«La verità è che gli stiamo tagliando l’erba sotto i piedi
smontando uno a uno tutti i suoi soliti e triti argomenti. La riforma
della legge elettorale, l’abolizione del Senato come Camera elettiva, la
cancellazione delle Province, il taglio al finanziamento dei partiti e
la revisione del Titolo V... Dalla politica arrivano finalmente
risposte, Beppe Grillo non sa come reagire e perde la testa. È per
questo che cerca la rissa, la butta in caciara e arriva addirittura a
proporre l’impeachment di Napolitano, al quale siamo stati noi a
chiedere di restare. Ma vedrete che quest’ultima mossa gli si ritorcerà
contro e gli creerà problemi perfino nei suoi gruppi parlamentari».
L'attacco assurdo a Napolitano, insieme ai blitz militari in
parlamento, svelano il disegno di far fallire l'estremo tentativo di
autoriforma delle istituzioni. Allora occhio ai voti segreti.
Il disegno di Grillo e Casaleggio è smaccato. Devono tornare a
mostrare al paese un parlamento travolto dal caos, dallo scandalo,
lesionato nelle sue garanzie democratiche. E questo proprio nei giorni
nei quali lo stesso parlamento, le istituzioni, i partiti, stanno
finalmente dando un’immagine quanto meno produttiva di sé. Stanno
risolvendo almeno il primo dei molti problemi lasciati a marcire per
anni, e dalla cui fermentazione sono nati il loro discredito e poi il
consenso per Cinquestelle.
Il simbolo più alto di questo tentativo di autoriforma della politica
è colui che per anni l’ha invocata, promossa, perseguita, mentre i
partiti erano irresponsabilmente sordi.
L’estremo assalto a Giorgio Napolitano non ha la minima consistenza
giuridica, né pretende di averla. Il documento di M5S è un’accozzaglia
di accuse assurde, per alcune delle quali (l’abuso della decretazione
d’urgenza) si sarebbero dovuti al limite arrestare tutti i presidenti
della storia recente della Repubblica, meno Napolitano che ha spesso
denunciato la distorsione di cui sono responsabili un governo e un
parlamento appunto inefficienti e lenti.
Il tassello più infame del castello di accuse torna a essere –
nonostante le pronunzie inequivocabili dei magistrati siciliani – la
pretesa copertura offerta dal Quirinale alla pretesa trattativa tra
Stato e mafia. Qui Grillo e i suoi sono solo meri esecutori di un
disegno calunnioso perseguito contro ogni smentita ed evidenza dal
partito trasversale fondato e diretto da Ingroia e Travaglio.
La procedura di messa in stato d’accusa non andrà ovviamente da
nessuna parte. Com’è tipico dei diffamatori, si vuole solo lasciare il
segno del sospetto. Così come sarebbe ridicolo cercare di farci credere
che la indecente buriana montata alla Camera sia davvero stata una
reazione al (tardivo) intervento della Boldrini.
Tutto per Banca d’Italia? Via, non siamo bambini. Qui è in corso
un’operazione che porterà M5S fino alle Europee sulle ali di un
estremismo parolaio mai conosciuto prima neanche da loro, che pure ne
sono campioni.
In questa situazione, senza voler restringere lo spazio alla
discussione e al miglioramento della nuova legge elettorale, chi a
Montecitorio si troverà a spingere pulsanti per voti segreti sull’Italicum
dovrebbe riflettere bene. Se per incidente questo estremo tentativo di
salvare la politica da se stessa dovesse fallire per mano ignota,
davvero lì dentro non si salverebbe nessuno dalla ramazza. E non sarebbe
solo Grillo a impugnarla.
Vediamo di ricapitolare. La settimana scorsa giunge in
aula un decreto da convertire in legge entro il termine di oggi, 30
gennaio. E’ un provvedimento che contiene due distinte materie, la
cancellazione della seconda rata IMU, e la rivalutazione delle quote
della Banca d’Italia. Una legge certamente opinabile, come tutte del
resto, che è già passata al Senato, e sulla quale il m5s decide di
attuare l’ostruzionismo, come già accaduto altre volte. Poiché i termini
per la conversione si approssimano, il governo decide di adottare
l’unico strumento che ha per accorciare i tempi di approvazione,
mettendo la questione di fiducia, che fa automaticamente decadere tutti
gli emendamenti, e che viene votata venerdì scorso.
Lunedì si riprende la discussione sugli ordini del giorno, che sono
centinaia e devono essere votati prima dell’approvazione finale. Il m5s
sfrutta le pieghe del regolamento per allungare i tempi, e discute ogni
singolo ordine del giorno fino ad esaurimento. Si giunge così al
pomeriggio di ieri, alle dichiarazioni di voto finale. I grillini
forzano la mano, si iscrivono a parlare tutti per dieci minuti,
sfruttando una delle tante falle regolamentari della camera, che per le
conversioni dei decreti legge, e a differenza di quanto previsto per le
leggi ordinarie, non consente di contingentare i tempi di
discussiofinale. Proprio per questo motivo e’ in vigore una prassi che,
al fine di impedire che la minoranza possa pregiudicare l’approvazione
di un decreto, consente al presidente della camera di applicare la cd.
ghigliottina, ovvero di indire subito la votazione finale troncando la
discussione.
Tutti sanno di questa prassi, che mai è stata esercitata poiché in
passato l’ostruzionismo si è sempre fermato in tempo. Questa volta no.
Nonostante frenetiche riunioni dei capigruppo fino all’ultimo momento
utile, i grillini non recedono dai loro propositi. Sia chiaro, nessuno
ha conculcato i loro diritti, la discussione in commissione e in aula e’
stata lunga, infinita. Ma questa volta, diversamente dai mesi passati,
il m5s non si ferma, costringendo la Boldrini ad applicare la tagliola.
Perché? Ci sono ragioni di merito così sconvolgenti da rendere
giustificato, inevitabile, o quanto meno ragionevole questo
atteggiamento del m5s? Solo un ingenuo potrebbe pensarlo. Certo, le
materie sono delicate, le scelte opinabili, ma di sicuro non più di
tanti altri provvedimenti discussi in passato. La verità e’ che questa
scelta, come tante o forse tutte quelle politicamente più rilevanti del
m5s, e’ figlia di un proposito preciso, e ispirata dal famoso guru
Casaleggio, non a caso presente a Roma in questi giorni. Il proposito e’
quello di alzare il livello dello scontro, di surriscaldare il clima,
di stressare i rapporti politici, al fine di ostacolare il percorso di
riforme, a partire dalla legge elettorale, che oggi appaiono possibili, e
che se andassero in porto taglierebbero l’erba su cui prospera il m5s,
quello della protesta contro l’inconcludenza e l’inaffidabilità della
politica.
Coerentemente con questo chiaro intento, stiamo assistendo ad una
escalation inusitata, iniziata con la gazzarra violenta e indegna
inscenata al termine del voto di ieri, culminata con un assalto ai
banchi del governo e della presidenza, e proseguita ieri sera e oggi
impedendo lo svolgimento delle commissioni parlamentari. Atti gravi, che
hanno messo a repentaglio il normale funzionamento delle istituzioni
democratiche, e molto preoccupanti perché danno il senso di un tentativo
di attizzare il fuoco, di eccitare gli animi, nella speranza di dare
una spallata al sistema, di disarticolare la democrazia.
Comportamenti di natura quasi eversiva, posti in essere da ragazzi
privi di qualunque esperienza politica e istituzionale, del tutto ignari
delle conseguenze dei loro gesti, invasati e accecati da un nuovo
integralismo non poi così diverso da altri del passato, quello della
verità esclusiva, dell’appartenenza alle armate del bene in lotta contro
il male, della convinzione della propria purezza a fronte delle macchie
altrui. Una forma di ideologia ben insufflata, ed eccitata, da cattivi
maestri che stanno fuori.
Di questo disegno, naturalmente, fa parte anche la richiesta di
impeachment del presidente della repubblica per alto tradimento, una
richiesta priva di qualunque fondamento giuridico e politico, ma utile
all’obiettivo perseguito. Questo è il clima nel quale oggi è dato a noi
di operare: un clima difficile e preoccupante, che ci carica di una
quota grande di responsabilità da esercitare con equilibrio e pazienza,
continuando a lavorare per sbloccare questa crisi lunga e faticosa, e
far ripartire il paese. Obiettivi che oggi mi sembrano assai più vicini
di poco tempo fa, e che non permetteremo vengano impediti da chi
preferisce puntare sulle macerie del paese.
L'accordo parlamentare sull'Italicum è un gran successo di Renzi e
del suo Pd. Il nuovo sistema elettorale è buono anche se non perfetto.
Sarà Terza repubblica solo dopo le riforme costituzionali.
In Italia, riuscire a realizzare qualcosa su cui ci si era
impegnati è raro. Procedere rispettando i tempi stabiliti e superando la
giungla di difficoltà della politica è poi quasi incredibile. Matteo
Renzi costruirà intorno a questi capisaldi tutto il racconto su di sé, e
avrà ragione. Ogni scongiuro è autorizzato, ma la spinta che gli viene
dalla chiusura dell’accordo di ieri dovrebbe essere sufficiente a far
passare l’Italicum dalle forche caudine delle votazioni alla camera e al senato.
Dopo di che, di una realizzazione è importante misurare la qualità e
l’efficacia, oltre che il fatto in sé: Renzi dovrebbe rimanere alla
larga dalla retorica del “fare” svincolato dalle sue conseguenze.
Italicum certo non è perfetto. La sua lacuna più evidente
riguarda il rapporto eletto-elettore: da questo punto di vista è
incomparabilmente migliore del Porcellum, non ha ceduto alla tentazione pericolosa delle preferenze, è però distante dall’optimum dei collegi uninominali.
Le soglie sono tutte ritagliate sulla situazione e sulle convenienze
attuali dei partiti: era inevitabile. È però importante notare che il 37
per cento appare ora molto difficile da raggiungere per chiunque, il
che rende il secondo turno inevitabile: e il ballottaggio è di gran
lunga la formula più chiara per decidere una maggioranza. Il 4,5 fa
sorridere, sembra uscito più da un banco di Porta Portese che da una
trattativa politica ad alto livello. Quanto alla soglia “territoriale”
(la clausola salva-Lega), deve infastidire più per la spudorata
ipocrisia di Matteo Salvini che se ne dice disinteressato, che per la
cosa in sé, che avrebbe anche un senso.
L’impressione generale è di un buon risultato tecnico date le
premesse. Di un forte acceleratore della costruzione e del rafforzamento
della leadership di Matteo Renzi e della centralità del Pd. Ma non di
un epocale cambio di Repubblica. Il parlamento che dovesse uscire dall’Italicum non sarebbe molto diverso dall’attuale, quanto a numero e forza dei partiti.
Il cambio vero è contenuto nelle riforme costituzionali, soprattutto
nell’abolizione del senato elettivo. E questo, nonostante l’accordo tra
Renzi e Berlusconi, non è un risultato proprio a portata di mano: le
resistenze saranno potenti e i tempi pericolosamente lunghi.
Nel destino della riforma costituzionale c’è tutta la differenza fra
un grande e indiscutibile successo politico, quello ottenuto da Renzi in
questi giorni, e un risultato davvero storico. Che speriamo non debba
essere di nuovo rimandato alla prossima legislatura.
Lagarde: "In Ue 20 milioni di disoccupati. In Italia un terzo degli under 25 senza lavoro"
La direttrice del Fmi smorza gli
entusiasmi sulla ripresa. Tre obiettivi per riportare una crescita
sostenibile in Europa: rafforzare la struttura dell'unione monetaria,
ridurre i livelli di indebitamento pubblici e privati, riformare i
mercati del lavoro e dei prodotti
Ma è mai possibile, si lamentano da alcuni
giorni i miei cari, che il dottor Mastrapasqua riesca a fare il
presidente dell’Inps, il vicepresidente esecutivo di Equitalia,
Equitalia nord, Equitalia centro ed Equitalia sud, il direttore
dell’ospedale israelitico e della casa di riposo ebraica, il dirigente di Italia Previdente, Eur spa, Eur Tel, Eur
congressi Roma, Coni servizi spa, Autostrade per l’Italia, Fandango,
Telecom Italia Media, il consigliere d’amministrazione di Quadrifoglio,
Telenergia, Loquendo, Aquadrome, il presidente onorario di Mediterranean
Nautilus Italy, Adr Engineering, Consel, Groma, Emsa Servizi,
Telecontact Center, dell’immobiliare Idea Fimit Sgr e di chissà
cos’altro ancora - insomma, che in un’epoca di disoccupazione diffusa il
dottor Mastrapasqua sia in grado di gestire da solo venticinque
incarichi, venticinque uffici, venticinque ficus da bagnare almeno
venticinque volte l’anno, venticinque posti macchina e forse venticinque
macchine, ma di sicuro venticinque chiavi d’ingresso e quindi un
portachiavi immenso, un bigliettone da visita a venticinque strati e
decine di riunioni, cene di rappresentanza, ricevute gonfiabili,
conflitti di interesse, incontri e telefonate per litigare, mettersi
d’accordo e combinare affari con le altre ventiquattro parti di se
stesso - mentre tu ogni volta che in casa c’è qualche lavoretto da fare
dici sempre che non hai tempo e che sei stanco morto?
Ore decisive per la riforma elettorale. Renzi si batte contro il
partito del rinvio, che vorrebbe soprattutto soffocare da subito la
leadership del segretario Pd
C’hanno provato. E ci proveranno fino all’ultimo, fino a
stasera, fino a quando rimarrà una sola possibilità di fermare la corsa
della riforma elettorale. Non è esagerato dire che queste sono le ore
decisive per capire se l’Italicum è destinato al fallimento immediato, o
a un primo e forse decisivo successo parlamentare.
Negli ultimi giorni, il partito che ha lavorato di più è stato il
partito dell’ostruzionismo. Lo compongono coloro (di tutti gli
schieramenti) che vorrebbero trascinare il gioco della riforma
all’infinito, con le tattiche dilatorie applicate negli ultimi anni. Non
è che non vogliano una nuova legge: semplicemente, non la vogliono così
esigente nei confronti dei piccoli partiti; e soprattutto non vogliono
che il suo varo rappresenti una vittoria di Matteo Renzi e della sua
leadership.
Qui c’è la questione cruciale. Il punto forte e il punto debole dell’operazione tentata dal segretario del Pd.
Si diceva la verità, quando si prendeva atto (come ha fatto anche il capo dello stato)
che Renzi fosse l’unico attore sulla scena in grado di portare a casa
il risultato, nell’interesse dell’intero sistema e del buon nome del
parlamento, dei partiti e della politica.
Il risvolto di questa medaglia è che a tutti coloro che vogliono
soffocare subito le ambizioni del sindaco è stata offerta l’occasione di
fargli del male. Magari non battendolo apertamente ma costringendolo ai
tempi lunghi, al rinvio, alla palude di Palazzo nella quale annega ogni
entusiasmo. Non si può escludere che fra costoro ci sia anche
Berlusconi: non dimentichiamo che è lui l’avversario finale di Renzi.
La normalizzazione del nuovo arrivato, la sua riduzione a politico
qualunque, la fine della sua eccezionalità: questa è la partita
parallela che si gioca, intrecciata a quella sulla riforma elettorale e a
quella sul governo, nelle cui difficoltà si vorrebbe coinvolgere il
segretario del Pd fino all’estremo di consegnargli palazzo Chigi.
Il partito della palude non capisce quanto male faccia in realtà a se
stesso, più che a Renzi. Il sindaco, agile e sfuggente, saprà comunque
proporre una versione dei fatti positiva per sé, foss’anche nel ruolo di
vittima.
Gli altri, tutti gli altri, rimarranno ostaggi dell’unico
beneficiario della paralisi: Beppe Grillo, lo scienziato pazzo che ha
dato voce e vita a quel Frankenstein della politica che ieri dava del
boia al capo dello stato stando seduto tra i simboli della Repubblica
italiana.
«Preferisco
rischiare anche il fallimento, piuttosto che stare fermo nella palude. I
contraccolpi ci saranno di sicuro e me li aspetto. Si serviranno di
ogni mezzo e proveranno qualsiasi cosa per stopparmi. Ma se credono che
io mi logori di qui al 2015 si sbagliano di grosso, possono aspettare...
e avranno delle amare delusioni. A me portano bene tutti quelli che
gufano sul mio insuccesso e sul mio logoramento».
Primi passaggi decisivi sulla riforma elettorale, sotto la minaccia
di Renzi. Intanto Sel rompe col Pd: un po' tattica, un po' un conflitto
inevitabile.
Sapremo presto se il dissenso interno al Pd sulla riforma
elettorale deflagrerà e produrrà effetti politici o se invece – come
sembrerebbe dal primo passaggio sugli emendamenti in commissione – tutto
si ridurrà a tentativi di bandiera. La decisione di non portare fino in
fondo modifiche sulle quali non siano d’accordo tutti i presentatori
dell’Italicum è incoraggiante, ma va sottoposta alla verifica dei fatti e
soprattutto del voto a scrutinio segreto in aula.
È su questo passaggio che pesa la minaccia di Matteo Renzi. Ascoltata
per la quarta o quinta volta in pochi giorni, non suona un bluff. E del
resto sarebbe inevitabile per il segretario del Pd non subire
passivamente la bocciatura in campo aperto di un accordo sul quale si è
esposto tanto. Ci sarebbero tutti gli argomenti validi da parte sua per
dichiarare chiusa la legislatura e per presentarsi agli elettori con una
carica rottamatrice moltiplicata dalla delusione subita. Gli effetti di
un voto col sistema “ritagliato” dalla Corte costituzionale non
sarebbero certo di governabilità: intanto però Renzi ne uscirebbe come
leader battezzato dalle urne, mentre la maggioranza degli attuali
parlamentari sparirebbe prematuramente nell’oblio. E loro lo sanno.
Intendiamoci. Fallimento del tentativo di riforma istituzionale,
crisi di governo ed elezioni anticipate rimangono lo scenario meno
probabile, anche per il presidio rappresentato dal capo dello stato. Ma
nessuno può sentirsi tanto forte o incosciente da sfidare la sorte.
Intanto va però notato che, nelle pieghe della vicenda della riforma
elettorale, sembrerebbe essersi consumato il primo equivoco dell’epopea
Renzi.
Giorni fa sulla Stampa Luca Ricolfi notava le reazioni
infastidite della sinistra tradizionale rispetto a modi, tempi e
contenuti dell’azione del segretario Pd. Ora dalle reazioni umorali
siamo passati ai fatti politici: Sel è uscita dal congresso in rottura
col Pd, cancellando le impressioni su un buon mood fra Vendola e Renzi e anche l’ipotesi di intese elettorali o addirittura di confluenze.
Stiamo parlando di un mondo che non s’è ancora ripreso dal passaggio
di Grillo-Gengis Khan, che ha lasciato terra bruciata lì dove
sopravvivevano lacerti di cultura politica anticapitalista. A Rimini s’è
avvertito il risucchio verso radicalismi italiani (l’ingroismo senza
Ingroia) e soprattutto europei (la scelta di appoggiare Tsipras invece
di Shultz).
Certo, sono posizionamenti da leggere più in chiave di trattativa a
breve sulle soglie della legge elettorale e di campagna elettorale per
le Europee. Potrebbero rientrare alla vigilia di elezioni politiche,
intanto però confermano la profezia di Ricolfi: dopo il primo
stordimento e la prima sconfitta nelle primarie, la sinistra “di prima”
reagisce al ciclone Renzi. Dopo Sel, toccherà ai sindacati, quando il Jobs Act
sarà definito e pubblico. Lì si misurerà la capacità renziana di
mantenere vivo il proprio abile trasversalismo affrontando però di petto
ogni conservatorismo. Com’è giusto che sia e come deve accadere, da
Tony Blair a oggi.
La prova cruciale, quella in cui si capirà di che stoffa è fatto
Matteo Renzi, non è quella di questi giorni. Il test vero, per il
sindaco di Firenze, arriverà quando dovrà affrontare in campo aperto i
sindacati (soprattutto la Cgil) e l’ostinato conservatorismo dei suoi
compagni di partito in materia di mercato del lavoro, tasse, spesa
sociale. Ossia sulle cose che il 70% dei cittadini giudicano altrettanto o più
importanti del cambiamento delle regole del gioco politico (sondaggio
Ipsos pubblicato ieri dal «Corriere della Sera»). Vedremo allora se la
cautela fin qui mostrata da Renzi, in particolare al momento della
presentazione del «Jobs Act», cederà il passo a un atteggiamento più
risoluto. Lo speriamo, perché la prima cosa che gli italiani si
aspettano dalla politica non è una nuova legge elettorale, ma la
possibilità di creare e trovare lavoro. Detto questo, però, come non godersi lo spettacolo di questi giorni? Sul cambiamento delle regole, Renzi ha fatto in 3 giorni più di
quello che i politici politicanti hanno fatto in 31 anni, ossia
dall’insediamento della commissione Bozzi sulle riforme istituzionali
(1983). Ma soprattutto lo ha fatto in un modo che, per la sinistra, è
del tutto nuovo. Con Renzi la sinistra si è riappropriata del linguaggio
naturale, e con questa sola mossa ha cancellato un handicap formidabile
che l’ha sempre condizionata nel confronto con la destra. Fino a ieri
l’intero establishment di sinistra ha sempre parlato in codice, usando
concetti astratti, formule vuote, espressioni allusive, perfettamente
comprensibili agli addetti ai lavori ma drammaticamente lontane dalla
vita e dalla sensibilità delle persone comuni. Per capirli, per capire
che cosa veramente avessero inteso dire, per capire che cosa
effettivamente fossero intenzionati a fare, ci voleva l’interprete. E
per interagire con loro si doveva conoscere le buone maniere del
linguaggio politico, quel dire e non dire, accennare e far intendere,
lusingare e velatamente minacciare, ma sempre educatamente, sempre con
il dovuto sussiego, sempre con il necessario bon ton intra-casta. Parole
di nebbia, le aveva chiamate Natalia Ginzburg fin dai primi Anni 80.
Parole che rendevano i politici di sinistra dei veri marziani agli occhi
della gente comune. E’ anche per questo che, quando Berlusconi scese in campo nel 1994,
per i politici di sinistra (e non solo per loro) fu un vero shock.
Berlusconi parlava in linguaggio naturale. Si poteva ascoltare senza
l’interprete. Esattamente come Renzi oggi. Renzi non parla in codice,
non conosce le buone maniere del dibattito politico, se ne infischia dei
balletti e dei cerimoniali dei suoi compagni di partito. Si lascia
scappare battutacce, usa l’ironia e qualche volta il sarcasmo, è del
tutto privo di quella sorta di omertà, o patto di non aggressione, che
vige fra i professionisti della politica. Come se lui facesse un altro
mestiere, e quindi non si sentisse in alcun modo vincolato alle regole
di deferenza che derivano dall’affinità. I politici del Pd, offesi da
Renzi, sembrano nobildonne ingioiellate che incontrano sulla loro strada
il tamarro di turno: come in un film di Checco Zalone, loro porgono
languidamente la mano per il baciamano, lui risponde con una pacca sulle
spalle e passa allegramente oltre. Tutto questo è tremendamente spiazzante per i vecchi mandarini del
suo partito, ma anche per molti quarantenni. Addestrati a parlare e
agire in codice, abituati a tradurre ogni parola, a interpretare ogni
comportamento, non sanno che pesci pigliare quando uno come Renzi la
smette di menare il can per l’aia. Ma soprattutto sono imbarazzati,
politicamente imbarazzati. Dal momento che Renzi comunica come
Berlusconi, e per vent’anni i dirigenti della sinistra si erano vantati
di non parlare come lui, ed erano persino arrivati a bollare il modo di
comunicare di Berlusconi come segno inequivocabile di
rozzezza-demagogia-populismo, diventa un bel problema ritrovarsi con un
leader che, almeno in questo, assomiglia al loro peggiore nemico. Non
avendo voluto capire a suo tempo che alcuni difetti di Berlusconi, come
il parlar chiaro e la vocazione decisionista, potevano anche essere
delle virtù, sono ora in difficoltà ad accettarle quando si ripresentano
in uno dei loro, il neo-eletto segretario del Pd. Si potrebbe supporre che tutto ciò sia un guaio per i politici di
lungo corso del Pd, e non per Renzi, che dopotutto tra frizzi, lazzi e
fuochi d’artificio si trova perfettamente a proprio agio. E tuttavia la
conclusione sarebbe affrettata, e troppo ottimistica, a mio parere.
Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, l’oscurità del
linguaggio, per la sinistra, non è affatto un optional. Specialmente
negli ultimi venticinque anni, dopo la svolta della Bolognina di
Occhetto (1989), ossia da quando la sinistra ha provato a diventare
riformista, un certo grado di ambiguità e furberia nella lingua è stato
lo strumento con cui gli eredi del comunismo hanno cercato di preservare
la propria unità e, talora, di allargare il proprio consenso. E’ solo
in virtù di tale uso spregiudicato della lingua che, per oltre
vent’anni, è stato possibile nascondere, dissimulare, attenuare le
profonde differenze fra le varie anime della sinistra. Le 281 pagine di
programma di Prodi nel 2006, così come i confusissimi 11 punti di
Bersani nel 2013, non erano figli di modesti consulenti, o di pessimi
uffici studi. No, quelle «parole di nebbia», come le avrebbe definite
Natalia Ginzburg, erano il mezzo più idoneo per restare uniti nonostante
i dissensi, l’unico modo di tenere insieme Prodi e Bertinotti, Veltroni
e Vendola, Mastella e Padoa-Schioppa. Da questo punto di vista, è molto
riduttivo sostenere – come usano fare i riformisti-doc – che l’unico
collante della sinistra in questi venti anni sia stato
l’antiberlusconismo: no, cari riformisti, la sinistra di collanti ne ha
avuti due, uno era l’antiberlusconismo, l’altro il parlare per concetti
vaghi, quella malattia della lingua che Raffaele La Capria ha definito
«concettualismo degradato di massa». Ecco perché, per Renzi, la strada potrebbe essere in salita. Se Renzi
parlerà chiaro su tutto, e non solo sulla legge elettorale, le
divisioni dentro il Pd non saranno più occultabili con la nebbia della
lingua, e il partito potrebbe spaccarsi. Specialmente sul mercato del
lavoro, il conflitto fra sinistra conservatrice e sinistra
modernizzatrice non potrà che venire allo scoperto. Credo sia questo il
motivo per cui, un paio di settimane fa, sul Codice semplificato del
lavoro di Ichino la sua risposta alla mia domanda (perché non vararlo
subito?) sia stata così debole, così elusiva. Suppongo che Renzi non
abbia troppa fretta sul mercato del lavoro perché vuole aspettare di
aver il partito in mano prima di iniziare le battaglie politicamente più
difficili (creare posti di lavoro è più difficile, ancora più
difficile, che cambiare le regole del gioco). E’ una cosa che capisco benissimo. Purché non si perda di vista il
nodo fondamentale: dopo 7 anni di crisi, con milioni di posti di lavoro
perduti, gli italiani non si accontenteranno di un cambiamento delle
regole del gioco.
Le soglie e la tecnica di ripartizione dei seggi hanno bisogno di adattamenti
L’accordo costruito da Renzi in tre giorni è un passo da gigante
rispetto alle tre bicamerali precedenti. L’insieme del pacchetto
prendere-o-lasciare è molto più ambizioso e rivoluzionario di tante
proclamate «grandi riforme». Se tutti e tre pilastri – senato, legge
elettorale, regioni – verranno tradotti in legge, le intese a
fisarmonica di questa malnata XVII legislatura, grazie al nuovo Pd,
saranno servite al paese, al di sopra di ogni ragionevole aspettativa.
La legge elettorale non è perfetta, ma può realizzare ciò che promette: i
candidati saranno ben visibili sulla scheda e gli elettori saranno
messi in condizione di valutarli; le elezioni potranno produrre una
maggioranza parlamentare e un governo di legislatura; i partitini
personali scompariranno dalla scena.
Il ritorno ai collegi uninominali, che sarebbe stata la strada
maestra, si è rivelata non praticabile, ma potrebbe riprendere forza
quando il sistema politico si sarà riassestato. Per ora, è senza dubbio
preferibile abbandonare il meglio e prendere il bene che c’è
nell’Italicum, applicandosi solo ai dettagli: le soglie e la tecnica di
ripartizione dei seggi.
Uno degli aspetti della proposta su cui si appuntano molte critiche –
e su cui io stesso a prima vista avevo espresso perplessità –
ragionandoci, è del tutto sostenibile, con un piccolo adattamento.
In breve: che si fa dei voti andati a partiti coalizzati che
rimangono sotto la soglia di sbarramento? Se li si azzera, si rischia di
dare il premio alla coalizione arrivata seconda. Al contrario, se
vengono conteggiati, i partner maggiori della coalizione, otterrebbero i
seggi del premio grazie ai voti dai partner minori, esclusi dal
parlamento; un partito con il 25% potrebbe ottenere da solo il premio e
vedere raddoppiata la sua rappresentanza parlamentare.
A ben vedere, questo problema è mal posto. Quando un partito stipula
un accordo pre-elettorale di coalizione dichiara al suo elettorato che
il voto dato sul suo simbolo è un voto dato anche a tutta la coalizione.
La legge potrebbe – e forse, a vantaggio dei legulei, dovrebbe –
dichiarare in modo esplicito agli elettori che il sistema funziona un
po’ come il (celebrato) voto alternativo australiano, o come il voto
singolo trasferibile usato in Irlanda: se il partito che preferisci di
più non ne avrà ottenuti abbastanza, trasferiremo il tuo voto
all’insieme dei partiti con cui si è coalizzato.
In fondo, è un modo assai ragionevole per non sprecarlo. Questo
principio però, per reggere, andrebbe esteso a tutte le coalizioni in
cui c’è almeno un partito «sopra-soglia», e non solo alla coalizione che
vince. Questo sì, crea una disuguaglianza nel peso dato ai diversi voti
costituzionalmente discutibile. Quindi il riparto nazionale dovrebbe
avvenire prima in relazione al complesso dei voti ottenuti dalle
coalizioni e poi, al loro interno, ai partiti sopra-soglia che le
compongono.
Per evitare le lenzuolate di liste civetta, bisognerebbe comunque
fissare un limite dell’1 o del 2% sotto il quale i voti non vengono
conteggiati a nessun fine. La tagliola dell’8% sui non coalizzati, messa
per inibire ai piccoli la minaccia di andare da soli, è palesemente
eccessiva. Non si vede ragione per cui non ci debba essere una soglia
unica al 5%.
Quanto ai partiti che rappresentano quote amplissime di elettorato in
determinati territori, anziché prevedere soluzioni ad hoc per Tizio o
per Caio, basterebbe usare una regola standard, buona anche per le
minoranze linguistiche senza bisogno di ulteriori deroghe: tutti
prendono i seggi ottenuti con quozienti pieni di collegio, che saranno
pari almeno al 20% dei voti validi, se i collegi non assegnano più di 5
seggi, mentre al riparto nazionale (dei resti e del premio) partecipano
solo i partiti sopra-soglia. Il sistema manterrebbe comunque barriere
piuttosto solide contro la frammentazione e riacquisirebbe una venatura
spagnola, che non guasta.
Berlusconi è dovuto tornare su suoi passi: il segretario del Pd non lo ha né rilegittimato né amnistiato
A Matteo Renzi piace la mossa del cavallo. Una mossa tanto
rischiosa e perciò coraggiosa, quanto indispensabile per venire fuori
dalle situazioni bloccate, dalla contrapposizione paralizzante tra
“torri”, tra opposte ragioni chiuse e fortificate, condannate a
scontrarsi senza vie d’uscita. La mossa del cavallo piaceva tanto ad un
grande vecchio della sinistra italiana, Vittorio Foa, che non la
considerava un espediente tattico, ma il frutto di un’intelligenza
capace di liberarsi dalla coazione a ripetere, l’espressione creativa di
una mente che si vuole libera di guardare oltre gli schemi, capace di
atteggiamento critico verso se stessa, non meno che verso gli altri.
Renzi ha fatto la sua mossa del cavallo, quando ha chiamato Silvio
Berlusconi, per cercare, anche con lui, un accordo che sbloccasse lo
stallo sulle riforme. Non lo ha rilegittimato, né tanto meno amnistiato.
Lo ha riportato dov’era, prima che il Cavaliere decidesse di
abbandonare il tavolo delle riforme, come rappresaglia per il voto sulla
decadenza. È Berlusconi dunque, non il Pd, che è dovuto tornare sui
suoi passi. D’altra parte, il giovane leader dei democratici sapeva che
solo recuperando Forza Italia al tavolo che deve definire le nuove
regole del gioco democratico, avrebbe potuto tenere insieme tutti e tre
gli obiettivi del suo ambizioso disegno politico e istituzionale:
definire una nuova legge elettorale di tipo maggioritario, senza subire
un eccessivo condizionamento da parte dei partiti più piccoli;
riprendere la strada della riforma della Costituzione, almeno per
modificare il senato e per rivedere il Titolo V, abolendo le province
ordinarie e rivisitando la ripartizione delle competenze tra Stato,
regioni, enti locali; conquistare un altro anno di tempo per consentire
al governo di affrontare con un piglio nuovo i problemi del paese, di
produrre risultati e di mettere il Pd in una posizione forte nel
rapporto con l’elettorato, fin dalle prossime elezioni europee.
Nessuno di questi tre obiettivi era raggiungibile con le sole forze
dell’attuale maggioranza: senza la mossa del cavallo, il rischio era
dunque per il Pd quello di trovarsi dinanzi all’alternativa tragica tra
gettare la spugna e correre rassegnati verso le elezioni, o invece
guadagnare tempo, ma senza sapere come riempirlo di fatti. Tutti e tre
questi obiettivi sono invece ora ridiventati possibili. E infatti, si è
subito cominciato a vedere il primo tassello, quello di una buona
riforma elettorale, come è giusto definire il testo presentato alla
camera mercoledì scorso.
È vero che il diavolo si annida nei dettagli ed è giusto scrutarli
con molta cura, questi dettagli, tanto più quando si parla di regole
delicate come quelle elettorali. Sarebbe tuttavia altrettanto sbagliato
perdere di vista l’insieme, e ancora più sbagliato sacrificare un
insieme più che positivo, vagheggiato per anni, in nome del consueto
irrigidimento su questo o quel dettaglio. Dunque, ben vengano dubbi,
critiche e proposte emendative: purché non si dimentichi che l’ottimo è
il peggior nemico del bene e che di riforme perfette sono pieni gli
archivi di camera e senato.
L’aspetto sul quale si sono appuntate le critiche più aspre nei
riguardi della proposta di riforma elettorale avanzata da Pd, FI e Ncd, è
la mancata reintroduzione delle preferenze, in favore della lista corta
bloccata (3-6 candidati). Le critiche, a mio modo di vedere, non
appaiono fondate. Certamente, al contrario di quanto sostenuto ad
esempio da Gianni Cuperlo, non mi pare lo siano dal punto di vista della
legittimità costituzionale. Il testo delle motivazioni della sentenza
della Corte su questo è chiarissimo. La Corte distingue infatti
nettamente (li definisce sistemi tra loro “non comparabili”), tra la
lista bloccata modello Porcellum, che “impone al cittadino, scegliendo
una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in
essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono
automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a
diventare deputati o senatori”, e modelli invece “caratterizzati da
circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle
quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da
garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa
l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto
accade nel caso dei collegi uninominali)”.
Dunque, dal punto di vista della Corte, la lista corta bloccata e i
collegi uninominali sono modalità sostanzialmente equivalenti sul piano
della qualità democratica e come tali entrambi assolutamente legittimi.
Del resto, difficilmente la Corte avrebbe potuto esprimersi in maniera
diversa. Basti considerare che in nessun grande paese europeo si
eleggono i deputati con le preferenze: in Inghilterra e in Francia c’è
il collegio uninominale, in Spagna la lista corta bloccata, mentre il
Bundestag tedesco è eletto per metà con i collegi uninominali e per metà
con la lista bloccata. Solo in Grecia si vota con le preferenze.
Infondata sul piano della legittimità costituzionale, la critica è
invece assolutamente pertinente sul piano del rapporto tra politica e
opinione pubblica. Pertinente non significa tuttavia convincente. Non
c’è infatti nessuna evidenza (semmai numerosi indizi contrari, basti
pensare ai consigli regionali) che le preferenze favoriscano la qualità
(morale, professionale, democratica) della rappresentanza. Ma
soprattutto: la sovrapposizione di una competizione nelle liste a quella
tra le liste è un potente fattore di disgregazione dei già friabili
partiti italiani. E proprio la fragilità dei partiti è una delle cause
principali della crisi della politica democratica in Italia. Basti
pensare, senza con questo voler offendere nessuno, che tre dei quattro
partiti che oggi sostengono il governo Letta (cioè tutti tranne il Pd)
non erano presenti col loro nome e simbolo alle elezioni politiche di
meno di un anno fa.
Bisogna essere consapevoli che se non si inverte questa tendenza alla
liquefazione delle forze politiche non sarà possibile alcuna riforma
della democrazia parlamentare e non resterà altra via percorribile che
quella del presidenzialismo, per mettere le istituzioni al riparo dalla
crisi dei partiti. Dunque ben venga una legge che favorisca le
aggregazioni e scoraggi la frammentazione dei e nei partiti: una legge
che, nell’impossibilità di reintrodurre il collegio uninominale (salvo
che, fortunatamente, in Trentino Alto-Adige e Valle d’Aosta) per la
contrarietà di quasi tutti gli altri partiti, si orienti verso il
collegio plurinominale, la lista corta bloccata, che è comunque il
second best. Naturalmente, questa scelta sarà tanto più sostenibile,
come è stato da più parti osservato, se potrà accompagnarsi ad una legge
sui partiti, sul loro finanziamento, sulla loro vita democratica, sulla
loro vitale e non delegabile funzione di selezione dei candidati.
Chissà che non possa essere proprio questa la prossima mossa del cavallo
di Matteo Renzi.
Il premier fa una sortita su legge elettorale e conflitto
d'interessi, e subito viene ricacciato. Forse è meglio puntare sulle
realizzazioni di governo.
Si può credere che Enrico Letta si sia tenuto intenzionalmente
alla finestra nelle ore in cui si stringeva l’accordo sulla riforma
elettorale. Oppure pensare che sia stato scansato e ridimensionato in
quel passaggio cruciale, come tante fonti hanno suggerito, nonostante il
fatto che tra Renzi e Berlusconi si stesse in sostanza decidendo anche
il destino del governo.
Comunque sia andata una settimana fa, non appena Letta ha provato a
infilare il piede nell’uscio del dibattito sulle riforme ha preso un
doloroso pestone. Ieri è stato sostanzialmente ricacciato indietro dopo
aver toccato (molto en passant, va detto) un tema caldo come le
preferenze e un altro tema che a sinistra troneggia come un totem, cioè
la regolamentazione del conflitto d’interessi. Sul primo punto lo ha
smentito addirittura il numero due della delegazione Pd al governo. E
sul conflitto d’interessi (che negli ultimi tempi era stato riscoperto
solo da Sel, nell’urgenza di sventolare una bandiera a proposito di
riforme) prima che imperversassero i berlusconiani i sarcasmi più acidi
erano venuti dall’interno della maggioranza del Pd.
Bisogna riconoscere che, sollevate da Letta, entrambe le questioni
non potevano che sembrare altrettante zeppe fra le ruote del carro della
riforma. Basti pensare al tempismo di riproporre proprio ora in faccia a
Berlusconi il conflitto d’interessi, dopo vent’anni di amnesie a
sinistra e mentre la magistratura sta risolvendo gran parte del
problema.
Al di là delle interviste, nei fatti non può che risultare
l’estraneità del governo rispetto a scelte ormai consegnate al
parlamento. Dunque l’incidente è destinato a rientrare, ma finisce nel
dossier dei dispetti incrociati fra premier e segretario del Pd.
È un faldone già troppo corposo, dopo neanche due mesi di convivenza.
Rileggendolo, l’impressione è che questo tipo di confronto nuoccia
soprattutto al presidente del consiglio ed è un peccato, perché da
palazzo Chigi Letta avrebbe la possibilità di proporsi all’opinione
pubblica come uomo di governo capace di risultati più concreti di quelli
“tutti politici” che sta conseguendo Renzi.
Certo, Letta può vantare un grande successo ottenuto proprio sul
terreno della manovra politica. Successo che rischia però di essere
effimero: è bastata la promozione a “consigliere” di un gentile
giornalista vestito con una tuta bianca, perché Alfano riscoprisse il
moderatismo di Berlusconi, e si allontanasse così il bel sogno della
nascita della famosa “destra repubblicana”.
Diciamoci la verità, alcune ragioni di perplessità
e dissenso rispetto alla proposta di accordo sulle riforme conclusa
da Renzi, e in particolare sulla legge elettorale, sono ragionevoli
e fondate. E' vero infatti che la legge profilata presenta alcuni
aspetti critici, che sono stati messi in evidenza dagli esperti ed
osservatori più attenti, tra cui la soglia per accedere al
premio di maggioranza, all'evidenza molto (troppo) bassa,
con conseguente distorsione possibile del risultato elettorale
eccessiva, e il sistema di riparto dei seggi su base
nazionale, che contraddice e vanifica gli aspetti positivi
dei collegi di piccola dimensione, rendendo incerta l'attribuzione
di seggi e così meno solido il rapporto tra eletto ed elettore. Si
tratta di una ipotesi che presenta anche evidenti aspetti positivi,
dei quali i più rilevanti io credo siano soprattutto il fatto di
garantire un vincitore, anche tramite il ballottaggio,
e la previsione di soglie di sbarramento significative,
che impediscono la polverizzazione delle rappresentanze parlamentari
e il ricatto permanente delle piccole formazioni.
Ma sarebbe
davvero sbagliato misurare e giudicare l'iniziativa di Renzi solo
sulla valutazione analitica e un po' tecnicista dei pregi e difetti
del nuovo sistema elettorale proposto. L'aspetto più rilevante, a
mio avviso, e ciò che disvela l'enorme pregio del risultato
politico ottenuto, almeno fin qui, e' il fatto di aver
riportato dentro una ipotesi di collaborazione alle riforme Forza
Italia, e così aver nuovamente reso possibile l'obiettivo di questa
legislatura nata zoppa, ovvero le riforme istituzionali e di
sistema. Perché è inutile nasconderselo, senza
Forza Italia, senza i suoi voti decisivi al Senato, sarebbe forse
stato possibile approvare una nuova legge elettorale, ma di certo
sarebbe stata impossibile qualunque modifica costituzionale, ed in
particolare quelle da tutti condivise come la modifica del
bicameralismo perfetto e un robusto aggiornamento
del modello regionale. Non sfugge a nessuno, infatti,
che una riforma del senato che comporti una modifica
radicale del suo ruolo, la sua trasformazione in camera
delle autonomie con il venir meno del rapporto fiduciario col
governo, e la conseguente cessazione dell'elezione dei suoi membri,
ha ben poche chance di essere approvata con i numeri risicati della
maggioranza attuale, tanto più se si pensa che il regolamento del
Senato prevede il voto segreto per le leggi costituzionali. Ed è
allora proprio su questo terreno, a me pare, che si misura più
correttamene il significato dell'operazione politica conclusa da
Renzi, che comporta di rendere nuovamente percorribile, nei tempi
compressi che la situazione del nostro paese esige, quelle riforme
di sistema non più eludibili, che possono consentire di sciogliere
i grumi e i nodi istituzionali che oggi rendono ingovernabile
l'Italia. Un obiettivo fondamentale per ridare
dignità ad una politica svilita ed apparentemente
impotente di fronte al declino del paese, per rispondere alla crisi
di fiducia mai così profonda tra opinione pubblica e classe
dirigente, per sgonfiare le ragioni dei profeti di sventura, pronti
a raccogliere le macerie del paese. Certo, si tratta di una
strada complicata e difficile, che comporta un delicato
esercizio di equilibrismo tra maggioranza di governo e maggioranza
più larga per le riforme, che sconta tutti i rischi dei patti
stretti con Berlusconi, uomo politico spregiudicato che in
passato si è dimostrato più volte inaffidabile. E come tutte le
rotte che vanno percorse con tanti e variegati compagni di viaggio,
comporterà compromessi e rinunce spesso difficili da
accettare, come già si intravede nel caso della legge
elettorale, e non è difficile immaginare che capiterà anche quando
sulle altre riforme istituzionali si passerà dai titoli al merito.
Una strada difficile e irta di ostacoli, dunque, ma a
mio avviso senza alternative, che occorreva intraprendere con quel
coraggio un po' garibaldino che costituisce uno dei pregi, e un
tratto distintivo, del nuovo leader del partito democratico.
Diciamoci
la verità, alcune ragioni di perplessità e dissenso rispetto alla
proposta di accordo sulle riforme conclusa da Renzi, e in particolare
sulla legge elettorale, sono ragionevoli e fondate. E' vero infatti
che la legge profilata presenta alcuni aspetti critici, che sono stati
messi in evidenza dagli esperti ed osservatori più attenti, tra cui la soglia per accedere al premio di maggioranza, all'evidenza molto (troppo) bassa, con conseguente distorsione possibile del risultato elettorale eccessiva, e il sistema di riparto dei seggi su base nazionale,
che contraddice e vanifica gli aspetti positivi dei collegi di piccola
dimensione, rendendo incerta l'attribuzione di seggi e così meno solido
il rapporto tra eletto ed elettore. Si tratta di una ipotesi che
presenta anche evidenti aspetti positivi, dei quali i più rilevanti io
credo siano soprattutto il fatto di garantire un vincitore, anche tramite il ballottaggio, e la previsione di soglie di sbarramento significative, che impediscono la polverizzazione delle rappresentanze parlamentari e il ricatto permanente delle piccole formazioni.
Ma
sarebbe davvero sbagliato misurare e giudicare l'iniziativa di Renzi
solo sulla valutazione analitica e un po' tecnicista dei pregi e difetti
del nuovo sistema elettorale proposto. L'aspetto più rilevante, a mio
avviso, e ciò che disvela l'enorme pregio del risultato politico
ottenuto, almeno fin qui, e' il fatto di aver riportato dentro
una ipotesi di collaborazione alle riforme Forza Italia, e così aver
nuovamente reso possibile l'obiettivo di questa legislatura nata zoppa,
ovvero le riforme istituzionali e di sistema. Perché è
inutile nasconderselo, senza Forza Italia, senza i suoi voti decisivi al
Senato, sarebbe forse stato possibile approvare una nuova legge
elettorale, ma di certo sarebbe stata impossibile qualunque modifica
costituzionale, ed in particolare quelle da tutti condivise come la modifica del bicameralismo perfetto e un robusto aggiornamento del modello regionale. Non sfugge a nessuno, infatti, che una riforma del senato che comporti una modifica radicale del suo ruolo,
la sua trasformazione in camera delle autonomie con il venir meno del
rapporto fiduciario col governo, e la conseguente cessazione
dell'elezione dei suoi membri, ha ben poche chance di essere approvata
con i numeri risicati della maggioranza attuale, tanto più se si pensa
che il regolamento del Senato prevede il voto segreto per le leggi
costituzionali. Ed è allora proprio su questo terreno, a me pare,
che si misura più correttamene il significato dell'operazione politica
conclusa da Renzi, che comporta di rendere nuovamente percorribile, nei
tempi compressi che la situazione del nostro paese esige, quelle riforme
di sistema non più eludibili, che possono consentire di sciogliere i
grumi e i nodi istituzionali che oggi rendono ingovernabile l'Italia. Un obiettivo fondamentale per ridare dignità ad una politica svilita
ed apparentemente impotente di fronte al declino del paese, per
rispondere alla crisi di fiducia mai così profonda tra opinione pubblica
e classe dirigente, per sgonfiare le ragioni dei profeti di sventura,
pronti a raccogliere le macerie del paese. Certo, si tratta di una strada complicata e difficile, che comporta
un delicato esercizio di equilibrismo tra maggioranza di governo e
maggioranza più larga per le riforme, che sconta tutti i rischi dei
patti stretti con Berlusconi, uomo politico spregiudicato che
in passato si è dimostrato più volte inaffidabile. E come tutte le rotte
che vanno percorse con tanti e variegati compagni di viaggio, comporterà compromessi e rinunce spesso difficili da accettare,
come già si intravede nel caso della legge elettorale, e non è
difficile immaginare che capiterà anche quando sulle altre riforme
istituzionali si passerà dai titoli al merito. Una
strada difficile e irta di ostacoli, dunque, ma a mio avviso senza
alternative, che occorreva intraprendere con quel coraggio un po'
garibaldino che costituisce uno dei pregi, e un tratto distintivo, del
nuovo leader del partito democratico.
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Diciamoci
la verità, alcune ragioni di perplessità e dissenso rispetto alla
proposta di accordo sulle riforme conclusa da Renzi, e in particolare
sulla legge elettorale, sono ragionevoli e fondate. E' vero infatti
che la legge profilata presenta alcuni aspetti critici, che sono stati
messi in evidenza dagli esperti ed osservatori più attenti, tra cui la soglia per accedere al premio di maggioranza, all'evidenza molto (troppo) bassa, con conseguente distorsione possibile del risultato elettorale eccessiva, e il sistema di riparto dei seggi su base nazionale,
che contraddice e vanifica gli aspetti positivi dei collegi di piccola
dimensione, rendendo incerta l'attribuzione di seggi e così meno solido
il rapporto tra eletto ed elettore. Si tratta di una ipotesi che
presenta anche evidenti aspetti positivi, dei quali i più rilevanti io
credo siano soprattutto il fatto di garantire un vincitore, anche tramite il ballottaggio, e la previsione di soglie di sbarramento significative, che impediscono la polverizzazione delle rappresentanze parlamentari e il ricatto permanente delle piccole formazioni.
Ma
sarebbe davvero sbagliato misurare e giudicare l'iniziativa di Renzi
solo sulla valutazione analitica e un po' tecnicista dei pregi e difetti
del nuovo sistema elettorale proposto. L'aspetto più rilevante, a mio
avviso, e ciò che disvela l'enorme pregio del risultato politico
ottenuto, almeno fin qui, e' il fatto di aver riportato dentro
una ipotesi di collaborazione alle riforme Forza Italia, e così aver
nuovamente reso possibile l'obiettivo di questa legislatura nata zoppa,
ovvero le riforme istituzionali e di sistema. Perché è
inutile nasconderselo, senza Forza Italia, senza i suoi voti decisivi al
Senato, sarebbe forse stato possibile approvare una nuova legge
elettorale, ma di certo sarebbe stata impossibile qualunque modifica
costituzionale, ed in particolare quelle da tutti condivise come la modifica del bicameralismo perfetto e un robusto aggiornamento del modello regionale. Non sfugge a nessuno, infatti, che una riforma del senato che comporti una modifica radicale del suo ruolo,
la sua trasformazione in camera delle autonomie con il venir meno del
rapporto fiduciario col governo, e la conseguente cessazione
dell'elezione dei suoi membri, ha ben poche chance di essere approvata
con i numeri risicati della maggioranza attuale, tanto più se si pensa
che il regolamento del Senato prevede il voto segreto per le leggi
costituzionali. Ed è allora proprio su questo terreno, a me pare,
che si misura più correttamene il significato dell'operazione politica
conclusa da Renzi, che comporta di rendere nuovamente percorribile, nei
tempi compressi che la situazione del nostro paese esige, quelle riforme
di sistema non più eludibili, che possono consentire di sciogliere i
grumi e i nodi istituzionali che oggi rendono ingovernabile l'Italia. Un obiettivo fondamentale per ridare dignità ad una politica svilita
ed apparentemente impotente di fronte al declino del paese, per
rispondere alla crisi di fiducia mai così profonda tra opinione pubblica
e classe dirigente, per sgonfiare le ragioni dei profeti di sventura,
pronti a raccogliere le macerie del paese. Certo, si tratta di una strada complicata e difficile, che comporta
un delicato esercizio di equilibrismo tra maggioranza di governo e
maggioranza più larga per le riforme, che sconta tutti i rischi dei
patti stretti con Berlusconi, uomo politico spregiudicato che
in passato si è dimostrato più volte inaffidabile. E come tutte le rotte
che vanno percorse con tanti e variegati compagni di viaggio, comporterà compromessi e rinunce spesso difficili da accettare,
come già si intravede nel caso della legge elettorale, e non è
difficile immaginare che capiterà anche quando sulle altre riforme
istituzionali si passerà dai titoli al merito. Una
strada difficile e irta di ostacoli, dunque, ma a mio avviso senza
alternative, che occorreva intraprendere con quel coraggio un po'
garibaldino che costituisce uno dei pregi, e un tratto distintivo, del
nuovo leader del partito democratico.
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la verità, alcune ragioni di perplessità e dissenso rispetto alla
proposta di accordo sulle riforme conclusa da Renzi, e in particolare
sulla legge elettorale, sono ragionevoli e fondate. E' vero infatti
che la legge profilata presenta alcuni aspetti critici, che sono stati
messi in evidenza dagli esperti ed osservatori più attenti, tra cui la soglia per accedere al premio di maggioranza, all'evidenza molto (troppo) bassa, con conseguente distorsione possibile del risultato elettorale eccessiva, e il sistema di riparto dei seggi su base nazionale,
che contraddice e vanifica gli aspetti positivi dei collegi di piccola
dimensione, rendendo incerta l'attribuzione di seggi e così meno solido
il rapporto tra eletto ed elettore. Si tratta di una ipotesi che
presenta anche evidenti aspetti positivi, dei quali i più rilevanti io
credo siano soprattutto il fatto di garantire un vincitore, anche tramite il ballottaggio, e la previsione di soglie di sbarramento significative, che impediscono la polverizzazione delle rappresentanze parlamentari e il ricatto permanente delle piccole formazioni.
Ma
sarebbe davvero sbagliato misurare e giudicare l'iniziativa di Renzi
solo sulla valutazione analitica e un po' tecnicista dei pregi e difetti
del nuovo sistema elettorale proposto. L'aspetto più rilevante, a mio
avviso, e ciò che disvela l'enorme pregio del risultato politico
ottenuto, almeno fin qui, e' il fatto di aver riportato dentro
una ipotesi di collaborazione alle riforme Forza Italia, e così aver
nuovamente reso possibile l'obiettivo di questa legislatura nata zoppa,
ovvero le riforme istituzionali e di sistema. Perché è
inutile nasconderselo, senza Forza Italia, senza i suoi voti decisivi al
Senato, sarebbe forse stato possibile approvare una nuova legge
elettorale, ma di certo sarebbe stata impossibile qualunque modifica
costituzionale, ed in particolare quelle da tutti condivise come la modifica del bicameralismo perfetto e un robusto aggiornamento del modello regionale. Non sfugge a nessuno, infatti, che una riforma del senato che comporti una modifica radicale del suo ruolo,
la sua trasformazione in camera delle autonomie con il venir meno del
rapporto fiduciario col governo, e la conseguente cessazione
dell'elezione dei suoi membri, ha ben poche chance di essere approvata
con i numeri risicati della maggioranza attuale, tanto più se si pensa
che il regolamento del Senato prevede il voto segreto per le leggi
costituzionali. Ed è allora proprio su questo terreno, a me pare,
che si misura più correttamene il significato dell'operazione politica
conclusa da Renzi, che comporta di rendere nuovamente percorribile, nei
tempi compressi che la situazione del nostro paese esige, quelle riforme
di sistema non più eludibili, che possono consentire di sciogliere i
grumi e i nodi istituzionali che oggi rendono ingovernabile l'Italia. Un obiettivo fondamentale per ridare dignità ad una politica svilita
ed apparentemente impotente di fronte al declino del paese, per
rispondere alla crisi di fiducia mai così profonda tra opinione pubblica
e classe dirigente, per sgonfiare le ragioni dei profeti di sventura,
pronti a raccogliere le macerie del paese. Certo, si tratta di una strada complicata e difficile, che comporta
un delicato esercizio di equilibrismo tra maggioranza di governo e
maggioranza più larga per le riforme, che sconta tutti i rischi dei
patti stretti con Berlusconi, uomo politico spregiudicato che
in passato si è dimostrato più volte inaffidabile. E come tutte le rotte
che vanno percorse con tanti e variegati compagni di viaggio, comporterà compromessi e rinunce spesso difficili da accettare,
come già si intravede nel caso della legge elettorale, e non è
difficile immaginare che capiterà anche quando sulle altre riforme
istituzionali si passerà dai titoli al merito. Una
strada difficile e irta di ostacoli, dunque, ma a mio avviso senza
alternative, che occorreva intraprendere con quel coraggio un po'
garibaldino che costituisce uno dei pregi, e un tratto distintivo, del
nuovo leader del partito democratico.
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