Servono leggi più cogenti per colpire i patrimoni e reinserirli in un circuito sano
Napoli ha commemorato ieri Giancarlo Siani. Una staffetta della
legalità con la sua Mehari che ha attraversato la città fino
all’ingresso nella redazione de Il Mattino; «un archeologo
della verità», così l’ha ricordato il fondatore di Libera Don Ciotti. È
viva la testimonianza civile di Siani, il 26enne cronista precario
ucciso dalla camorra, che aveva scelto di raccontare il “male” del
nostro Belpaese. Un virus non sconfitto ma piuttosto ridimensionato con
pesanti arresti e una dura repressione, nonostante la scarsità di mezzi e
risorse degli inquirenti.
Le mafie, pur nei mutamenti e con strategie cangianti, rappresentano
ancora una debolezza profonda dell’Italia. Non solo per la violenza e il
controllo del territorio. Mai come in questi ultimi anni il loro potere
economico è cresciuto, sconfinando all’estero tanto da mobilitare il
parlamento europeo, spingere Bush e poi Obama ad aggiungere nella lista
delle organizzazioni pericolose ’ndrangheta e camorra.
Ma restando a casa nostra, con le ferite di una recessione che ha
colpito il nostro tessuto sociale, il virus delle mafie continua a
debilitare la tenuta economica spesso nell’indifferenza dell’agenda
politica.
Snocciolando i dati che ogni anno forniscono le associazioni delle
imprese, emerge sempre più la potenza finanziaria delle mafie, con cifre
che spaventano: 170 miliardi per la Cgia di Mestre, il 10 per cento del
Pil nazionale. Sui circa 20mila beni confiscati, più della metà è un
immobile, il 52,3 per cento, fino ad aziende e titoli societari per
l’8,7 per cento.
Ed è quest’ultima cifra, in costante crescita, grazie alle
disponibilità ricavate da attività illecite, che rende le mafie l’unico
bancomat pronto all’uso in un mercato strozzato dalla crisi. Una
penetrazione enorme come segnalano i numeri delle aziende confiscate: il
29,4 per cento è rappresentato da piccole attività; il 28,8 per cento
delle costruzioni; il 10,5 per cento alberghi e ristoranti. La spina
dorsale dell’economia sta finendo lentamente nelle mani di una “spa
illegale”, soprattutto al Nord, dove sono concentrati la metà dei
sequestri.
Non a caso, come all’unisono viene sollevato dai giudici e dalle
forze dell’ordine, la repressione patrimoniale è la strada maestra per
abbattere la consistenza dell’impresa economica criminale e il consenso
sociale che propaga in un contesto sociale con vecchie e nuove povertà.
Per questo la politica è chiamata a strategie nuove che facciano
saltare la ditta mafiosa. Dopo le modifiche del 416 serve una
legislazione più cogente sulla natura economica e patrimoniale delle
mafie con soluzioni più efficaci. È davvero un errore tergiversare
sull’istituzione della Commissione antimafia in questa legislatura per
problemi di natura partitica. Tanto si potrebbe decidere rapidamente per
colpire i patrimoni e reinserirli in un circuito sano, per dirla con le
parole del magistrato Cantone pensare, tra i vari decreti in
gestazione, ai «beni confiscati come motore del fare».
Le proposte sono in campo, rafforzando le esperienze di riutilizzo
dei beni per l’economia sociale e cooperativa targata Libera, o anche
utilizzandoli per start-up di nuove imprese o assegnandoli ai
penitenziari minorili.
Sono consapevole di toccare un tabù, ma sarebbe anche ora di
procedere sulla vendita dei beni confiscati per produrre nuova economia o
per investire le risorse ottenute in zone del Sud dove lo stato perde
quotidianamente credibilità, e mi riferisco, per esempio, al reperimento
di coperture per attivare le bonifiche ambientali nei terreni devastati
dalle ecomafie. Ma per tutto ciò è necessario che il parlamento con il
governo lavorino speditamente e, ripeto, l’insediamento della
commissione Antimafia non è più rinviabile.
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