La prima giornata dell'assemblea è stata un momento poco felice
della storia del Pd. È chiara l'urgenza di ridare guida e unità a un
partito che così non può neanche sostenere adeguatamente il governo
Letta.
Diciamo la verità, non è stato un momento molto dignitoso quando, in uno sproporzionato clima da suspense,
Epifani ha tirato fuori il numero 8 e una piccola parte della platea è
esplosa in un applauso, come stessero in una sala Bingo e non
nell’assemblea nazionale del primo partito d’Italia.
Né è stato un passaggio alto della storia dei democratici quando,
finita la relazione del segretario, i presenti (una porzione degli
addirittura novecento aventi diritto) sono stati accommiatati perché non
c’erano altri iscritti a parlare né – in assenza dell’accordo sulle
regole congressuali – alcun argomento interessante da svolgere.
Ieri sera abbiamo avuto forte l’impressione di una stagione
democratica che si chiude ingloriosamente. Proprio nel momento in cui
invece un partito sano, robusto e orgoglioso avrebbe le carte in regola
per dominare la scena politica e avviare un lungo ciclo di egemonia.
Anche le parole di Epifani sulla situazione generale, su Berlusconi e
sulle pressioni per ottenere di più dal governo Letta perdono purtroppo
peso, in un simile contesto. Si tocca con mano il danno causato dal
trascinamento su tempi e regole del congresso, e dall’ostruzionismo di
una parte del vecchio gruppo dirigente. In questo limbo, il Pd non è
materialmente in grado di esercitare la funzione di partito perno del
sistema né di principale sostegno al governo Letta.
Fosse stato presente ieri sera, il presidente del consiglio, ex
vicesegretario di Bersani, avrebbe colto tutti i rischi – anche per il
suo tentativo – di ritrovarsi sostenuto da un Pd ormai sostanzialmente
privo di guida e di orizzonte.
Fuori dall’aula dell’Auditorium, ma perfino dentro, è impossibile
cogliere la portata cruciale della data delle primarie: il 24 novembre,
l’8 o il 15 dicembre. Certo chiunque abbia cercato di lavorare per
ulteriori slittamenti sine die si è ormai ritagliato il ruolo di
liquidatore della ditta, non certo di suo difensore: la faccio fallire,
piuttosto che farla cadere in mano a qualche indesiderato.
I quattro candidati sono uniti contro simili tentativi, anche se ogni attenzione si appunta sulle reazioni di Matteo Renzi.
A questo punto la responsabilità dei quattro è perfino più alta: non
devono tanto competere per conquistare questo Pd. Devono urgentemente
darsi da fare per mettere un punto, azzerare strutture ed equilibri
ormai spompati, andare a capo e restituire all’Italia il Pd che l’Italia
merita.
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