Il 31
agosto di un anno fa si spegneva la vita del cardinal Martini, ma non il
suo sogno di una chiesa profetica, aperta, accogliente, in ascolto e in
dialogo sincero con tutti, lasciato a noi come un’eredità. Nella sua
ultima intervista, pubblicata postuma, c’era il rammarico per una chiesa
indietro di 200 anni, e quelle domande così sincere, dirette: “come mai
non si scuote? abbiamo paura invece di coraggio?”. Parole dure come
pietre ma prive di rancore, quasi un ultimo atto d’amore, come un grido,
lui che a causa della malattia non poteva più parlare. Martini moriva
in un momento difficile per la sua chiesa, trascinata sulle prime pagine
dei giornali dagli scandali e dai dossier vatileaks. Come strumenti di
guarigione egli indicava la conversione, la parola di Dio, restituita ai
cattolici dal concilio Vaticano II, e i sacramenti, da portare a quanti
hanno bisogno di nuova forza, compresi divorziati, coppie risposate,
famiglie allargate. Al papa e ai vescovi consigliava di cercare, per i
posti direzionali, dodici persone fuori dalle righe, uomini vicini ai
più poveri, circondati da giovani che sperimentino cose nuove.
Chissà come avrebbe salutato la chiesa di Francesco, gesuita come
lui. “Fare memoria del cardinale Martini è un atto di giustizia”, ha
detto papa Francesco ricevendo i partecipanti della neonata Fondazione
dedicata al cardinale dai gesuiti italiani e dall’Arcidiocesi di Milano.
Lo è sempre la memoria dei Padri, ha aggiunto il papa, indicando in
Martini “un padre per tutta la Chiesa”, un “profeta, uomo di
discernimento e di pace”. “Anche noi – ha poi detto – alla ‘fine del
mondo’ facevamo gli esercizi spirituali con i suoi testi”.
Vania De Luca
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