domenica 22 settembre 2013

Da una pessima assemblea può nascere un buon congresso Pd?

Stefano Menichini 

Europa  

In dieci punti, che cosa è successo e quali lezioni trarre dall'assemblea nazionale del Pd. Per Renzi e per Cuperlo, innanzi tutto
Il pessimo esito dell’assemblea nazionale del Pd che era chiamata a convocare finalmente il congresso ha più di una motivazione. Il delitto ha più di assassino: di nuovo, similmente a quanto accadde nel giorno infausto dei 101, la vittima è la credibilità del Partito democratico. E in molti, per ragioni molto diverse, hanno tirato la coltellata. Questa incapacità di tenuta interna, questo finire preda di dinamiche apparentemente irrazionali e autolesioniste, sta diventando una costante inquietante.
Se l’evento è così complicato e sfaccettato, l’unico modo per analizzarlo e per immaginarne gli sviluppi consiste nel guardare i singoli tasselli del puzzle, sperando che compongano un insieme.
1. Non solo nell‘intervento di Matteo Renzi della seconda giornata (perfino ruvido, a tratti, sul punto in questione) ma perfino nella relazione di Epifani, il Pd aveva trasmesso l’impressione di un partito che si sta progressivamente disimpegnando dal governo. Qualche critica esplicita, riferimenti insistiti al precedente negativo della “seconda fase” del governo Monti (quando Berlusconi passò all’opposizione lasciando il cerino del rigore in mano a Bersani), la preannunciata ostilità a misure come l’aumento dell’Iva. Nulla di eclatante, dialettica fisiologica dentro una maggioranza. In tempi normali però, non adesso che si cammina sul filo. Così, se da palazzo Chigi s’è avvertito lo scricchiolio, non stupisce che la spintarella finale al parziale fallimento dell’assemblea l’abbia data il lettiano Dal Moro nell’ultima concitata riunione del comitato per le regole.
2. Non si è potuto modificare lo statuto, ma le regole per il congresso sono state approvate con larghissima maggioranza, ivi compresa la data dell’8 dicembre. Sono regole che a questo punto collidono con lo statuto su alcuni punti, però provengono da un organismo superiore a tutti gli altri come l’assemblea nazionale. Dunque in teoria l’8 dicembre non si tocca. Invece proprio questo è il terreno di scontro per i giorni che separano dalla prossima direzione, perché il fallimento organizzativo dell’assemblea dà una chance a chi sembrava ormai sconfitto nel disegno di rinviare il congresso sine die: i bersaniani di stretta osservanza e appunto i sostenitori di Letta.
3. È stato evidente perfino ascoltando i discorsi dal palco, ma nel retropalco e nei corridoi ancora di più: tra Renzi e Cuperlo c’è un gentlemen agreement che sconfina nella aperta reciproca sponda politica. I due gruppi si sono molto allargati e quindi contengono aree che rimangono affezionate ai propri progetti iniziali (i veltroniani tengono più di Renzi alla “purezza” del Pd incarnata dall’articolo 3 dello statuto sulla corrispondenza tra segretario e candidato premier; i bersaniani “atterrati” su Cuperlo non rinunciano al tentativo di far saltare il congresso), ma tra i due candidati principali e tra i loro sostenitori più stretti c’è aperta collaborazione.
4. I prossimi giorni sono una prova anticipata di leadership, in particolare appunto per Renzi e per Cuperlo. Devono battere le residue resistenze, e in qualche modo devono affermare l’autonomia del loro Pd – potremmo dire del prossimo Pd – sia rispetto ai patti di sindacato che l’hanno retto fin qui, sia rispetto alle strette compatibilità imposte dal quadro politico delle larghe intese. Di qui, di nuovo, la latente frizione con Letta, col quale appare obbligatorio cercare un modus vivendi che si sperava già acquisito e invece evidentemente non funziona. Più tesa la storia con Bersani, che pare davvero essersi ritagliato il ruolo più antipatico di frenatore, di ostruzionismo contro tutti e tutto, un problema innanzi tutto per il candidato che in extremis e palesemente controvoglia s’è rassegnato ad appoggiare.
5. In questo passaggio è perfino possibile che fra Renzi e Cuperlo si stringa qualcosa di più di una intesa di convenienza. Arriviamo a pensare a una sorta di Patto del Granita, quello che spalancò le porte del New Labour a Blair e Brown (certo, con le conseguenze a lungo termine che conosciamo). I due sono quasi agli antipodi sia per carattere che per cultura politica e anche (s’è sentito oggi) per l’analisi della crisi italiana. Ma ancora in questa assemblea s’è avuta conferma di una fragilità del gruppo renziano, anche nella sua versione allargata: senza di Renzi non c’è un futuro competitivo per il Pd; ma lui da solo con l’attuale assetto non va lontano e per quanto vasto sia il consenso popolare rischia grosso già un minuto dopo aver (eventualmente) vinto il congresso.
6. Ciò che apparso marginale nella dinamica assembleare, cioè il ruolo di Pittella e soprattutto di Pippo Civati, può non esserlo affatto nella platea più vasta di chi voterà alle primarie. Civati carica insistentemente sul proprio essere un outsider: il fallimento dell’assemblea e le difficoltà incontrate dai suoi competitori principali potranno dargli ulteriori munizioni nel suo bombardamento del quartier generale democratico.
7. La frase migliore della giornata l’ha pronunciata Marina Sereni chiudendo i lavori di una assemblea che, ha detto, «non si riunirà più». Lei si riferiva all’attuale platea, destinata al rinnovo: sarebbe invece il caso che un organismo così pletorico, ingovernabile e inefficiente fosse in quanto tale spazzato via dal futuro Pd. Un organismo di mille persone appare insensato. Del resto la sua elefantiasi è figlia delle logiche correntizie che, fin dalle primarie 2007, prevedevano per ogni candidato alla segreteria un numero illimitato di liste a sostegno: quindi tanti posti da assegnare. Una cosa certa di questo congresso – per certi aspetti la più importante – è che ogni candidato sarà sostenuto da una sola lista: i gruppi all’interno saranno egualmente riconoscibili, ma finisce il tempo delle cordate con i posti garantiti.
8. Pur nel baillame generale non dovrebbero sfuggire i contenuti dei discorsi che si sono ascoltati. Molto più preparato, impostato e alla fine efficace quello di Gianni Cuperlo. Più improvvisato quello di Renzi, che appare fin troppo preoccupato di smentire l’accusa di essere un facile battutista, per cui adesso inzeppa i propri interventi di dati, cifre, statistiche, citazioni di misure concrete di governo nazionale e locale. Ovviamente l’assemblea del Pd è il luogo dove un discorso “alla Cuperlo” piace di più, ma fuori, in piazza e in televisione, il ruoli sono invertiti (a parte che il sindaco ha ricevuto all’Auditorium applausi mai avuti prima in questo consesso).
9. La differenza di analisi fra i due è molto netta: per Cuperlo ciò che nell’Occidente sta andando in crisi non è astrattamente “la politica” bensì il modello politico, economico e culturale della destra, il che spalanca le strade a una rinnovata e ineludibile proposta di sinistra che torni ad affermare il primato dell’eguaglianza. Per Renzi invece la crisi è del tutto trasversale, investe i modelli della destra liberista come quelli tentati dalla sinistra, a cominciare dalla sinistra italiana negli anni di governo e di opposizione dell’Ulivo. Prevedibilmente qui l’accento è più sul concetto di merito che su quello di eguaglianza, ma Renzi ha preso da tempo le distanze dai topoi del liberismo progressista.
10.  Chiunque sia il prossimo segretario del Pd, deve assumersi l’impegno di installare un wireless che funzioni davvero in occasione degli eventi pubblici del suo partito.

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