Il successo della Cancelliera Merkel dimostra che le leadership
forti non soffocano i partiti, semmai motivano a marciare nella stessa
direzione
Anche se non ha raggiunto la maggioranza assoluta dei seggi (ed è
un bene per la Germania e speriamo per l’Europa) quello della Merkel è
stato indubbiamente un trionfo di proporzioni impreviste, costruito con
lucidità e determinazione assolutamente “tedesche”. Dovremmo cercare di
esaminarlo con serietà per capirne la natura e la consistenza.
A mio avviso, al di là della facile constatazione che si è trattato
di un apprezzamento sul lavoro svolto nella legislatura appena conclusa,
in parte trova una lontana spiegazione nella svolta operata dalla Cdu
ancora negli anni Ottanta.
Erano gli anni in cui le democrazie cristiane in Europa iniziavano a
manifestare i segni di un logoramento per usura da potere e per
cambiamento dei paradigmi culturali nelle società post-ideologiche. È
allora che la Cdu comprese la necessità di cambiare, di cambiarsi, cosa
che non riuscì invece a fare la Dc italiana nonostante l’analoga
intuizione di De Mita.
La società moderna non sopportava più organizzazioni politiche troppo
chiuse e ideologizzate. Fu Helmut Kohl allora a istituire un gruppo di
studio, affidandosi ai suggerimenti dei maggiori sociologi e filosofi di
quel paese guidati da Niklas Luhmann.
Nacque così un modello di partito imperniato sul coinvolgimento
strutturale di esperti di organizzazioni complesse, con dirigenti
selezionati dagli elettori e non più dalla base degli iscritti e
l’elaborazione del sostrato culturale di riferimento affidata a
Fondazioni aperte al contributo di leader che in Italia avremmo definito
“esterni” (ricordo bene il tentativo di Nino Andreatta di importare lo
stesso modello, con una serie di seminari organizzati in Arel e convegni
promossi in varie parti d’Italia, ma il tentativo venne giudicato
troppo astratto e dirompente).
Un modello che ha retto i diversi momenti di grassa e di magra
elettorale portando avanti nell’indifferenza per i risultati a breve,
con determinazione e costanza, un radicamento sociale del partito del
tutto nuovo.
Angela Merkel, arrivata alla Cdu dopo la unificazione, a soli 35 anni
ha fatto il ministro e poi, passata all’impegno nel partito, ha
utilizzato dapprima timidamente e in seguito sempre più esplicitamente
tutte le potenzialità di questo modello sino ad arrivare a quello che
oggi Jakob Augstein, una delle firme più autorevoli del giornalismo
tedesco, ha definito una “Cdu light”, cioè un partito moderno, in una
qualche misura blairizzato, aperto alla crescente sensibilità ecologica
di quella società (pensiamo al piano per lo smantellamento delle
centrali nucleari, sostituite da nuovi investimenti sulle energie
rinnovabili), capace di attualizzare i principi della tradizione
cristiana sul piano di una maggiore equità sociale, al punto da
spiazzare elettoralmente, come in effetti è avvenuto, sia i Verdi che
l’Spd.
Allo stesso tempo ha cercato di costruire, soprattutto negli ultimi
anni, un percorso di identificazione della sua persona con la Germania, e
viceversa. Non pochi dirigenti del suo partito, e in particolare del
suo alleato bavarese la Csu, hanno masticato amaro perché non capivano
dove questo processo li avrebbe portati, ma hanno abbozzato “per
interesse superiore”.
Tutto ciò ha comportato certamente prezzi politici rilevanti, anche
se la Cancelliera ha cercato di tenere la barra senza cedere troppo al
populismo e alla tirannia dei sondaggi. Il più costoso è stato quello
della modifica della strategia europeista di quel paese che Kohl aveva
posizionato in prima linea sulla frontiera del federalismo europeo, in
parte costretta anche dall’avvenuto allargamento dell’Unione a 28 paesi.
La gran parte dei paesi ex comunisti guardava infatti preferibilmente
agli Stati Uniti piuttosto che all’Europa della quale pur era entrata a
far parte e la Germania, che si trova al centro del continente e
confinante con tutta l’area di quei paesi Pecs coi quali ambiva a
intrattenere relazioni privilegiate sul piano degli scambi politici e
commerciali, non poteva non tenerne conto.
Nasce così un certo allentamento del “dogma” europeista e una
maggiore attenzione all’orizzonte occidentale. Per un vecchio europeista
come il sottoscritto si è trattato di una regressione preoccupante, ma
questo è avvenuto. Mi pare peraltro si possa sostenere che la Merkel non
abbia abiurato la precedente linea ma sia impegnata a ricostruirla su
basi nuove, e questa è una sfida per tutti gli altri paesi del
continente che debbono decidere se giocare la nuova partita o se
osservarla dagli spalti come sembra stia accadendo.
Dobbiamo attenderci infatti, alla luce anche dei risultati elettorali
di domenica scorsa che aprono la prospettiva di una Grosse Koalition
seppur fra forze politiche di peso molto diverso, una iniziativa tedesca
forte proprio perché unitaria sul versante interno. Questa sarà la
ricaduta più immediata per gli altri paesi europei, in particolare per
l’Italia.
Ma aldilà di questo c’è qualche altra lezione da trarre per il Pd se
accetta di imparare qualcosa dai successi degli altri partiti, anche
avversari. Prima di noi lo farà sicuramente la Spd il cui vecchio gruppo
dirigente lascerà in tempi brevi il posto a quella nuova generazione
che da un po’ di tempo (oggi possiamo dire: a ragione) scalpitava.
Dirò allora che ho incontrato Angela Merkel, da Cancelliera ma prima
ancora l’avevo conosciuta come presidente della Cdu molti anni fa,
quando fu scelta dal vecchio gruppo dirigente di quel partito che aveva
compreso la necessità di investire su di lei, non senza resistenze e
perplessità considerata l’assoluta inesperienza di questa giovane figlia
di un pastore luterano che veniva dall’est, per tentare di “agganciare”
una società profondamente cambiata non solo a causa dell’ormai avvenuta
riunificazione.
I suoi primi passi apparivano deboli e incerti, ma il partito
resistette alla tentazione di un ripensamento e le confermò fiducia. A
quel tempo Angela Merkel veniva spesso in Italia (non solo a Cadenabbia
sul lago di Como, in una delle sedi più importanti della Fondazione
Adenauer) per studiare e cercare di capire un paese molto diverso, ma
importante per cogliere la complessità dell’Europa.
Ma ben presto acquisì sicurezza e autorevolezza al punto da riuscire a
battere nelle “primarie” interne all’Unione per la candidatura alla
cancelleria il leader della Csu bavarese. Dopo, è la storia dei due
mandati a partire dal 2005, abbiamo visto ciò che è stata capace di
fare. Al punto che si può oggi correttamente affermare che le elezioni
le ha vinte lei: i tedeschi hanno scelto la Merkel più della Cdu. Con il
partito è riuscita a realizzare un rapporto che da conflittuale è
diventato equilibrato, in cui ognuno fa ciò che gli compete. Il partito è
“light” ma esiste, eccome, a dimostrazione che leadership forti non
soffocano ma semmai motivano a marciare nella stessa direzione.
Per aggiungere un altro esempio colto sempre nel campo di Agramante,
si potrebbe parlare dell’esperienza del Pp spagnolo quando negli anni
Novanta il vecchio gruppo dirigente che non riusciva a schiodare la
consistenza elettorale dal 20% decise di affidarsi a José Maria Aznar,
poco più che quarantenne.
Il vecchio Fraga Iribarne fece grosso modo questo discorso ai suoi
colleghi di angrafe: «Facciamo tutti un passo indietro, facciamo un giro
nel parlamento europeo e lasciamo il partito in nelle mani dei
ragazzi». E, anche lì, accadde quello che sappiamo: Aznar governò per
due legislature, quando decise che due bastavano e, neppure
cinquantenne, si ritirò. Tutto questo per osservare che in tutti i
partiti, a tutte le latitudini, i processi di ricambio avvengono e
producono effetti positivi quando sono accompagnati dalla fiducia di chi
ha più esperienza, ma meno fiato per correre su piste nuove e
inesplorate.
Ognuno tragga le conseguenze che ritiene più opportune.
Voglio aggiungere però una parola su di noi. Quando sabato ho
ascoltato alla assemblea nazionale del Pd gli interventi di Cuperlo,
Renzi, Civati e Pittella (e il giorno prima avevo letto il messaggio di
Letta) mi si è allargato il cuore e mi sono detto: non è vero che questo
partito non ha futuro, ha una nuova classe dirigente veramente
all’altezza. Ha solo bisogno che le si dia fiducia.
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