La Repubblica 31/3/2014
MASSIMO GIANNINI
L’ex premier dice di sentirsi «un
uomo felice», si chiama fuori dalla futura corsa per il Quirinale e
promuove Matteo Renzi. «È la grande aspettativa di rinnovamento, ma
non deve deluderla, de- ve fare in fretta ma deve soprattutto fare
bene». A partire dalla battaglia che sta conducendo in Europa: «Noi
dobbiamo onorare il fiscal compact, ma non possiamo accettare che ci
leghino le gambe e poi ci chiedano di correre.
Se oggi, per rispettare il tetto magico
del 3 per cento, ci preoccupiamo solo di comprimere il deficit e non
di far crescere il Pil, ci suicidiamo». Le colpe sono un po’ di
tutti: «Chi ha sentito più parlare della Commissione Ue?».
Il virus antieuropeista però
preoccupa: «Solo la Germania ne è immune perché la Merkel ha
difeso gli interessi nazionali ed è diventata la padrona d’Europa
»
“Il Pd di Renzi è l’unico partito
vivo giusta la battaglia contro i no tedeschi”
Presidente Prodi, in Europa i popoli
voltano le spalle ai governi. Come dice Bauman, i palazzi della
politica sono vuoti, perché il vero potere è altrove, dai mercati
alle banche. Cosa sta succedendo?
«Con una diagnosi semplicistica, si
potrebbe dire che la ripresa mondiale è lenta, e in Europa è ancora
più lenta. In realtà il male europeo è molto più complesso. Non
c’è un solo cambiamento nella storia dell’umanità che veda
l’Europa protagonista. Prenda la crisi ucraina: Putin chiama Obama,
anche se gli Usa non c’entrano nulla. Ma vale la famosa domanda di
Kissinger: qual è il numero di telefono dell’Europa? Nessuno lo
sa. Nel frattempo, l’Europa è dominata dalla paura, dagli egoismi
nazionali. Ogni leader europeo guarda alle prossime elezioni, non
alle prossime generazioni».
Risultato: vincono gli anti-europeisti,
come nella Francia di Marine Le Pen.
«Il virus francese mi preoccupa, ma
non mi sorprende. Solo la Germania è immune, perché la Merkel ha
difeso soprattutto gli interessi tedeschi ed è diventata la padrona
d’Europa. Ma è assurdo che un Paese con un surplus commerciale di
280 miliardi, un’inflazione zero e un modesto tasso di crescita, si
rifiuti di reflazionare la sua economia, e di consentire che l’Europa
faccia altrettanto, solo perché questo verrebbe vissuto dai tedeschi
come una ‘elemosina’ a favore dei pigri meridionali ».
E non è così?
«Ovviamente no. Ma qui sta anche la
responsabilità di noi “latinos”. Non siamo in grado di esprimere
un progetto politico unitario e condiviso non “contro” la
Germania, ma a favore dello sviluppo e del lavoro. Su questo non vedo
proposte concrete, né in Italia né altrove. Il modello sono gli
Usa, che hanno iniettato nel sistema 800 miliardi di dollari in un
colpo solo. Ci vorrebbe un po’ di sano keynesismo…».
Dovremmo riscrivere i Trattati europei,
smontando i famosi parametri che proprio lei una volta definì
“stupidi”?
«Non ho mai pensato che si debbano
rivedere i parametri. Li ho definiti ‘stupidi’, nel senso che
vanno sempre tarati sui cicli dell’economia. E’ chiaro che se
oggi, per rispettare il ‘tetto magico’ del 3%, ci preoccupiamo
solo di comprimere il deficit e non di far crescere il Pil, ci
suicidiamo. In periodi di crisi servono politiche espansive dal lato
della domanda. E’ questo che l’Europa non fa. Dovrebbe
mutualizzare i debiti pubblici e lanciare gli eurobond, ristabilire
lo spirito solidaristico che a fine anni ‘90 ci consentì di
azzerare gli spread, rafforzare le sue istituzioni rappresentative.
La Bce, per quanto faccia, non potrà mai sostituirsi al Consiglio
europeo. E mi dica, ha più sentito parlare della Commissione Ue?».
Grillo urla: usciamo dall’euro. Che
effetto le fa, da “padre fondatore” della moneta unica?
«Questo è un Paese senza memoria.
Usciamo dall’euro, facciamo come l’Argentina: follie. Dal giorno
dopo avremmo Btp svalutati del 40%, tassi di interesse al 30%, Stato
al collasso, banche fallite, dazi contro le nostre merci anche da
parte dei paesi europei. Qualche anima bella obietta: avremmo le
svalutazioni competitive! Altra follia. Una bilancia commerciale in
attivo dello 0,6% del Pil è la prova che ai nostri imprenditori, non
certo tutti pigri e poco competitivi, quello che oggi serve non sono
le svalutazioni competitive, ma un rilancio della domanda e dei
consumi interni, accompagnato da una drastica semplificazione delle
regole e dalla ripresa della lotta all’evasione fiscale».
Renzi e Padoan hanno ragione a chiedere
all’Europa di “cambiare verso”?
«Noi dobbiamo onorare i nostri
impegni, compreso il Fiscal Compact. Ma dobbiamo pretendere
dall’Europa politiche che ci consentano di rispettarli facendo
ripartire l’economia. Non possiamo accettare che ci si leghino le
gambe, e poi ci si chieda anche di correre. Serve un lungo e paziente
dialogo, con tutti i nostri partner».
Crescita e lavoro ormai sono un mantra.
Ma precariato e disoccupazione sono la malattia mortale
dell’Occidente.
«Sono i temi che mi angosciano di più.
A differenza delle rivoluzioni industriali del passato, le nuove
tecnologie dell’informazione distruggono posti di lavoro. Il
rapporto è 20 lavoratori espulsi per 1 nuovo assunto. A pagare il
prezzo più alto e’ il ceto medio. Qualche giorno fa il Financial
Times scriveva che l’Infor-mation Technology tra pochi anni farà
sparire anche migliaia di analisti finanziari».
In Italia serve davvero più
flessibilità in entrata (come prevede il decreto del governo) e in
uscita (con la fine dell’articolo 18)?
«Posso dirle che lavori troppo precari
non giovano all’economia, e che nelle aziende si assume e si
licenzia come si vuole. Quando parli a tu per tu, gli imprenditori te
lo dicono: il problema per loro non è l’articolo 18, ma semmai una
contrattazione più legata alle aziende e ai territori, e una
maggiore disponibilità su orari, turni, mansioni, gestione dei
magazzini. Queste sono le vere riforme».
Dal Jobs Act al Fisco e alla PA, Renzi
ne sta promettendo persino troppe. Non c’è da temere un effetto
boomerang?
«Il nuovo governo ha obiettivamente
aperto una speranza, e tutti dobbiamo crederci. Renzi ha un
vantaggio: è la grande aspettativa di rinnovamento che c’è nella
società italiana. Non deve deluderla. Ha in effetti lanciato molte
proposte interessanti. Il problema è che ora servono norme e
organizzazioni che le traducano rapidamente in atto. Se c’è tutto
questo, va bene. Io sono in fiduciosa attesa».
Lei magari sì, ma le parti sociali no.
Non passa giorno che Confindustria e sindacati non facciano a
sportellate col governo o con Bankitalia. Come lo spiega?
«Un po’ di dialettica è
fisiologica. Ma nel complesso mi pare che nel Paese, se non altro
perché siamo davvero all’ultima spiaggia, c’è un forte
desiderio di ritrovare l’ottimismo e di cavalcare il cambiamento.
Questa per Renzi è una grande fortuna. Può sfruttare quel misto di
angosce e di speranze che attraversano l’Italia. Deve fare in
fretta, ma deve soprattutto fare bene. Quanto alla concertazione, è
una bella cosa. Ma richiede unità nei sindacati e negli
imprenditori. E invece l’Italia è sempre più frammentata. Da ex
premier, mi ricordo riunioni fiume con decine di sigle sedute al
tavolo. All’una la prima sigla diceva una cosa, alle due una
seconda sigla la scavalcava, alle tre ne spuntava un’altra che
andava oltre, alle quattro si chiudeva con un comunicato generico.
Questo tipo di concertazione, onestamente, non funziona più».
Renzi taglia di 10 miliardi Il cuneo
fiscale per i lavoratori. Lei lo fece già nel 2008, ma lo sparti’
anche alle imprese. E’ giusto oggi privilegiare l’Irpef?
«Noi distribuimmo, 60 alle imprese e
40 ai lavoratori. Nonostante questo, a sorpresa, il giorno dopo fu
proprio Confindustria ad attaccarci. Stranezze della storia… Oggi,
di fronte alla deflazione salariale, Renzi fa bene a concentrare
tutti i benefici sui lavoratori. Un po’ più di potere d’acquisto
per le famiglie, alla fine, sarà un vantaggio anche per le imprese».
La nuova legge elettorale e la riforma
del Senato la convincono?
«Non entro nel merito. In generale,
più ci si avvicina al modello dei collegi uninominali e del doppio
turno, più si va verso una democrazia efficiente e funzionante».
Peccato che l’Italicum vada nella
direzione opposta, per pagare un prezzo a Berlusconi. Lei che è
l’unico ad averlo battuto due volte, come giudica questo patto col
diavolo?
«Le riforme di sistema, elettorali e
istituzionali, vanno fatte cercando il massimo dei consensi tra gli
schieramenti politici. Ma diciamo che non bisogna esagerare nei modi.
Di mediazioni se ne possono fare, ma la priorità resta sempre il
bene del Paese».
E del Pd renziano cosa mi dice?
«Le dico solo questo: può anche darsi
che il Pd abbia ancora la febbre, ma è l’unico partito vivo che
c’è in Italia. Tutti gli altri sono crollati, e non esistono più
forme minime di democrazia e di rappresentanza».
Quanto ancora le brucia, la vicenda dei
101 che l’hanno impallinata nella corsa al Quirinale?
«Con molta sincerità, della vicenda
dei 101, che poi erano 120, non mi ha bruciato nulla. Anzi, è stata
persino una cosa divertente. Ero in Mali, con gli africani che mi
facevano il pollice alzato, mentre io facevo ‘pollice verso’
perché già prevedevo come sarebbe finita. Feci le mie telefonate, a
Marini, D’Alema, Monti e Napolitano. Alla fine chiamai mia moglie e
le dissi “vedrai, non succederà niente”. E così è andata. Ma
davvero, non sono affatto amareggiato. Semmai mi brucia ciò che
accadde prima, quando da Bari Berlusconi disse “al Quirinale
chiunque, ma non Prodi”. Dal Pd, tranne Rosi Bindi, non replico’
nessuno. Quelli sono i momenti in cui ti senti veramente solo».
Napolitano potrebbe lasciare dopo la
riforma elettorale. E di lei si sussurra: “Prodi si sta dando da
fare per ritentare la scalata al Colle”. Vero o falso?
«Vorrei proprio sapere in cosa
consisterebbe questo mio “darmi da fare”… Mi occupo di
questioni internazionali, studio l’economia globale, giro il mondo.
Sono un uomo felice. In fondo nella vita ci sono tante gare, e per
quanto mi riguarda quella del Quirinale è finita. Mi creda: the game
is over. I tempi poi sono cambiati: il prossimo presidente della
Repubblica finirà per dover condensare il suo messaggio in un
twitter».