martedì 24 settembre 2013

Cosa può imparare il Pd dalla “Cdu light”

Pierluigi Castagnetti 

Europa  

Il successo della Cancelliera Merkel dimostra che le leadership forti non soffocano i partiti, semmai motivano a marciare nella stessa direzione
Anche se non ha raggiunto la maggioranza assoluta dei seggi (ed è un bene per la Germania e speriamo per l’Europa) quello della Merkel è stato indubbiamente un trionfo di proporzioni impreviste, costruito con lucidità e determinazione assolutamente “tedesche”. Dovremmo cercare di esaminarlo con serietà per capirne la natura e la consistenza.
A mio avviso, al di là della facile constatazione che si è trattato di un apprezzamento sul lavoro svolto nella legislatura appena conclusa, in parte trova una lontana spiegazione nella svolta operata dalla Cdu ancora negli anni Ottanta.
Erano gli anni in cui le democrazie cristiane in Europa iniziavano a manifestare i segni di un logoramento per usura da potere e per cambiamento dei paradigmi culturali nelle società post-ideologiche. È allora che la Cdu comprese la necessità di cambiare, di cambiarsi, cosa che non riuscì invece a fare la Dc italiana nonostante l’analoga intuizione di De Mita.
La società moderna non sopportava più organizzazioni politiche troppo chiuse e ideologizzate. Fu Helmut Kohl allora a istituire un gruppo di studio, affidandosi ai suggerimenti dei maggiori sociologi e filosofi di quel paese guidati da Niklas Luhmann.
Nacque così un modello di partito imperniato sul coinvolgimento strutturale di esperti di organizzazioni complesse, con dirigenti selezionati dagli elettori e non più dalla base degli iscritti e l’elaborazione del sostrato culturale di riferimento affidata a Fondazioni aperte al contributo di leader che in Italia avremmo definito “esterni” (ricordo bene il tentativo di Nino Andreatta di importare lo stesso modello, con una serie di seminari organizzati in Arel e convegni promossi in varie parti d’Italia, ma il tentativo venne giudicato troppo astratto e dirompente).
Un modello che ha retto i diversi momenti di grassa e di magra elettorale portando avanti nell’indifferenza per i risultati a breve, con determinazione e costanza, un radicamento sociale del partito del tutto nuovo.
Angela Merkel, arrivata alla Cdu dopo la unificazione, a soli 35 anni ha fatto il ministro e poi, passata all’impegno nel partito, ha utilizzato dapprima timidamente e in seguito sempre più esplicitamente tutte le potenzialità di questo modello sino ad arrivare a quello che oggi Jakob Augstein, una delle firme più autorevoli del giornalismo tedesco, ha definito una “Cdu light”, cioè un partito moderno, in una qualche misura blairizzato, aperto alla crescente sensibilità ecologica di quella società (pensiamo al piano per lo smantellamento delle centrali nucleari, sostituite da nuovi investimenti sulle energie rinnovabili), capace di attualizzare i principi della tradizione cristiana sul piano di una maggiore equità sociale, al punto da spiazzare elettoralmente, come in effetti è avvenuto, sia i Verdi che l’Spd.
Allo stesso tempo ha cercato di costruire, soprattutto negli ultimi anni, un percorso di identificazione della sua persona con la Germania, e viceversa. Non pochi dirigenti del suo partito, e in particolare del suo alleato bavarese la Csu, hanno masticato amaro perché non capivano dove questo processo li avrebbe portati, ma hanno abbozzato “per interesse superiore”.
Tutto ciò ha comportato certamente prezzi politici rilevanti, anche se la Cancelliera ha cercato di tenere la barra senza cedere troppo al populismo e alla tirannia dei sondaggi. Il più costoso è stato quello della modifica della strategia europeista di quel paese che Kohl aveva posizionato in prima linea sulla frontiera del federalismo europeo, in parte costretta anche dall’avvenuto allargamento dell’Unione a 28 paesi.
La gran parte dei paesi ex comunisti guardava infatti preferibilmente agli Stati Uniti piuttosto che all’Europa della quale pur era entrata a far parte e la Germania, che si trova al centro del continente e confinante con tutta l’area di quei paesi Pecs coi quali ambiva a intrattenere relazioni privilegiate sul piano degli scambi politici e commerciali, non poteva non tenerne conto.
Nasce così un certo allentamento del “dogma” europeista e una maggiore attenzione all’orizzonte occidentale. Per un vecchio europeista come il sottoscritto si è trattato di una regressione preoccupante, ma questo è avvenuto. Mi pare peraltro si possa sostenere che la Merkel non abbia abiurato la precedente linea ma sia impegnata a ricostruirla su basi nuove, e questa è una sfida per tutti gli altri paesi del continente che debbono decidere se giocare la nuova partita o se osservarla dagli spalti come sembra stia accadendo.
Dobbiamo attenderci infatti, alla luce anche dei risultati elettorali di domenica scorsa che aprono la prospettiva di una Grosse Koalition seppur fra forze politiche di peso molto diverso, una iniziativa tedesca forte proprio perché unitaria sul versante interno. Questa sarà la ricaduta più immediata per gli altri paesi europei, in particolare per l’Italia.
Ma aldilà di questo c’è qualche altra lezione da trarre per il Pd se accetta di imparare qualcosa dai successi degli altri partiti, anche avversari. Prima di noi lo farà sicuramente la Spd il cui vecchio gruppo dirigente lascerà in tempi brevi il posto a quella nuova generazione che da un po’ di tempo (oggi possiamo dire: a ragione) scalpitava.
Dirò allora che ho incontrato Angela Merkel, da Cancelliera ma prima ancora l’avevo conosciuta come presidente della Cdu molti anni fa, quando fu scelta dal vecchio gruppo dirigente di quel partito che aveva compreso la necessità di investire su di lei, non senza resistenze e perplessità considerata l’assoluta inesperienza di questa giovane figlia di un pastore luterano che veniva dall’est, per tentare di “agganciare” una società profondamente cambiata non solo a causa dell’ormai avvenuta riunificazione.
I suoi primi passi apparivano deboli e incerti, ma il partito resistette alla tentazione di un ripensamento e le confermò fiducia. A quel tempo Angela Merkel veniva spesso in Italia (non solo a Cadenabbia sul lago di Como, in una delle sedi più importanti della Fondazione Adenauer) per studiare e cercare di capire un paese molto diverso, ma importante per cogliere la complessità dell’Europa.
Ma ben presto acquisì sicurezza e autorevolezza al punto da riuscire a battere nelle “primarie” interne all’Unione per la candidatura alla cancelleria il leader della Csu bavarese. Dopo, è la storia dei due mandati a partire dal 2005, abbiamo visto ciò che è stata capace di fare. Al punto che si può oggi correttamente affermare che le elezioni le ha vinte lei: i tedeschi hanno scelto la Merkel più della Cdu. Con il partito è riuscita a realizzare un rapporto che da conflittuale è diventato equilibrato, in cui ognuno fa ciò che gli compete. Il partito è “light” ma esiste, eccome, a dimostrazione che leadership forti non soffocano ma semmai motivano a marciare nella stessa direzione.
Per aggiungere un altro esempio colto sempre nel campo di Agramante, si potrebbe parlare dell’esperienza del Pp spagnolo quando negli anni Novanta il vecchio gruppo dirigente che non riusciva a schiodare la consistenza elettorale dal 20% decise di affidarsi a José Maria Aznar, poco più che quarantenne.
Il vecchio Fraga Iribarne fece grosso modo questo discorso ai suoi colleghi di angrafe: «Facciamo tutti un passo indietro, facciamo un giro nel parlamento europeo e lasciamo il partito in nelle mani dei ragazzi». E, anche lì, accadde quello che sappiamo: Aznar governò per due legislature, quando decise che due bastavano e, neppure cinquantenne, si ritirò. Tutto questo per osservare che in tutti i partiti, a tutte le latitudini, i processi di ricambio avvengono e producono effetti positivi quando sono accompagnati dalla fiducia di chi ha più esperienza, ma meno fiato per correre su piste nuove e inesplorate.
Ognuno tragga le conseguenze che ritiene più opportune.
Voglio aggiungere però una parola su di noi. Quando sabato ho ascoltato alla assemblea nazionale del Pd gli interventi di Cuperlo, Renzi, Civati e Pittella (e il giorno prima avevo letto il messaggio di Letta) mi si è allargato il cuore e mi sono detto: non è vero che questo partito non ha futuro, ha una nuova classe dirigente veramente all’altezza. Ha solo bisogno che le si dia fiducia.

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