martedì 24 settembre 2013

Basta tergiversare: dov’è la commissione Antimafia?

Enzo Amendola 

Europa  

Servono leggi più cogenti per colpire i patrimoni e reinserirli in un circuito sano
Napoli ha commemorato ieri Giancarlo Siani. Una staffetta della legalità con la sua Mehari che ha attraversato la città fino all’ingresso nella redazione de Il Mattino; «un archeologo della verità», così l’ha ricordato il fondatore di Libera Don Ciotti. È viva la testimonianza civile di Siani, il 26enne cronista precario ucciso dalla camorra, che aveva scelto di raccontare il “male” del nostro Belpaese. Un virus non sconfitto ma piuttosto ridimensionato con pesanti arresti e una dura repressione, nonostante la scarsità di mezzi e risorse degli inquirenti.
Le mafie, pur nei mutamenti e con strategie cangianti, rappresentano ancora una debolezza profonda dell’Italia. Non solo per la violenza e il controllo del territorio. Mai come in questi ultimi anni il loro potere economico è cresciuto, sconfinando all’estero tanto da mobilitare il parlamento europeo, spingere Bush e poi Obama ad aggiungere nella lista delle organizzazioni pericolose ’ndrangheta e camorra.
Ma restando a casa nostra, con le ferite di una recessione che ha colpito il nostro tessuto sociale, il virus delle mafie continua a debilitare la tenuta economica spesso nell’indifferenza dell’agenda politica.
Snocciolando i dati che ogni anno forniscono le associazioni delle imprese, emerge sempre più la potenza finanziaria delle mafie, con cifre che spaventano: 170 miliardi per la Cgia di Mestre, il 10 per cento del Pil nazionale. Sui circa 20mila beni confiscati, più della metà è un immobile, il 52,3 per cento, fino ad aziende e titoli societari per l’8,7 per cento.
Ed è quest’ultima cifra, in costante crescita, grazie alle disponibilità ricavate da attività illecite, che rende le mafie l’unico bancomat pronto all’uso in un mercato strozzato dalla crisi. Una penetrazione enorme come segnalano i numeri delle aziende confiscate: il 29,4 per cento è rappresentato da piccole attività; il 28,8 per cento delle costruzioni; il 10,5 per cento alberghi e ristoranti. La spina dorsale dell’economia sta finendo lentamente nelle mani di una “spa illegale”, soprattutto al Nord, dove sono concentrati la metà dei sequestri.
Non a caso, come all’unisono viene sollevato dai giudici e dalle forze dell’ordine, la repressione patrimoniale è la strada maestra per abbattere la consistenza dell’impresa economica criminale e il consenso sociale che propaga in un contesto sociale con vecchie e nuove povertà.
Per questo la politica è chiamata a strategie nuove che facciano saltare la ditta mafiosa. Dopo le modifiche del 416 serve una legislazione più cogente sulla natura economica e patrimoniale delle mafie con soluzioni più efficaci. È davvero un errore tergiversare sull’istituzione della Commissione antimafia in questa legislatura per problemi di natura partitica. Tanto si potrebbe decidere rapidamente per colpire i patrimoni e reinserirli in un circuito sano, per dirla con le parole del magistrato Cantone pensare, tra i vari decreti in gestazione, ai «beni confiscati come motore del fare».
Le proposte sono in campo, rafforzando le esperienze di riutilizzo dei beni per l’economia sociale e cooperativa targata Libera, o anche utilizzandoli per start-up di nuove imprese o assegnandoli ai penitenziari minorili.
Sono consapevole di toccare un tabù, ma sarebbe anche ora di procedere sulla vendita dei beni confiscati per produrre nuova economia o per investire le risorse ottenute in zone del Sud dove lo stato perde quotidianamente credibilità, e mi riferisco, per esempio, al reperimento di coperture per attivare le bonifiche ambientali nei terreni devastati dalle ecomafie. Ma per tutto ciò è necessario che il parlamento con il governo lavorino speditamente e, ripeto, l’insediamento della commissione Antimafia non è più rinviabile.

Nessun commento:

Posta un commento