venerdì 13 settembre 2013

Altro che ripresa, la crisi morde eccome

Luca Di Bartolomei 

Europa  

Siamo di nuovo l’ultimo vagone del treno: quelli che raccolgono le briciole perchè hanno così paura di cambiare da preferire una lenta agonia
A leggere i titoli dei giornali c’è da avere un pò di vertigine. L’Italia, dicono con diverse tonalità ma sostanzialmente all’unisono, sta vedendo la ripresa.
Corollario: se c’è la ripresa c’è bisogno di stabilità. Bisogna stare così: fermi! Ben saldi sulle gambe, mi raccomando, se non vogliamo perdere il treno della crescita.
Poi se guardi con un po’ più di attenzione scopri che nel 2013 il Pil diminuirà “solo” dell’1,7% (contro una previsione di inizio anno, quando si doveva ancora votare quindi in piena instabilità, di -1,9%).E proseguendo nella lettura si scopre che per il 2014 è prevista una crescita dello 0,7%.
Tradotto vuol dire che seccondo le previsioni odierne, al 31 dicembre del 2014 rischiamo di trovarci un pò meno ricchi (un abbondante 1%) rispetto al 1 gennaio di quest’anno. Un impoverimento che dall’inizio della crisi (dal 2008 in poi) è costato al Paese 7 punti reali di Pil. Roba che per recuperare la ricchezza perduta nell’ultimo quinquennio a questo ritmo impiegheremo una quindicina di anni!
Ora, io ho in grande conto la stabilità ma questa non è stabilità. Si chiama immobilismo. L’Italia, se continua così, non approfitterà di questa crisi per operare quelle riforme che attende da decenni. Ci stiamo ancora riducendo ad essere l’ultimo vagone del treno: quelli che raccolgono le briciole perchè hanno così paura di cambiare da preferire una lenta agonia. Così non andremo da nessuna parte.
Ieri persino Barroso lo ha detto chiaramente nel suo ultimo discorso a Strasburgo: tutta l’Europa è tornata a crescere salvo l’Italia. E cosa serve all’Italia? Un governo coi piedi piantati per terra o una rivoluzione? Credo che serva una rivoluzione su almeno tre o quattro punti specifici:
1) un riequilibrio della tassazione spostata dal lavoro e dall’impresa verso i patrimoni;
2) un nuovo welfare e nuove regole sul lavoro riequilibrando una spesa ai limiti della sostenibilità e oggi rivolta a sostenere solo un pezzo di non occupati (e qui chi ha più idee da mettere è il benvenuto, ci sono i modelli tedesco, danese, ci sarebbe la possibilità di una grande agenzia del lavoro che gestisca finanziamenti finalizzati alla creazione di occupazione nei settori capaci di produrne altro ancora con l’indotto…);
3) un ripensamento radicale della pubblica amministrazione il cui livello di efficienza è oggi ridottissimo, anche rovesciando le regole che oggi fanno pagare ai cittadini ritardi e lentezze (l’ultima volta che si è lavorato su questo Bassanini faceva ancora il ministro), e insieme a questo una revisione degli assetti amministrativi e dei poteri. Decidiamo ad esempio se lo vogliamo o meno il federalismo ma non con 20 Regioni, 107 Province, 8.000 comuni! E se non lo vogliamo allora ripensiamo lo Stato centrale;
4) infine una scelta più nitida sul futuro produttivo del nostro Paese e specialmente del Mezzogiorno, perché i treni del passato non si possono riprendere e per corrergli dietro si perdono quelli del futuro.
Cose che intendiamoci potrebbe fare anche questo governo esattamente come avvenuto in Germania con il primo governo Merkel che però ereditava le riforme messe in campo dal governo Schroeder, mentre noi alle spalle abbiamo berlusconi e i suoi guai.
Insomma tutto meno che barcamenarsi con l’Imu e destreggiarsi intorno a conti pubblici che sono a posto solo se non si fa nulla. Se no a questa stabilità di faccaiata c’è da preferire qualche buona spallata e anche i mercati se ne possono convincere se la spallatra porta da qualche parte e non ci fa restare in mezzo alla palude.
Allora partiamo da questo assunto: se il +0,7% di Pil per il 2014 è un regalo che arriva da fuori (senza nessuna relazione con quanto deciderà di fare un governo che nessuno sa quale sarà) cosa siamo disposti a fare per aggiungerci un +1-1,3%? Va chiesto anche ai cittadini, cosa sono disposti a fare?
Su questo ci si misura politicamente, non sulla stabilità o sulle “buone notizie” gonfiate dai giornali.

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