la proposta del Pd sia ragionevole e attesa. La
politica non è un terreno moralmente agnostico, ma neppure una cattedra
etica da cui si impongono convinzioni e scelte confliggenti con i
diritti fondamentali ai cittadini. Quando i comportamenti dei cittadini
(ovviamente non quelli lesivi della dignità altrui) mutano e creano
situazioni sociali nuove in cui possono verificarsi l’infragilimento e
persino l’annullamento di diritti soggettivi fondamentali, allora la
legge deve intervenire.
Tenendo conto, ovviamente, dei principi fondamentali costituzionali cui l’ordinamento non può mai discostarsi.
Come si fa a non prendere atto della straordinaria proliferazione
delle forme di convivenza intervenuta nel nostro, come negli altri paesi
non solo dell’occidente, negli ultimi decenni? E come si può pensare
che lo stato possa continuare a ignorare una situazione in cui taluni
diritti, in particolare quelli dei soggetti più deboli, rischiano di non
essere garantiti?
Ce lo ha ricordato la Corte costituzionale con la sentenza 138 del
2010 in cui tra l’altro afferma: «L’articolo 2 della Costituzione
dispone che la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge
la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione
sociale deve intendersi ogni forma di comunità… In tale nozione è da
annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza
tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale
di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi,
nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento
giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia,
che l’aspirazione a tale riconoscimento… possa essere realizzata
soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al
matrimonio…».
Qui sta il punto. Il segretario del Pd ha escluso di voler introdurre
il riconoscimento di forme equiparabili al matrimonio, peraltro escluse
dalla nostra Costituzione, oltreché di forme di filiazione e di
adozione di minori per le coppie omosessuali, su cui lo stesso
associazionismo gay è diviso.
Non si capisce, dunque, perché non si possa trovare un punto di
convergenza all’interno della maggioranza rinunciando da parte di tutti
alla tentazione di fare disinformazione a fini di “cassetta elettorale”.
Capirei l’invito alla prudenza e alla responsabilità, anche perché
l’iter legislativo senza un chiaro accordo di maggioranza può essere
molto insidioso, ma il rifiuto a discuterne no.
Se si pensa invece che questo sarebbe solo il primo passo di una
possibile deriva, allora non c’è alternativa a un patto di maggioranza
stringente in cui si ancori in modo inequivocabile la nuova legge
all’articolo 29 della Costituzione che definisce in modo inequivocabile
«la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
Del resto l’Italia è già diventata, pur non essendo in atto alcun
riconoscimento delle unioni civili, una delle società a più bassa
“densità” di famiglia del mondo. La famiglia italiana si assottiglia, si
spezzetta, si infragilisce, cambia sembianze sotto i nostri occhi. Il
30% delle famiglie censite dall’Istat è unipersonale (possiamo definirle
famiglie, anche se manca la convivenza?) e, del restante 70% di coppie,
solo poco più della metà ha figli. Una società in cui si esaurisce la
spinta generativa è inevitabilmente triste e condannata a un
invecchiamento precipitoso con conseguenze drammatiche facilmente
immaginabili. Fortunatamente ci sono le coppie di immigrati che in parte
compensano il nostro deficit demografico e soprattutto di spirito
vitale.
La preoccupazione, dunque, di non indebolire ulteriormente
l’istituto familiare è seria e condivisibile. Ma non saranno le unioni
civili a determinarlo.
Varrebbe la pena rileggere gli atti relativi alla discussione
sull’articolo 29 e cogliere lo spirito che animava il nostro
costituente, in particolare le cose che diceva la relatrice Nilde Jotti:
«È indispensabile che la repubblica, oltre a regolare con leggi il
diritto familiare, affermi nella costituzione il proposito di rafforzare
la famiglia… Lo stato deve riconoscere la maternità come funzione
sociale: non si può continuare a considerare la maternità come cosa di
carattere privato: da essa dipendono la prosperità della nazione e lo
sviluppo dei futuri cittadini…».
E, quando La Pira propone – a proposito della famiglia – di
sostituire la locuzione «la sua funzione» con «la sua missione», la
relatrice accetta subito e riformula il testo in questo modo: «allo
scopo di assicurare l’adempimento della sua missione e insieme la
saldezza e la prosperità della nazione».
Tutte ragioni che non hanno cessato la loro validità. Non c’è dubbio
infatti che la famiglia è il luogo in cui si apprendono, attraverso l’
esperienza, i valori della solidarietà, della responsabilità, del
limite, del dono. Nessuno può pertanto avere interesse a distruggere o a
rendere irriconoscibili questi luoghi. Eppure c’è da interrogarsi molto
seriamente sulla colpevole lunga latitanza dello stato italiano in
materia di politiche di sostegno familiare.
I paesi del nord Europa, in prevalenza a guida socialdemocratica, da
decenni realizzano politiche familiari che hanno consentito di
realizzare tassi di natalità mediamente tre volte superiori ai nostri.
Altrettanto la laicissima democrazia francese dove la natalità è
sostenuta e i tassi sono il doppio dei nostri.
Per non parlare della Germania in cui, senza discriminazione alcuna,
ogni bimbo che nasce è accompagnato da un assegno mensile pubblico
minimo di 180 euro. È ora che l’Italia affronti il tema con forza,
semmai contestualmente a quello del riconoscimento delle unioni civili.
Resta peraltro il problema di capire quali siano le ragioni che hanno
fatto sì che, proprio in due paesi in cui la presenza della chiesa
cattolica è più significativa come l’Italia e la Spagna, i tassi di
nunzialità e di natalità siano così bassi. Perché ci si sposa sempre
meno? Perché si ha sempre più paura ad assumersi la responsabilità di un
futuro stabilmente condiviso? Perché si ha sempre più paura a generare
figli?
Vi sono risposte politiche e sociologiche evidenti, a partire dalla
forte disoccupazione giovanile, al ritardo con cui rispetto ad altri
paesi termina la biografia formativa, ai costi della casa. Ma vi è
qualcosa di più profondo e sconosciuto, di culturale, forse di
psicologico, che si è sedimentato in questi ultimi maledetti decenni
sino a cambiare, come siamo soliti osservare, l’antropologia del paese.
Discutere seriamente di questo è immensamente più importante che alzare
oggi assurde barricate su diritti che sono nello spirito della
Costituzione e nel comune sentire del paese.
Nessun commento:
Posta un commento