mercoledì 15 gennaio 2014

Non saranno le unioni civili a indebolire la famiglia

Pierluigi Castagnetti 
Europa  

Renzi ha escluso il riconoscimento di forme equiparabili al matrimonio, quindi non si capisce perché non si possa trovare una convergenza all’interno della maggioranza
La bandiera dei cosiddetti valori non negoziabili torna a essere usata per marcare il territorio. Il Ncd dice: da qui non si passa. Per la verità Alfano parla di nozze gay e, giustamente, Renzi precisa che il Pd propone il riconoscimento di unioni civili che sono cosa diversa dal matrimonio. Un equivoco intenzionale, evidentemente, per tenere alta la tensione e possibile una via di uscita condivisa.
A me pare che la proposta del Pd sia ragionevole e attesa. La politica non è un terreno moralmente agnostico, ma neppure una cattedra etica da cui si impongono convinzioni e scelte confliggenti con i diritti fondamentali ai cittadini. Quando i comportamenti dei cittadini (ovviamente non quelli lesivi della dignità altrui) mutano e creano situazioni sociali nuove in cui possono verificarsi l’infragilimento e persino l’annullamento di diritti soggettivi fondamentali, allora la legge deve intervenire.
Tenendo conto, ovviamente, dei principi fondamentali costituzionali cui l’ordinamento non può mai discostarsi.
Come si fa a non prendere atto della straordinaria proliferazione delle forme di convivenza intervenuta nel nostro, come negli altri paesi non solo dell’occidente, negli ultimi decenni? E come si può pensare che lo stato possa continuare a ignorare una situazione in cui taluni diritti, in particolare quelli dei soggetti più deboli, rischiano di non essere garantiti?
Ce lo ha ricordato la Corte costituzionale con la sentenza 138 del 2010 in cui tra l’altro afferma: «L’articolo 2 della Costituzione dispone che la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità… In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento… possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio…».
Qui sta il punto. Il segretario del Pd ha escluso di voler introdurre il riconoscimento di forme equiparabili al matrimonio, peraltro escluse dalla nostra Costituzione, oltreché di forme di filiazione e di adozione di minori per le coppie omosessuali, su cui lo stesso associazionismo gay è diviso.
Non si capisce, dunque, perché non si possa trovare un punto di convergenza all’interno della maggioranza rinunciando da parte di tutti alla tentazione di fare disinformazione a fini di “cassetta elettorale”.
Capirei l’invito alla prudenza e alla responsabilità, anche perché l’iter legislativo senza un chiaro accordo di maggioranza può essere molto insidioso, ma il rifiuto a discuterne no.
Se si pensa invece che questo sarebbe solo il primo passo di una possibile deriva, allora non c’è alternativa a un patto di maggioranza stringente in cui si ancori in modo inequivocabile la nuova legge all’articolo 29 della Costituzione che definisce in modo inequivocabile «la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
Del resto l’Italia è già diventata, pur non essendo in atto alcun riconoscimento delle unioni civili, una delle società a più bassa “densità” di famiglia del mondo. La famiglia italiana si assottiglia, si spezzetta, si infragilisce, cambia sembianze sotto i nostri occhi. Il 30% delle famiglie censite dall’Istat è unipersonale (possiamo definirle famiglie, anche se manca la convivenza?) e, del restante 70% di coppie, solo poco più della metà ha figli. Una società in cui si esaurisce la spinta generativa è inevitabilmente triste e condannata a un invecchiamento precipitoso con conseguenze  drammatiche facilmente immaginabili. Fortunatamente ci sono le coppie di immigrati che in parte compensano il nostro deficit demografico e soprattutto di spirito vitale.
La preoccupazione, dunque, di non indebolire ulteriormente l’istituto  familiare è seria e condivisibile. Ma non saranno le unioni civili a determinarlo.
Varrebbe la pena rileggere gli atti relativi alla discussione sull’articolo 29 e cogliere lo spirito che animava il nostro costituente, in particolare le cose che diceva la relatrice Nilde Jotti: «È indispensabile che la repubblica, oltre a regolare con leggi il diritto familiare, affermi nella costituzione il proposito di rafforzare la famiglia… Lo stato deve riconoscere la maternità come funzione sociale: non si può continuare a considerare la maternità come cosa di carattere privato: da essa dipendono la prosperità della nazione e lo sviluppo dei futuri cittadini…».
E, quando La Pira propone – a proposito della famiglia – di sostituire la locuzione «la sua funzione» con «la sua missione», la relatrice accetta subito e riformula il testo in questo modo: «allo scopo di assicurare l’adempimento della sua missione e insieme la saldezza e la prosperità della nazione».
Tutte ragioni che non hanno cessato la loro validità. Non c’è dubbio infatti che la famiglia è il luogo in cui si apprendono, attraverso l’ esperienza, i valori della solidarietà, della responsabilità, del limite, del dono. Nessuno può pertanto avere interesse a distruggere o a rendere irriconoscibili questi luoghi. Eppure c’è da interrogarsi molto seriamente sulla colpevole lunga latitanza dello stato italiano in materia di politiche di sostegno familiare.
I paesi del nord Europa, in prevalenza a guida socialdemocratica, da decenni realizzano politiche familiari che hanno consentito di realizzare tassi di natalità mediamente tre volte superiori ai nostri. Altrettanto la laicissima democrazia francese dove la natalità è sostenuta e i tassi sono il doppio dei nostri.
Per non parlare della Germania in cui, senza discriminazione alcuna, ogni bimbo che nasce è accompagnato da un assegno mensile pubblico minimo di 180 euro. È ora che l’Italia affronti il tema con forza, semmai contestualmente a quello del riconoscimento delle unioni civili.
Resta peraltro il problema di capire quali siano le ragioni che hanno fatto sì che, proprio in due paesi in cui la presenza della chiesa cattolica è più significativa come l’Italia e la Spagna, i tassi di nunzialità e di natalità siano così bassi. Perché ci si sposa sempre meno? Perché si ha sempre più paura ad assumersi la responsabilità di un futuro stabilmente condiviso? Perché si ha sempre più paura a generare figli?
Vi sono risposte politiche e sociologiche evidenti, a partire dalla forte disoccupazione giovanile, al ritardo con cui rispetto ad altri paesi termina la biografia formativa, ai costi della casa. Ma vi è qualcosa di più profondo e sconosciuto, di culturale, forse di psicologico, che si è sedimentato in questi ultimi maledetti decenni sino a cambiare, come siamo soliti osservare, l’antropologia del paese. Discutere seriamente di questo è immensamente più importante che alzare oggi assurde barricate su diritti che sono nello spirito della Costituzione e nel comune sentire del paese.

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