martedì 24 settembre 2013

L’Alitalia e i capitani fuggitivi

Alessio Postiglione 

Europa  

I "patrioti" che salvarono «l'italianità della compagnia di bandiera» ora sono in fuga. E la cordata del Cavaliere è costata parecchio agli italiani
I capitani coraggiosi sono diventati i capitani fuggitivi. Stiamo parlando dei “patrioti” che – regnante Berlusconi – salvarono «l’italianità della compagnia di bandiera», nel più puro stile berlusconiano. Il cavaliere, con una chiamata, appartenendo alla stessa schiatta imprenditoriale dei “patrioti” e vantando rapporti confidenziali e amicali con questo Gotha dell’imprenditoria, mise su la cordata che avrebbe salvato Alitalia.
Oggi, alla vigilia del consiglio di amministrazione di AirFrance KLM che potrebbe sancire l’aumento al 50 per cento della quota attualmente del 25 per cento detenuta dal vettore franco-olandese nel capitale di Alitalia, vale la pena di fare il punto sulle tormentate vicende della ex compagnia di bandiera italiana.
Cinque anni fa Berlusconi, per salvare dal dissesto l’azienda, mal gestita ed oberata da personale superfluo assunto in base a criteri prettamente clientelari, invece di vendere tout court ai francesi, mise assieme una cordata “patriottica”, con i soldi dei contribuenti, alla quale partecipava il salotto buono della imprenditoria nazionale desiderosa di ottenere benemerenze spendibili al tavolo della (cattiva) politica.
In questo arco di tempo, i soci non hanno apportato, né avrebbero potuto farlo, alcun contributo di carattere tecnico e sembrano solo ansiosi di liberarsi delle rispettive quote, scaduto il periodo di lock up. Alitalia, dal canto suo, nonostante una massiccia cura dimagrante, ha macinato ulteriori perdite per 850 milioni ed è gravata da un indebitamento complessivo di 1 miliardo; continua a perdere quote di mercato a vantaggio dei vettori low cost e sull’unica tratta veramente redditizia – Roma/Milano – subisce la concorrenza della Tav.
I “patrioti”, d’altronde, al di là dei guai di Alitalia, devono anche preoccuparsi delle proprie sgradevoli vicende personali: Riva è alle prese con il dramma dell’Ilva di Taranto, Caltagirone col porto di Fiumicino, Ligresti ai domiciliari per l‘affaire Fonsai. Molti di loro non hanno neanche mai versato neppure la quota del precedente aumento di capitale di Alitalia. Insomma, se ne vogliono disfare. Dunque, AirFrance KLM può comprare oggi in saldo quello che avrebbe dovuto comprare ad un prezzo più congruo anni fa.
Un vero peccato se si pensa che i francesi avevano proposto precedentemente all’allora ministro Padoa Schioppa un investimento su Alitalia pari a un miliardo di euro, l’accollo di tutti i debiti e l’impegno a mantenere l’autonomia della compagnia aerea. Ovviamente, l’ideale sarebbe stato non distruggere Alitalia e non trasformarla in un ammortizzatore sociale per vellicare i bacini elettorali dei nostri politici. Ma questa è un’altra storia.
Morale della favola: la cordata del Cavaliere è costata parecchio agli italiani. Ad iniziare, dagli 800 milioni a fondo perduto che Berlusconi accordò ai capitani coraggiosi, fino al monopolio della tratta Milano/Roma, la più lucrosa, concessa al nuovo vettore che, come sempre, l’hanno pagata i consumatori con tariffe più alte. Quasi una servitù feudale più che un accordo commerciale.
Che resta? Sperare in AirFrance, che pure ha problemi di suo, ed è interessata a giocare d’attesa per spuntare un prezzo più basso. Lupi – bontà sua! – afferma di essere favorevole all’aumento della quota AirFrance, purché vengano salvaguardati l’”italianità” (sempre lei!), i livelli occupazionali della compagnia e di Aeroporti di Roma e la centralità della posizione di Roma nel Mediterraneo.
Insomma, regna il solito italico sciocchezzaio fatto di aria fritta e luoghi comuni, con in più una certa dose di supponenza, come se fosse Alitalia a dover rilevare AirFrance e non viceversa.
La verità è che quella operazione è esemplificativa del capitalismo de noantri e del rapporto  di collusione  fra imprenditoria e politica.
I capitalisti italiani non amano il mercato, preferiscono tessere relazioni politiche; non competono fra di loro, ma colludono. Le stesse facce le ritroviamo in tutti i consigli di amministrazione. I capitani coraggiosi sono concessionari dello stato – quindi la politica vale la pena tenersela buona – o addirittura co-azionisti di qualche ente locale, in queste mostruose società pubbliche-private, che operano quasi sempre  in ex monopoli naturali, dove si preferisce spartir rendite monopolistiche insieme, sulla pelle dei consumatori, piuttosto che favorire un sistema dove i privati competano e il pubblico faccia il regolatore neutrale.
Il mitico presidente della Fiat Vittorio Valletta amava ripetere che gli interessi dell’Italia sono quelli della Fiat. Forse, quando capiremo che l’interesse del paese è dato dalla somma di tanti interessi, e non dalla soddisfazione di qualche interesse dominante e privilegiato, quel giorno, il nostro capitalismo sarà migliore.

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