foto del giorno
lunedì 30 settembre 2013
la politica italiana nel tunnel
Riccardo Imberti
dopo aver titolato, l'editoriale scorso, settimana
terribile, pensando ai tanti nodi che il governo si trovava a dover
affrontare, credevo, che seppur con fatica, il governo delle larghe
intese, riuscisse in qualche modo a passare la strettoia.
Non è
stato così.
Il condannato ha dato l'ordine e i
sudditi lo hanno eseguito, senza se e senza ma. Ha preso la scusa
dell'aumento dell'IVA, cosa di cui ne porta la respondabilità, per coprire il vero problema: la
sua decadenza da senatore e la ineleggibilità. Ormai lo sanno anche i
sassi: il vero problema sono i processi in arrivo.
Il PD a questo punto si trova di
fronte a un bivio e le strade possibili sono ambedue complicate e
difficili. Scegliere di continuare l'esperienza delle
larghe intese; oppure,
chiedere il voto di fiducia in parlamento e accontentarsi di
raccogliere qui e là, dissidenti di varia estrazione, per tirare a
campare. Letta è deciso a chiedere la fiducia, ma
non è disposto a vivacchiare: tradotto, significa che non è
interessato alla seconda ipotesi. Come dargli torto. Con i problemi
gravissimi che vive il nostro Paese, come è possibile immaginare che
un governo con una maggioranza risicata possa farvi fronte?
Letta in queste ore, ha smesso i
panni del mediatore e attaccato il condannato, ha affondato la lama nel corpo molle del PDL,
richiamando tutti alle proprie responsabilità.
Non è mancato ovviamente, il parere del “leader maximo”, che non ha
fatto altro che ripetere il ritornello di questi mesi: se ci sarà la
crisi e non vi saranno alternative di governo, neppure per fare la
riforma elettorale, si vada al voto e si sospenda la fase
congressuale. Per Dalema si dovranno fare le primarie per la
leadership e non per la segreteria del PD.
In effetti, c'è da dire, che in
una situazione così drammatica, è difficile immaginare di celebrare
un congresso. Difficile, ma non impossibile. Io resto del parere che non sia auspicabile che, in una situazione come la nostra, si congeli la
classe dirigente che ha gestito il partito in questi quattro anni con
i risultati che abbiamo sotto gli occhi e procedere con la scelta del
premier, rischiando di ripetere ciò che è avvenuto con il governo
Prodi. Mi pare una scelta altamente rischiosa.
Che fare allora?
Alle 16 di mercoledì, il Presidente Letta interverrà
al senato e chiederà la fiducia. Se non la ricevesse, tutto tornerà
nelle mani di Napolitano e a quel punto ne sapremo di più, riguardo i tempi
della soluzione della crisi, o dello scioglimento delle camere e delle elezioni anticipate.
Certamente mi auguro che
il PD non ricerchi soluzioni pasticciate, elemosinando voti in parlamento,
facendo appello alle frange di dissidenti, salvo, se possibile, per
fare la riforma elettorale condivisa. Una riforma indispensabile, per evitare
che la Corte Costituzionale sentenzi la incostituzionalità del
porcellum, e al tempo stesso una riforma, che restituisca il potere
ai cittadini nella scelta dei parlamentari e consenta la governabilità.
Spero di sbagliarmi, ma se, come penso, i parlamentari e i ministri del
PDL non torneranno sui loro passi, non vedo altre strade se non un
ritorno alle urne.
Il PD è oggi più di ieri,
chiamato a guidare questa fase di estrema difficoltà e delicatezza e per queste ragioni, è auspicabile che proceda speditamente alla elezione di una nuova classe
dirigente, che gli consenta affrontare la situazione data, libera da
orpelli e liturgie del passato. Un partito che in questi mesi, non
solo non ha ritenuto opportuno prendere provvedimenti contro i 101 franchi tiratori che
hanno impallinato Prodi, ma che ha cercato in tutti i modi, senza riuscirci, di cambiare
le regole per impedire il rinnovamento, come può essere in grado di
far fronte a una fase come questa?
Queste sono le domande che mi
pongo in queste ore difficili. La politica è l'arte del possibile e
non è scontato nulla, anche l'ennesimo ripensamento del condannato e dei suoi sudditi.
Di una cosa però sono convinto. Questo Paese non è in
grado di sopportare oltre misura, una situazione di così grave
difficoltà e ciò che può capitarci, se restiamo fermi, è di consegnare il Paese ad un
populismo che rischierebbe di stravolgere il sistema. Questo non
possiamo permetterlo.
SARAJEVO VENT'ANNI DOPO: STORIA DI UNA FOTO
La fine del governo della follia
Crisi
L'esecutivo delle larghe intese si fondava sull'illusione che Berlusconi potesse diventare un politico moderato e responsabile. Finito quel sogno, Letta è costretto ad abbandonare i panni del pacificatore per attaccare il Caimano e portare il Pdl alla spaccatura. Con l'obiettivo di una nuova legge elettorale
di Marco Damilano
"I mesi che abbiamo alle
spalle segnano le nostre mosse di oggi. Abbiamo visto che con Berlusconi
non si possono fare accordi, ha fatto tutta la campagna elettorale come
se lui fosse sempre stato all'opposizione, assegnandoci la croce di
aver votato i provvedimenti più impopolari del governo..." Era la
mattina del 27 febbraio, a meno di quarantotto ore dal voto il Pd era
ancora sotto shock per la mancata vittoria e l'allora vice-segretario
del partito mi consegnò queste riflessioni da pubblicare sul numero
dell'Espresso post-elettorale in chiusura. Si chiamava Enrico Letta.
Dopo sette mesi oggi siamo tornati al punto di partenza. Il Letta governante lascia il posto all'Enrico uomo di partito che aveva capito tutto. Ha provato a baciare il Giaguaro, a trascinare l'Italia "bellezza senza navigatore", come aveva detto il premier nel suo discorso di fiducia alla Camera citando Ligabue, in compagnia dell'Alleato di Arcore. E si è ritrovato con il bel regalo che il Cavaliere ha fatto a se stesso e al Paese per i suoi 77 anni (auguri...): una crisi di governo dalle conseguenze incalcolabili.
Eppure non si può dire che sia un gesto a sorpresa. Ieri Letta ha picchiato duro sul Berlusconi "folle", " bugiardo", "irresponsabile", un ritrattino veritiero che fotografa alla perfezione l'essenza del berlusconismo. La sciagura e' che l'ex partner di governo e' sempre stato così, dal suo ingresso in politica, anzi, fin dagli anni della sua ascesa imprenditoriale e televisiva. Folle, semmai, e' aver sperato in un suo mutamento di pelle, da avventuriero a statista. E fondato su una doppia illusione mendace il governo delle larghe intese. Per Berlusconi l'illusione del salvacondotto, dell'impunita' giudiziaria, sventata dalla magistratura che in Italia e' ordine indipendente dalle sottigliezze e dalle convenienze del gioco politico. Per una parte del Pd e per il regista dell'operazione, Giorgio Napolitano, l'illusione che con il Cavaliere si potesse stringere un patto, che la sua ammissione nel circolo del governo lo avrebbe tranquillizzato e placato.
Dopo la tragedia dei 101 di Prodi e il suicidio del Pd si potevano fare due cose. O un governo di scopo, sei mesi per fare una riforma elettorale e via. Oppure una grande coalizione alla tedesca, con un vero accordo di legislatura. Invece si è preferito andare a vista, i 18 mesi per le riforme, i saggi, il traino della crescita, la stabilità trasformata in un valore assoluto... Il fragile ponticello delle politiche, come aveva detto Letta, il sentiero delle cose da fare, il dio delle piccole cose, il pragmatismo contrapposto alla politica, quasi demonizzata come la sfera dell'ideologia, della contrapposizione fine a se stessa.
Ieri il premier, con uno scatto da leader che non ci sta a vedere lo spettacolo osceno di ministri che scattano sugli attenti a un sopracciò del loro Capo e si dimettono, si è ricordato che forse si governa con le politiche ma si diventa leader sul campo con la Politica, con un guizzo, un lampo, un cambio di gioco, un gesto di coraggio. Nel momento decisivo Letta ha abbandonato i panni dello zio Gianni e ha indossato di nuovo quelli del suo maestro Beniamino Andreatta e di Romano Prodi. Quando entrerà in aula per parlare di fronte ai parlamentari avrà alle spalle la lezione del ministro del Tesoro che, unico nella storia repubblicana, da cattolico sfidò il Vaticano sui soldi dello Ior. E quella del Professore di Bologna che per due volte è stato sfiduciato dai voltagabbana a pagamento ma è caduto in piedi, da hombre vertical.
Da uomo delle larghe intese Letta dovrà trasformarsi in samurai anti-berlusconiano, clamorosa metamorfosi. Nella speranza che il Pdl si spacchi e che arrivi qualche senatore in soccorso. Magra prospettiva. "Moderati dove siete?", invoca oggi Pierluigi Battista sulla prima pagina del "Corriere". Domanda interessante, ma di certo non sono nel Pdl.
I parlamentari eletti a febbraio sono quelli sopravvissuti alla scissione di Fini, alla tentazione di Monti, quelli che hanno votato per Ruby nipotina di Mubarak e che non hanno mai battuto ciglio quando si devastava lo Stato di diritto e la Costituzione. Una settimana fa erano tutti li ad applaudire la rinascita di Forza Italia, decisa da un giorno all'altro. Che aiuto può arrivare da li a un eventuale governo Letta bis? L'appoggio di qualche opportunista, di qualche trasformista. O di chi magari non ne può più, tipo Fabrizio Cicchitto, che ora scopre che le decisioni di Berlusconi vengono prese ad Arcore, senza consultare l'ufficio di presidenza, capite?, e dove pensava che si prendessero, a Villa Wanda?
Il rischio è che il governo delle larghe intese diventi il governo dello Stretto, inteso come ministero alla siciliana. Nell'isola già da anni i partiti nazionali non esistono più, ci sono due o tre Pdl, due o tre Pd, non si sa più quanti centri e centrini, interscambiabili, in maggioranza e fuori a seconda dei momenti, con giunte regionali che durano pochi mesi. Non a caso i senatori del Pdl disposti a reggere il Letta-bis arrivano da quelle parti, dall'alfaniano (ex) Castiglione al mitologico Mimmo Scilipoti. Fare un governo Letta- Castiglione-Scilipoti con l'aggiunta di qualche grillino sarebbe un regalo al Caimano. Oggi è disperato, domani potrebbe risorgere con una campagna tutta contro "il governo dei trasformisti, delle manette e delle tasse". Con il Cavaliere ai servizi sociali a fare la vittima, la cosa che gli riesce meglio.
Questa legislatura e' partita con un tradimento che ha ucciso il Pd, quello dei 101, ora dovrebbe proseguire con un altro tradimento, quello di Berlusconi. Letta il guerriero e' abbastanza astuto per schivare la trappola. Chi scrive #lettacontinua deve sapere che non si prosegue con l'armata Brancaleone. L'unica strada è fare subito una riforma elettorale, con chi ci sta, e tornare a votare dopo aver approvato la legge di stabilità. Non facile perché non si può fare una legge qualsiasi.
La crisi di governo si avvita insomma in una ben più grave crisi di Sistema. E tocca ancora una volta al presidente Napolitano rendere l'ultimo servizio alla Repubblica, in coerenza con quanto aveva detto nel messaggio di insediamento- bis il 22 aprile. "se i partiti resteranno sordi non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese". Ora quel momento e' arrivato.
Dopo sette mesi oggi siamo tornati al punto di partenza. Il Letta governante lascia il posto all'Enrico uomo di partito che aveva capito tutto. Ha provato a baciare il Giaguaro, a trascinare l'Italia "bellezza senza navigatore", come aveva detto il premier nel suo discorso di fiducia alla Camera citando Ligabue, in compagnia dell'Alleato di Arcore. E si è ritrovato con il bel regalo che il Cavaliere ha fatto a se stesso e al Paese per i suoi 77 anni (auguri...): una crisi di governo dalle conseguenze incalcolabili.
Eppure non si può dire che sia un gesto a sorpresa. Ieri Letta ha picchiato duro sul Berlusconi "folle", " bugiardo", "irresponsabile", un ritrattino veritiero che fotografa alla perfezione l'essenza del berlusconismo. La sciagura e' che l'ex partner di governo e' sempre stato così, dal suo ingresso in politica, anzi, fin dagli anni della sua ascesa imprenditoriale e televisiva. Folle, semmai, e' aver sperato in un suo mutamento di pelle, da avventuriero a statista. E fondato su una doppia illusione mendace il governo delle larghe intese. Per Berlusconi l'illusione del salvacondotto, dell'impunita' giudiziaria, sventata dalla magistratura che in Italia e' ordine indipendente dalle sottigliezze e dalle convenienze del gioco politico. Per una parte del Pd e per il regista dell'operazione, Giorgio Napolitano, l'illusione che con il Cavaliere si potesse stringere un patto, che la sua ammissione nel circolo del governo lo avrebbe tranquillizzato e placato.
Dopo la tragedia dei 101 di Prodi e il suicidio del Pd si potevano fare due cose. O un governo di scopo, sei mesi per fare una riforma elettorale e via. Oppure una grande coalizione alla tedesca, con un vero accordo di legislatura. Invece si è preferito andare a vista, i 18 mesi per le riforme, i saggi, il traino della crescita, la stabilità trasformata in un valore assoluto... Il fragile ponticello delle politiche, come aveva detto Letta, il sentiero delle cose da fare, il dio delle piccole cose, il pragmatismo contrapposto alla politica, quasi demonizzata come la sfera dell'ideologia, della contrapposizione fine a se stessa.
Ieri il premier, con uno scatto da leader che non ci sta a vedere lo spettacolo osceno di ministri che scattano sugli attenti a un sopracciò del loro Capo e si dimettono, si è ricordato che forse si governa con le politiche ma si diventa leader sul campo con la Politica, con un guizzo, un lampo, un cambio di gioco, un gesto di coraggio. Nel momento decisivo Letta ha abbandonato i panni dello zio Gianni e ha indossato di nuovo quelli del suo maestro Beniamino Andreatta e di Romano Prodi. Quando entrerà in aula per parlare di fronte ai parlamentari avrà alle spalle la lezione del ministro del Tesoro che, unico nella storia repubblicana, da cattolico sfidò il Vaticano sui soldi dello Ior. E quella del Professore di Bologna che per due volte è stato sfiduciato dai voltagabbana a pagamento ma è caduto in piedi, da hombre vertical.
Da uomo delle larghe intese Letta dovrà trasformarsi in samurai anti-berlusconiano, clamorosa metamorfosi. Nella speranza che il Pdl si spacchi e che arrivi qualche senatore in soccorso. Magra prospettiva. "Moderati dove siete?", invoca oggi Pierluigi Battista sulla prima pagina del "Corriere". Domanda interessante, ma di certo non sono nel Pdl.
I parlamentari eletti a febbraio sono quelli sopravvissuti alla scissione di Fini, alla tentazione di Monti, quelli che hanno votato per Ruby nipotina di Mubarak e che non hanno mai battuto ciglio quando si devastava lo Stato di diritto e la Costituzione. Una settimana fa erano tutti li ad applaudire la rinascita di Forza Italia, decisa da un giorno all'altro. Che aiuto può arrivare da li a un eventuale governo Letta bis? L'appoggio di qualche opportunista, di qualche trasformista. O di chi magari non ne può più, tipo Fabrizio Cicchitto, che ora scopre che le decisioni di Berlusconi vengono prese ad Arcore, senza consultare l'ufficio di presidenza, capite?, e dove pensava che si prendessero, a Villa Wanda?
Il rischio è che il governo delle larghe intese diventi il governo dello Stretto, inteso come ministero alla siciliana. Nell'isola già da anni i partiti nazionali non esistono più, ci sono due o tre Pdl, due o tre Pd, non si sa più quanti centri e centrini, interscambiabili, in maggioranza e fuori a seconda dei momenti, con giunte regionali che durano pochi mesi. Non a caso i senatori del Pdl disposti a reggere il Letta-bis arrivano da quelle parti, dall'alfaniano (ex) Castiglione al mitologico Mimmo Scilipoti. Fare un governo Letta- Castiglione-Scilipoti con l'aggiunta di qualche grillino sarebbe un regalo al Caimano. Oggi è disperato, domani potrebbe risorgere con una campagna tutta contro "il governo dei trasformisti, delle manette e delle tasse". Con il Cavaliere ai servizi sociali a fare la vittima, la cosa che gli riesce meglio.
Questa legislatura e' partita con un tradimento che ha ucciso il Pd, quello dei 101, ora dovrebbe proseguire con un altro tradimento, quello di Berlusconi. Letta il guerriero e' abbastanza astuto per schivare la trappola. Chi scrive #lettacontinua deve sapere che non si prosegue con l'armata Brancaleone. L'unica strada è fare subito una riforma elettorale, con chi ci sta, e tornare a votare dopo aver approvato la legge di stabilità. Non facile perché non si può fare una legge qualsiasi.
La crisi di governo si avvita insomma in una ben più grave crisi di Sistema. E tocca ancora una volta al presidente Napolitano rendere l'ultimo servizio alla Repubblica, in coerenza con quanto aveva detto nel messaggio di insediamento- bis il 22 aprile. "se i partiti resteranno sordi non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese". Ora quel momento e' arrivato.
Netanyahu contro il disgelo Usa-Iran “Smantellare il nucleare o attacchiamo”
Esteri
La Stampa 29/09/2013
Il premier israeliano pronto ad abbandonare la via diplomatica:
«Teheran vuole solo guadagnare tempo». Martedì sarà all’Onu
Il premier israeliano continua ad opporsi ai segnali di
disgelo tra Iran e Stati Uniti. Benjamin Netanyahu, domani a New York,
avvertirà Barack Obama che ad Israele non basta che il programma
nucleare sia posto sotto tutela internazionale: dovrà essere
completamente smantellato.
In caso contrario, Israele abbandonerà la strada diplomatica. Ossia, procederà ad un attacco unilaterale. È quanto ha anticipato la rete tv israeliana “Channel One”, citando fonti vicine a Netanyahu, che nei giorni scorsi ha ripetutamente esortato gli Usa, in primis, e la comunità internazionale a non fidarsi del neo-presidente Hassan Rohani. Per Netanyahu le aperture di iraniane sono solo una tattica dilatoria per guadagnare tempo per dotarsi dell’atomica.
Il premier israeliano, che domani incontrerà alla Casa Bianca il presidente Usa Barack Obama e martedì interverrà a New York all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha diffuso una nota nella quale ribadisce il suo scetticismo sulla nuova linea morbida iraniana e afferma: «Rappresenterò i cittadini di Israele, i nostri interessi nazionali e la nostra determinazione nel difendere noi stessi e la nostra speranza di pace».
In caso contrario, Israele abbandonerà la strada diplomatica. Ossia, procederà ad un attacco unilaterale. È quanto ha anticipato la rete tv israeliana “Channel One”, citando fonti vicine a Netanyahu, che nei giorni scorsi ha ripetutamente esortato gli Usa, in primis, e la comunità internazionale a non fidarsi del neo-presidente Hassan Rohani. Per Netanyahu le aperture di iraniane sono solo una tattica dilatoria per guadagnare tempo per dotarsi dell’atomica.
Il premier israeliano, che domani incontrerà alla Casa Bianca il presidente Usa Barack Obama e martedì interverrà a New York all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha diffuso una nota nella quale ribadisce il suo scetticismo sulla nuova linea morbida iraniana e afferma: «Rappresenterò i cittadini di Israele, i nostri interessi nazionali e la nostra determinazione nel difendere noi stessi e la nostra speranza di pace».
buone notizie
“Voglio parlare”, ha detto Grillo, “a quei venti
milioni di persone che votano ancora per il Pd o il Pdl. Se continuate
così il Movimento scomparirà. Se non votate per noi io me ne vado”. Ecco
finalmente una buona notizia.
Philippe Ridet corrispondente da Roma di Le Monde
Berlusconi realizza il sogno di Beppe Grillo
Opinioni
Philippe Ridet
corrispondente da Roma di Le Monde
da Internazionale 30 settembre 2013
Servito su un piatto d’argento. Beppe Grillo, che non ha mai
saputo che fare del suo successo alle elezioni di febbraio, accoglie la
crisi politica in corso e l’ipotesi di nuove elezioni con evidente
piacere. Mentre i suoi parlamentari sembravano aver definitivamente
perso lo strumento con il quale promettevano di aprire il parlamento
“come una scatola di tonno”, consumando le loro energie in dispute
interne e in processi interni, il leader del M5s ha subito seguito
Berlusconi verso la strada del ritorno alle urne.
I sondaggi non sono molto cambiati rispetto a questo inverno. Il
Movimento 5 stelle, nonostante i suoi errori e l’evidente incompetenza
di alcuni dei suoi elettori, raccoglie circa il 20 per cento delle
intenzioni di voto. Poco meno del Partito democratico (Pd) e del Popolo
della libertà (Pdl), accreditati entrambi al 27 per cento. Il paesaggio
politico continua a essere diviso in tre partiti inconciliabili.
Il 28 settembre, scatenando il caos per sfuggire ai suoi problemi
giudiziari (e non di certo per protestare contro un aumento dell’Iva),
Silvio Berlusconi, il forsennato di Arcore, ha realizzato il sogno di
Grillo: la crisi permanente, l’happening politico 24 ore su 24, la
grande fiera del populismo.
In questo paesaggio politico stravolto, mobile e isterico, dove tutti
rivaleggiano in mediocrità, questa situazione è tutta a suo favore. Non
c’è più bisogno di dimostrare i benefici dei cambiamenti e delle
riforme sostenuti dal suo movimento. Tutto viene cancellato, come su una
lavagna magica. Si ricomincia da zero.
In un paese senza punti di riferimento, senza memoria, in balìa di
tutte le avventure, eccolo pronto a riscendere in campo per promettere
l’uscita dall’euro (“basterà un clic su internet”) e “l’abolizione” del
debito italiano (più di duemila miliardi di euro, il 130 per cento del
pil). E questo può funzionare.
“Vogliamo le elezioni”, ha detto Grillo domenica 29 settembre, nel
giorno del compleanno di Berlusconi. Un bel regalo, non c’è che dire.
Contrario finora al sistema elettorale esistente, il famoso Porcellum
che ha portato alla catastrofe che tutti abbiamo sotto gli occhi, adesso
sembra non avere più così fretta di volerlo cambiare.
“Andiamo a votare e faremo le riforme quando saremo al potere”,
continua il comico genovese. Il porcellum infatti è perfetto per Grillo,
che tiene insieme il suo partito con il carisma personale. E gli
permette di scegliere i suoi parlamentari, nascosto dietro la presunta
trasparenza di internet.
“Voglio parlare”, ha detto Grillo, “a quei venti
milioni di persone che votano ancora per il Pd o il Pdl. Se continuate
così il Movimento scomparirà. Se non votate per noi io me ne vado”. Ecco
finalmente una buona notizia.
utopia
Giorgio Tonini
Esattamente
50 anni fa, come ci ricorda la riproduzione della prima pagina di
allora sulla "Stampa" di oggi, concludendo i lavori del convegno di
studi del partito a San Pellegrino, il segretario politico, Aldo Moro,
diceva che l'intento della Dc era quello di contribuire, attraverso il
confronto democratico, a "trasformare larghe forze popolari di protesta
in forze responsabili di uno Stato profondamente rinnovato". Parole di
un'attualità impressionante, che testimoniano da quanto tempo quella
italiana sia una "democrazia difficile".
Il mondo di ieri
Marco Damilano
«Sono venuti a prendermi quasi alla fine del mondo», si presentò
il 13 marzo il papa argentino e fu un manifesto programmatico, come
quello contenuto nella sua intervista a “Civiltà cattolica”: «Essere
profeti a volte può significare fare ruido, non so come dire…
La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”…». Quella voce in
piazza San Pietro sembrò consegnare le cose vecchie al passato e aprire
terre e cieli nuovi. La fine di un mondo e l’inizio di un mondo nuovo.
Per la politica italiana, invece, è sempre “il mondo di ieri”, come il
classico di Stefan Zweig sull’Austria alla vigilia della prima guerra
mondiale. Nel mondo di ieri ci sono le larghe intese che si restringono
all’improvviso, i voti di fiducia con i transfughi di uno o dell’altro
partito da cercare, i comunicati criptici, i minuetti, la faccia feroce
in favore di telecamera e le trattative sotto il pelo dell’acqua. Nel
mondo di ieri c’è il signore di Arcore che vorremmo nominare sempre di
meno e una sinistra sfasciata e incapace di dirsi finalmente la verità
sulle cose e se stessa che vorremmo non vedere più. Anche l’ultimo
arrivato, l’ex comico che si è fatto rivoluzionario, si è rapidamente
adeguato e non vuole più cambiare neppure la legge elettorale. Il mondo
di ieri nella settimana che si apre è al colpo di coda finale e perciò
più pericoloso, con la dissoluzione del sistema politico o, più
modestamente, del partito berlusconiano. «Ogni ombra in fondo è anche
figlia della luce e solo chi ha potuto sperimentare tenebra e chiarita,
guerra e pace, ascesa e decadenza, può dire di avere veramente vissuto»,
scriveva Zweig. Per questo da oggi questa conversazione quotidiana si
chiamerà Finemondo.
domenica 29 settembre 2013
previsioni del tempo
Domani Enrico Letta sarà ospite di Fabio Fazio alla riapertura di Che tempo che fa.
sabato 28 settembre 2013
O la smettono o finisce qui
Stefano Menichini
Europa
Letta sfida il Pdl a una rottura vera. Ma se andare avanti o no a
questo punto non lo deciderà Berlusconi, bensì il presidente del
consiglio e il suo partito.
I toni verso Napolitano si fanno insolenti, è caduta la maschera
di rispetto che la destra mette e toglie quando ha a che fare col capo
dello stato. Ora torna a essere il vecchio comunista doppiogiochista
venuto meno alla parola data. Già, perché nella loro concezione dei
rapporti fra poteri dello stato, i berlusconiani coltivavano davvero
l’idea che un governo di larghe intese nato sotto l’egida del Quirinale
fosse l’equivalente di un’immunità rispetto alle leggi e alle sentenze.
Insomma, hanno proiettato su Napolitano, su Letta, sul Pd e sul parlamento la selvatica ideologia di un potere illimitato.
Solo questo spiega la rabbia di questi giorni.
E spiega la divaricazione – insanabile, dovessimo dirlo stasera – con
il presidente della repubblica e con il presidente del consiglio.
Il chiarimento che si svolgerà in parlamento non potrà infatti
vertere solo sugli impegni di governo, per quanto essi siano
oggettivamente molto importanti.
Né sarà sufficiente verificare la disponibilità (del Pdl, ma a questo
punto anche del Pd) a sforzarsi di lavorare insieme per tutto il 2014:
un patto sulla durata è da tempo la richiesta di Letta ai partiti, una
sua formalizzazione sarà fra le condizioni poste dal premier.
Ma ci vorrà molto di più di questo. Ecco perché l’impresa di tenere
in piedi governo, maggioranza e legislatura sembra in questo momento
disperata.
Berlusconi e i suoi dovrebbero rimangiarsi le assurdità pronunciate
in questi giorni sui magistrati, sugli avversari politici
temporaneamente alleati, sul presidente della repubblica, sullo stato di
diritto e sulla democrazia italiana.
I ministri Pdl dicono che nel chiarimento vogliono «impegni sulla
giustizia». Bene, perfetto. Infatti dovrebbero impegnarsi ad accettare
l’applicazione delle sentenze, e ad affrontare qualsiasi inchiesta
giudiziaria con lo stesso atteggiamento che Berlusconi dichiarò a luglio
(quando pensava che Napolitano l’avrebbe, chissà come, fatto assolvere
in Cassazione): mi difenderò tenendo separati i miei processi dai
destini del governo.
Letta ha convocato i partiti in parlamento, martedì. Sfiderà il Pdl a
rompere davvero, non coi patetici foglietti di dimissioni in mano a
Schifani. Se da quei banchi non si ascolteranno parole solenni di resa
alle regole di una vera democrazia, il cammino delle larghe intese sarà
finito. E non lo deciderà Berlusconi. Lo decideranno Enrico Letta e il
suo partito.
quarant'anni fa
venerdì 27 settembre 2013
Cooperazione in Italia, “esperti” inviati nei Paesi poveri. E pagati a peso d’oro
Mentre
la cooperazione è al collasso, stormi di professionisti privati vengono
mandati in missione all'estero con indennità da diplomatici, pagate coi
fondi pubblici destinati ai programmi di svilupppo. Missione dopo
missione c'è chi ne ha fatto un mestiere. E chi ne ha approfittato al
punto da ritrovarsi in Procura
di Thomas Mackinson |
Il Fatto Quotidiano 23 settembre 2013
C’è chi scappa dalla Cina per cercar fortuna e chi ha la fortuna di andarci, lavorare 44 giorni e tornare in Italia con 70-80mila euro sul conto. Pagati dallo Stato, con le risorse destinate all’aiuto per i poveri. In Parlamento
si stracciavano le vesti per il taglio ai fondi della cooperazione allo
sviluppo – per poi approvarli con la benda sugli occhi – e dalla Farnesina
partivano “esperti” in missione all’estero con costi di cinquecento,
anche mille euro al giorno. Un settore a cui lo Stato destina poche
risorse: negli ultimi anni è stato tagliato l’80 percento dei contributi diretti e sono stati chiusi molti uffici, anche con finanziamenti già erogati e progetti ancora in corso. Le Regioni aspettano per anni di vedersi restituire milioni di euro anticipati come crediti d’aiuto, le Ong a corto di fondi richiamano i volontari, gli uffici tecnici per la cooperazione all’estero chiudono. Ma da Roma vanno e vengono come nulla fosse stormi di consulenti
privati pagati a peso d’oro. Saranno bravissimi, sicuro i migliori su
piazza. Ma c’è da rimanere a bocca aperta per gli importi, ancorché
lordi e comprensivi di costi assicurativi.
Scorrendo il “quadro missioni” della Direzione Generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) c’è il professore di economia da inviare per quattro mesi in Ghana,
dove il 28% della popolazione vive sotto la soglia di povertà
internazionale di 1,25 dollari, a 70mila euro per svolgere non meglio
precisate attività di “supporto privato”. A un capo progetto che va un
anno in Senegal, reddito pro capite non supera i due
dollari al giorno, vengono riconosciuti 180mila euro, un appartamento.
Un forestale, e dalla Sicilia in su tanti ce ne sono, in Mozambico
prende 11-12mila euro al mese. Stando così le cose tanti italiani
partirebbero volentieri in missione. Solo che “esperti” non si diventa,
non c’è concorso. Esperti ti ci fanno. Ad attribuire gli incarichi sono
digli uffici della Dgcs, la direzione che coordina, gestisce e realizza
tutte le attività internazionali dello Stato italiano dirette al sostegno dei paesi in via di sviluppo: ospedali, scuole, strade, interventi umanitari d’emergenza tutti finanziati con fondi italiani.
La
figura degli “esperti” nasce con la legge n. 49/1987, quella che a
parole tutti i governi vorrebbero riformare (compreso quello attuale) e
poi mollano il colpo. Esordisce come “legge speciale”, tale cioè da derogare le applicazioni giuridico-finanziarie imposte dalla contabilità generale dello Stato, le norme su assegnazione di incarichi, trasparenza e la tracciabilità
dei flussi finanziari. Da qui sembra discendere anche la
discrezionalità di selezionare chi inviare in missione come “personale
di supporto e assistenza tecnica”.
Gli esperti sono di due tipi, quelli assunti presso le Unità tecniche centrali e quelli esterni. I primi sono stati inizialmente inseriti a termine, con contratti
individuali di diritto privato e retribuzioni lorde fino ai 73mila euro
che possono arrotondare con le missioni all’estero. La loro carriera da
professionisti privati è finita nel marzo 2012 atterrando sul velluto
della previdenza pubblica: i contratti sono stati trasformati a tempo
indeterminato, nonostante l’età media di 63 anni. Fino al 2011 gli
esperti Utc non erano pensionabili e non era raro
incontrare ultraottantenni che ancora operavano negli uffici della
Farnesina. Visto anche il rischio di cause, s’è deciso poi che erano
come dipendenti a tutti gli effetti e ne è stato regolamentato anche il
pensionamento, lasciandogli però la possibilità di rientrare come
consulenti per compiere nuove missioni con limite di 75 anni. Per gli
esperti privati il trattamento economico di base è modesto ma schizza
alle stelle con l’indennità di servizio all’estero (esentasse) calcolata
secondo il “coefficiente di disagio” della destinazione applicato ai diplomatici.
Qualcuno
è riuscito a farne un vero e proprio mestiere e anno dopo anno, a furia
di missioni brevi e lunghe, ha girato il mondo e messo via un bel
gruzzoletto. Sapere chi fa parte del “club degli esperti” non è facile.
Nell’area “trasparenza” del sito della Dgcs c’è una sezione incarichi ma è ferma da due anni e non riporta curriculum
e motivo dell’incarico. Per arginare la discrezionalità delle
assegnazioni e aprire il più possibile la partecipazione alle selezioni
tre anni fa la DGcs ha messo alcuni paletti inderogabili e valorizzato
l’esperienza sul campo. Anche perché, nel frattempo, non tutti gli
esperti si sono rivelati necessariamente onesti: proprio nel 2010, ma la
vicenda è emersa solo l’anno scorso, si è scoperto che 29 di loro
dichiaravano residenze fittizie in Italia per intascare indennità da
150-390 euro al giorno cui non avevano diritto perché regolarmente
residenti nei paesi di destinazione.
Si andava da compensi tra i 10mila e gli oltre 300mila euro, frutto di varie missioni cumulate. Sono stati denunciati alla Procura di Roma,
tra loro c’erano anche stimati professori universitari. Non si capisce
se la qualifica di esperto deroghi la legge sull’affidamento di
incarichi esterni che dal 2007 obbliga le amministrazioni a verificare
preventivamente l’esistenza di analoghe professionalità interne per non
creare inutili doppioni a carico dei contribuenti. Possibile che non se
ne riescano proprio a trovare in un ministero da 7mila dipendenti o in
altri che pullulano di chirurghi, agronomi, forestali
e quant’altro? Si dirà che questa storia non è poi una novità per
l’Italia, visto che anche nel 2012 siamo riusciti a spendere 1,3
miliardi affidando 300mila incarichi. Ma ancora non si era arrivati a
perlustrare il fondo della Repubblica delle consulenze:
far soccorre chi campa con un dollaro da consulenti privati che paga
anche mille volte di più. Col paradosso che un giorno di missione in
meno riempie la pancia a migliaia di disperati. Ma uno sciopero degli
esperti, chissà perché, ancora non s’è sentito.
riforma
Pdl
jena@lastampa.it
Finalmente qualcuno ha trovato il modo giusto per ridurre il numero dei parlamentari.
27092013
Pd, usciamo dalla tenaglia e parliamo di giustizia
Alfredo Bazoli
Renzi ha fatto bene a evocare il tema del civile. Ma pure
l'obbligatorietà dell'azione penale e la terzietà del giudice...
Nel corso del suo intervento all’assemblea lo scorso sabato
Renzi ha evocato, sia pure solo con un accenno, il cruciale tema della
giustizia, richiamando l’esigenza di una profonda riforma del settore
civile.
E ha fatto bene, perché non vi è dubbio che tentare di mettere mano
alle palesi inefficienze organizzative e funzionali della giustizia
civile costituisce una condizione essenziale non solo per tutelare
efficacemente i diritti dei cittadini, ma anche per recuperare
competitività al tessuto economico del paese, che oggi sconta un forte
handicap per l’intollerabile durata dei procedimenti a tutela di crediti
e obbligazioni.
Credo però che sarebbe un errore concentrarsi solo sulla giustizia
civile, e si debba invece raccogliere la sfida lanciata dal presidente
della repubblica, affrontando coraggiosamente e con spirito libero tutti
i nodi e le questioni che riguardano il funzionamento complessivo del
nostro sistema, nessun settore escluso. Ben sapendo che parlare di
giustizia oggi è molto difficile.
Stante la destabilizzazione rappresentata da vent’anni di conflitto
aperto tra il leader del centrodestra e la magistratura. E tuttavia con
la consapevolezza che un partito riformista come il nostro non può
rinunciare ad una libera discussione su questi argomenti, uscendo dalla
tenaglia giustizialismo-berlusconismo nella quale si è impantanata la
politica italiana.
Io credo allora sia doveroso domandarsi se il sistema giudiziario
disegnato dalle norme vigenti sia davvero equilibrato, anche con
riguardo a talune questioni che troppo spesso, soprattutto nel
centrosinistra, sono state eluse o accantonate per non urtare la
suscettibilità di una parte dell’opinione pubblica. Vogliamo allora
cominciare a riconoscere che quello della obbligatorietà dell’azione
penale costituisce un principio nei fatti inapplicabile per la mole di
notizie di reato che nessun sistema, per quanto correttamente
dimensionato, potrebbe mai smaltire?
E ammettere che quel principio, allo stato, è sostanzialmente stato
sostituito da una ampia e incontrollabile discrezionalità delle procure
nella scelta dei reati da perseguire, con l’attribuzione agli uffici
giudiziari di un ruolo improprio e non sufficientemente disciplinato,
che comporta l’obiettivo sacrificio della certezza del diritto?
Allo stesso modo, a me pare che non possano derubricarsi a mere
rivendicazioni di categoria i rilievi critici che da tempo l’avvocatura
italiana formula con riferimento alla effettiva terzietà e indipendenza
del giudice che, nel sistema accusatorio disegnato dal codice, deve
decidere sulle richieste della pubblica accusa, dopo un contraddittorio
con difese che dovrebbero trovarsi, ma non sempre sono, su un piano di
assoluta parità con i pubblici ministeri.
La questione della terzietà del giudice interessa poi in modo non
irrilevante anche il settore della giustizia amministrativa, attesa la
evidente ed inaccettabile osmosi tra uffici giudiziari e gabinetti
ministeriali dei membri del Consiglio di stato, ovvero dei giudici di
ultima istanza sulle controversie tra pubblica amministrazione e
privati, che reca evidente pregiudizio alle garanzie di indipendenza dei
magistrati dalla politica.
Non si può ignorare infine il tema della disciplina inerente la
responsabilità civile dei giudici, da affrontare in modo serio anche
alla luce dei rilievi formulati dalla Commissione europea, che ha aperto
una procedura di infrazione a carico dello stato italiano proprio per
la inadeguatezza dell’attuale normativa, considerata incompatibile con
il diritto comunitario in quanto troppo debole.
Sono temi ovviamente delicatissimi, perché hanno a che fare non solo
con le sacrosante esigenze di tutela della legalità e di salvaguardia
dell’autonomia della magistratura, ma anche con quella altrettanto
importante di garanzia delle libertà personali ed individuali rispetto
al potere costituito e rappresentato nell’ordinamento giudiziario,
esigenze che devono trovare la loro composizione in un equilibrio non
sempre rinvenibile nel sistema attuale.
Confido dunque che il crepuscolo di Berlusconi avvii anche il
tramonto dell’avvelenamento della discussione su tutte queste questioni,
rendendo possibile dentro il Partito democratico, ed in particolar modo
in quello che mi auguro uscirà dal prossimo congresso, un confronto
libero da pregiudizi e posizioni precostituite.
la lega buona
Aung San Suu Kyi per il 25° anniversario della fondazione della Lega nazionale per la democrazia, a Rangoon |
roma ladrona....muta
Moretti in silenzio davanti al gip
L'ex consigliere regionale si è avvalso della facoltà di non rispondere
Si è avvalso della facoltà di non rispondere l'ex consigliere
regionale della Lega Nord, Enio Moretti, davanti al gip Cesare
Bonamartini in sede di interrogatorio di garanzia. Ai domiciliari da
martedì, l'ex presidente di Chiari Servizi è accusato di associazione a
delinquere finalizzata alla frode fiscale, distruzione di scritture
contabili e caporalato.
corriere della sera ed. brescia
Basta, non si gioca più
Stefano Menichini
Napolitano e Letta mettono Berlusconi e un Pdl nevrastenico di
fronte alla scelta. O separano i processi dal governo, oppure ognuno per
sé. E a sinistra ci sarà sollievo
Adesso basta, non si gioca più. Finite le sedute di
autocoscienza a palazzo Grazioli. Finiti gli ultimatum seguiti dal
nulla. Finito il lancio di guano fra falchi e colombe. Finite le
intimazioni di Brunetta dall’alto di non si sa quale podio. Finite le
stupidaggini di Schifani su colpi di stato e attentati alla democrazia.
E finita soprattutto, visto che è questa la scintilla della crisi, la
pagliacciata delle false dimissioni di massa, una firmetta apposta su
un foglio senza valore da parlamentari sicuri che nessun capogruppo
potrà mai schiodarli dal loro scranno.
Giorgio Napolitano ed Enrico Letta mettono Berlusconi e il suo
nevrastenico partito di fronte alla realtà: se vogliono continuare a
partecipare al governo del paese devono rassegnarsi ad accettare le
sentenze e le conseguenze delle sentenze, separando – come perfino lo
stesso Berlusconi s’era impegnato a fare appena due mesi fa – la vicenda
processuale dai destini del governo e dell’Italia.
Se il Pdl è in grado di compiere questo salto senza nascondersi agli
occhi dei propri elettori dietro una cortina di frasi roboanti, bene.
Detto stasera sembra impensabile che accada, ma la paura può generare
imprevedibili atti di coraggio.
Altrimenti ognuno per la sua strada, a cominciare da Letta che sta
semplicemente, con coerenza e dignità, dando seguito a ciò che aveva
annunciato: non rimarrà attaccato alla poltrona a ogni costo.
Se il «chiarimento» dovesse avere questo esito (nell’ora in cui
scriviamo il più probabile), state certi che da sinistra si leverebbe un
sospiro di sollievo tanto forte da spostare le montagne.
La fine del tentativo di Letta dopo appena cinque mesi potrà essere
deleterio per l’Italia e per la percezione che se ne ha all’estero: i
segnali da questo punto di vista sono inequivocabili, fra rialzo dello
spread e crolli in Borsa.
L’agenda delle cose da fare resterà con tanti spazi vuoti, assai superiori ai risultati conseguiti.
Ma nulla potrebbe essere più dannoso, e offensivo per il paese, che
consentire il dispiegarsi sfrenato degli effetti della disperazione
berlusconiana: se Alfano e i suoi non sanno fare di meglio che eccitarsi
in raduni autoconsolatori, ne pagheranno le conseguenze.
Forse in elezioni ravvicinate, oppure nel corso di un processo
politico-istituzionale più tormentato, tutto da inventare. Ma almeno
nella chiarezza. Cioè, senza che ci si debba più mischiare fra pazzi e
savi.
giovedì 26 settembre 2013
EXA E DINTORNI
Riflessioni di Anselmo Palini
da Città e Dintorni
da Città e Dintorni
A Exa
2013, “Mostra internazionale di armi sportive, security e outdoor”,
che si è svolta presso la Fiera di Brescia nel mese di aprile, è
stata presente con un proprio stand anche una scuola, precisamente
l’Istituto di Istruzione Superiore “C. Beretta” di Gardone
V.T.. Tale presenza offre lo spunto per alcune riflessioni riferite
in specifico all’opportunità che una scuola partecipi ad una
mostra di armi e più in generale al fatto che in tale fiera siano
esposte non solo armi sportive e da caccia, ma anche armi leggere,
ossia materiale bellico.
Armi, non pentole
Diverse aziende hanno
esposto ad Exa 2013 armi leggere. Per stare alla “Beretta Holding
spa” - una multinazionale che nel bilancio 2012 ha dichiarato di
avere 2600 dipendenti per un fatturato netto di 566 milioni di euro -
il comparto ordine pubblico e difesa incideva sul giro d’affari
totale del bilancio 2012 per il 16%.
Produrre armi non è
come produrre pentole: le armi sono costruite perché sparino, cioè
per essere usate contro qualcuno. Le pentole normalmente non sono
fatte per essere rotte in testa a qualcuno. Il problema che qui si
vuole porre non riguarda il settore delle armi sportive, da caccia,
da tiro o quello delle repliche di armi antiche, ma esclusivamente il
settore delle armi leggere: pistole, fucili mitragliatori,
mitragliatrici, cioè il settore della produzione bellica. Perché ad
Exa anche tali armi continuano ad essere esposte? Non è forse giunto
il momento di rendere Exa una mostra basata esclusivamente sul
settore sportivo, da caccia e sulle repliche di armi antiche?
Scriveva Mazzolari
nel 1955:
“Le armi si
fabbricano per spararle (a un certo momento, diceva Napoleone, i
fucili sparano da sé). L’arte della guerra si insegna per
uccidere. Se vuoi la pace, prepara la pace: se vuoi la guerra,
prepara la guerra. È dunque tutto fatalmente logico”
(da “Tu non uccidere”, prima edizione 1955, p. 99).
Certo, qualcuno la
pensa diversamente, come il ministro della difesa Mario Mauro il
quale, nel mese di luglio 2013, in occasione del dibattito sugli F35
ha detto testualmente: “Per amare la pace bisogna armare la pace”.
Sarebbe interessante capire come Mario Mauro, che si è sempre fatto
paladino della dottrina sociale della Chiesa, riesca a coniugare con
tale dottrina la sua posizione di Ministro della Difesa e il suo
sostegno all’acquisto di F35.
Sulla stessa linea, a
livello locale, anche l’ex vice sindaco di Brescia, Fabio Rolfi,
della Lega Nord, il quale, proprio in occasione dell’inaugurazione
di Exa 2013, a cui ha partecipato anche l’Istituto Beretta di
Gardone V.T., nel lamentare l’assenza dell’allora candidato
sindaco Emilio Del Bono alla cerimonia, ha detto:
“Non sono
lontani i tempi della giunta Corsini durante la quale il Consiglio
Comunale era impegnato in noiose e lunghe discussioni, volute dalla
sinistra radicale e da buona parte dei DS oggi PD, su come limitare
l’accesso a Exa per famiglie e bambini”.
Continuava poi Rolfi: “Come potrà, nella
disgraziata eventualità in cui Del Bono vincesse le elezioni, Exa
continuare a svolgersi nella nostra città?”
(In merito a queste affermazioni di Rolfi si vedano i quotidiani
locali del 13-14 aprile 2013) .
Fortunatamente quella
“disgraziata eventualità” si è realizzata: Emilio Del Bono è
diventato sindaco e Fabio Rolfi ha tolto il disturbo dalla Giunta
comunale di Brescia. E forse ora il Consiglio Comunale di Brescia
potrà ritornare a riflettere sui limiti da porre a famiglie e minori
per la visita a una fiera come Exa. E potrà chiedere agli Enti che
organizzano Exa di escludere le armi leggere, qualificando
l’esposizione come mostra di armi sportive, da caccia e di repliche
di armi antiche.
Armi leggere
italiane, e bresciane, usate in contesti di guerra e nelle attività
di repressione
Fino agli anni
Settanta-Ottanta del secolo scorso le armi leggere italiane sono
state usate in tutti i contesti di guerra e nelle attività di
repressione attuate dai regimi dittatoriali, come in Brasile, in
Argentina, in Cile, in Perù e in Sudafrica ai tempi dell’apartheid.
Il 17 marzo 1983, nel
corso del dibattito parlamentare sulla produzione e la vendita di
armi leggere italiane, nel suo intervento il sen. Raniero La Valle,
riferendosi all’assassinio di Marianella Garcìa Villas, presidente
della Commissione per i diritti umani in Salvador e collaboratrice di
mons. Romero, avvenuto pochi giorni prima, nel chiedere un
ripensamento della politica italiana in materia di armamenti,
domandava:
«Contro chi sono
rivolte le armi che vengono fornite ai regimi dittatoriali
dell’America centrale se non contro gli indigeni, i contadini, gli
intellettuali? Quelle armi sono state usate in Salvador domenica
scorsa per uccidere Marianella Garcìa Villas. La voglio ricordare
tanto più perché non era una guerrigliera, non era una “radicale
palestinese”, non era una “sorella mussulmana”, non era una
“negra sudafricana”, non era nessuno di quelli che alla nostra
cultura esclusivista sembrano persone tanto singolari e lontane,
sembrano strani personaggi che, chissà perché, pretendono qualcosa
che noi non possiamo dargli, quasi fossero degli ET che turbano i
nostri sogni atlantici e infantili. Marianella non era una straniera,
era una di noi. Aveva padre spagnolo, aveva studiato in un collegio
di suore in Spagna, era avvocato, aveva lavorato, codici alla mano,
per strappare la gente alle prigioni, aveva militato nella Democrazia
Cristiana, aveva collaborato con il vescovo Oscar Romero, aveva
esercitato con i poveri, i feriti, gli scomparsi, i torturati ed i
morti – le sette opere di misericordia corporale – ed infine
aveva fondato un’istituzione i cui fini sono al culmine e al centro
di tutti i nostri discorsi sulla civiltà e la democrazia ed anche
sulla difesa del nostro sistema. Aveva fondato e presiedeva la
Commissione per i diritti umani. Ebbene, l’hanno ammazzata
selvaggiamente con le nostre armi, con le armi che servono alla
difesa della civiltà occidentale e con il viatico del nostro
maggiore alleato. E non solo uccisa, torturata, e con le braccia e le
gambe spezzate» (Dal resoconto stenografico
della seduta pomeridiana del 17 marzo 1983 al Senato della
Repubblica) .
Il sindacato e la
riconversione dell’industria bellica
L’uso di armi
italiane da parte di feroci dittature militari o comunque in contesti
di guerra pose problemi di natura etica anche a livello sindacale ed
infatti tra gli anni Ottanta e Novanta si organizzarono tre convegni
sindacali sulla riconversione dell’industria bellica. L’ultimo è
datato novembre 1989 e venne organizzato dalla Fiom CGIL di Brescia
sul tema Pace, disarmo e riconversione
dell’industria bellica. Esso faceva seguito
all’approvazione di un documento unitario, datato 10 maggio 1989, a
firma di Fim-Fiom-Uilm nazionali dal titolo Industria
bellica. Fim, Fiom e Uilm per la riconversione.
L’attenzione a
queste tematiche raggiunse anche le aule parlamentari e nell’aprile
1989 il ministro delle Partecipazioni Statali, Carlo Fracanzani,
istituì una Commissione ministeriale di studio e l’anno successivo
una Commissione per la riconversione.
A conferma di questa
sensibilità, si ricorda anche, nel 1994, l’istituzione
dell’Agenzia per la riconversione dell’industria bellica ad opera
della Regione Lombardia. Questa Agenzia ha lavorato per alcuni anni
ed ha finanziato progetti di riconversione, salvo poi essere chiusa
nel 2003 da Roberto Formigoni.
Allo stesso modo una
grande mobilitazione ha portato a far sì che l’Italia aderisse
(Legge di ratifica ed
esecuzione 26 marzo 1999, n. 106) al trattato di
Ottawa per la messa al bando delle mine antiuomo, che venivano
prodotte anche nel bresciano a Ghedi e a Castenedolo dalla Misar e
dalla Valsella. Ora, proprio per la sottoscrizione di quel trattato,
in Italia non è più possibile produrre tali mine e le due aziende
di cui sopra hanno riconvertito la propria produzione. Come dire che
talvolta i sogni si realizzano! Giova comunque ricordare che le mine
bresciane, disseminate in decine di Paesi del mondo, continuano a
fare vittime e a mutilare bambini ed adulti che, inavvertitamente, le
calpestano. Queste mine, infatti, se non disinnescate, rimangono
attive per decenni. Ora sono in atto in vari Paesi (es. Mozambico,
Angola…) programmi di sminamento (costosissimi), ma ancora per
molti anni le mine rimarranno e continueranno a causare morti e
feriti.
Un territorio
sensibile e attento ai temi della pace
La Consulta per la
pace del comune di Brescia, la Commissione Giustizia e Pace e il
Centro Missionario della diocesi di Brescia, l’Università
cattolica, i Missionari comboniani, la CGIL, Pax Christi,
l’associazione Brescia solidale hanno costituito da alcuni anni
Opal, “Osservatorio permanente sulle armi leggere”, proprio con
l’obiettivo, dati alla mano, di monitorare continuamente il
commercio delle armi leggere, denunciare le contraddizioni politiche
e morali connesse con tale commercio e porre il tema della
riconversione delle aziende belliche.
Il Comune di
Brescia, negli anni in cui era retto dal prof. Paolo Corsini, in
accordo con la Diocesi di Brescia (Ufficio di pastorale sociale) e
con altre numerose realtà associative, ha cercato di modificare il
regolamento di Exa affinchè si prevedesse la presenza alla mostra
solamente di armi sportive e da caccia, escludendo le armi leggere.
Il coordinamento dei gruppi interessati a questa proposta venne
affidato ad una donna di scuola, una preside, che era anche
consigliere comunale a Brescia, Rosangela Comini. La modifica del
regolamento non è riuscita, a testimonianza della forza della lobby
delle armi nella provincia di Brescia.
Un importante comune
del bresciano (Concesio) ci richiama ogni anno al valore del
messaggio di Paolo VI, al suo invito rivolto dalla tribuna dell’Onu
(4 ottobre 1965) a lasciar cadere le armi dalle proprie mani e a
impegnarsi nell’educazione alla pace. Sempre nel paese natale di
Paolo VI (Concesio) viene assegnato ogni anno un premio per la pace:
è stato assegnato a don Panizza, un sacerdote bresciano impegnato in
Calabria contro la n’drangheta; a mons. Mazzolari, morto in sud
Sudan.
Ecco, una scuola deve
decidere se partecipare a una fiera dove si pubblicizzano armi che
anche la n’drangheta usa e che anche nel sud Sudan sono state
usate, oppure se seguire il pensiero di Paolo VI, di don Panizza e di
mons. Mazzolari. Non si possono fare entrambe le cose; non si possono
tenere i piedi in due scarpe così diverse.
In molte scuole
bresciane, e anche all’Istituto Beretta di Gardone V.T., in questi
anni sono stati realizzati diversi progetti proposti da
“Bresciamondo”, una realtà che raggruppa varie decine di
associazioni, tutte fortemente attive sul versante dell’educazione
alla pace e alla mondialità. Come si fa a conciliare le attività di
educazione alla pace e alla mondialità con la partecipazione a Exa?
Una legge di
civiltà
Grazie alla
mobilitazione di associazioni, Chiese e gruppi politici, nel 1990 è
stata approvata la Legge 185, una legge di civiltà, che ha posto
precisi limiti alla vendita delle armi vietando esportazioni non
conformi alla politica estera e di difesa italiana e vietando la
vendita a Paesi che violino i principi della Costituzione italiana e
che non rispettino i diritti umani.
Tuttavia questa legge
è stata diverse volte aggirata, vendendo ad esempio armi non
considerate militari ma poi usate nella repressione delle rivolte,
come più volte documentato da Opal nei suoi Rapporti.
Negli anni della
guerra nella ex Jugoslavia ingenti forniture di armi Beretta sono
andate all’Albania, che sosteneva direttamente vari gruppi come
l’Ukk.
Nel febbraio 2005 i
servizi segreti statunitensi comunicavano ai colleghi italiani di
aver trovato un certo numero di armi Beretta in Iraq in mano a gruppi
vicini a AlQaida.
Le commesse militari
italiane destinate alla Libia sono passate dai 15 milioni di euro del
2006 ai 112 milioni del 2009 e ciò ha portato il nostro Paese ad
essere il primo fornitore europeo di armi al regime di Gheddafi.
Nel novembre 2009,
due mesi dopo la coreografica visita di Gheddafi in Italia, la
Beretta ha venduto 11.500 tra pistole, carabine semiautomatiche e
fucili a presa di gas alla Libia, armi classificate come “civili”
ma in realtà usate dalla polizia di Gheddafi per la repressione
delle rivolte.
Armi Beretta sono in
dotazione a forze armate e dell’ordine di un centinaio di Paesi, e
in diversi di questi sono usate anche per l’attività di
repressione del dissenso.
Allo stesso modo armi
leggere di altre aziende italiane sono ancora oggi usate nei vari
conflitti sparsi per il mondo o dalle polizie e forze armate di vari
Paesi per reprimere le proteste popolari.
Nel mese di luglio
2013 Opal, Osservatorio permanente sulle armi leggere, ha segnalato
che nel 2011, 2012 e anche nei mesi iniziali del 2013 armi italiane,
e bresciane, sono state esportate in Kazakistan, il Paese diventato
famoso per la vicenda dell’espulsione dall’Italia della moglie
del dissidente Ablyazov e della figlia di sei anni. Il Kazakistan è
stato più volte denunciato da Amnesty International per la
violazione diffusa e sistematica dei diritti umani; il suo presidente
Nazarbaev sta usando tutti i mezzi possibili per stroncare
l’opposizione. Nella repressione delle manifestazioni del dicembre
2011, operate dalle forze dell’ordine, vi furono ad esempio almeno
15 vittime e oltre 100 feriti gravi. Hanno dichiarato i responsabili
di Opal: “Siamo sorpresi nel vedere che, nonostante le ripetute
denunce di violazione delle libertà democratiche e civili da parte
delle forze dell’ordine kazake, continuano le esportazioni di armi
verso quel paese dall’Italia e soprattutto da Brescia, la provincia
in cui si concentra la maggiore produzione di armi italiane”
(Bresciaoggi, 20 luglio 2013) .
La National
Rifle Association, una potente lobby
delle armi
Negli Usa il possesso
delle armi è diffusissimo; chiunque
abbia compiuto 21 anni può acquistare un’arma da fuoco
e ciò è possibile grazie ad un’interpretazione estensiva del II
emendamento che garantisce il diritto di possedere armi a chiunque.
Originariamente, il secondo emendamento della Costituzione degli
Stati Uniti d’America, era stato formulato per le milizie cittadine
che, durante gli anni delle grandi colonizzazioni europee, vedevano
nelle armi da fuoco l’unico strumento che gli americani avevano per
difendere territori, case e famiglie.
Un ruolo di primo
piano nella diffusione delle armi negli Usa viene giocato dalle lobby
delle armi che spesso finanziano le campagne politiche.
La National Rifle Association,
NRA, è una delle più potenti organizzazioni degli Stati Uniti. È
una influente lobby che finanzia campagne politiche e si batte per la
difesa del diritto costituzionale al possesso ed al porto delle armi
da fuoco. Negli Stati Uniti il possesso e il porto di un’arma
costituisce un diritto civile protetto dalla Carta
dei Diritti statunitense (in particolare dal
secondo emendamento). Molte leggi sul controllo delle armi sono state
bloccate da questa lobby.
La Beretta è
presente in modo significativo negli Stati Uniti e fa parte della
National Rifle Association.
Recentemente,
anche a seguito di tragici fatti di sangue avvenuti nelle scuole
statunitensi, pure il presidente Obama ha sostenuto la necessità di
una legislazione più restrittiva in materia di vendita di armi negli
Usa, ma per il momento la lobby delle armi ha avuto la meglio e
nessuna norma restrittiva è ancora stata approvata.
(Sul ruolo di questa lobby si
veda l’articolo di Paul Arpaia, apparso sulla rivista mensile
“Mosaico di pace” di luglio 2013, dal titolo La
lobby delle armi. Paul Arpaia è docente
presso l’Indiana University di Pennsylvania)
.
“Italiani?
Complimenti, le vostre armi sono le migliori!”.
Suor Annarita
Brustia, della Consolata, durante una recente veglia missionaria a
Novara, ha raccontato che alcuni anni fa ritornando in Liberia, ad un
posto di blocco, le hanno chiesto il passaporto e, vedendo che era
italiana, i militari le hanno detto: “Ah,
italiani! Complimenti! Guardate qui le vostre armi, sono le
migliori!”.
E mons. Luis Sako,
arcivescovo caldeo di Kirkuk in Iraq, eletto lo scorso 1° febbraio
patriarca della Chiesa Caldea, ha scritto:
“Gente del Primo
Mondo, gente istruita e saggia, gente nobile che costruisce aerei e
altri strumenti di morte: questa è una cosa vergognosa, una cosa
inammissibile. Basta armi e distruzioni! C’è gente che muore ogni
giorno. La vita è bella! Il mondo è bello, bisogna rispettarlo e
renderlo ancora più bello. A causa delle armi fabbricate da voi e
con i vostri soldi, in Iraq ogni giorno ci sono 100 morti, molti
feriti e migliaia di profughi…Lo stesso accade in Somalia,
Palestina, Siria e in altri Paesi”
(Dichiarazione riportata nel dossier Armi made
in Europe pubblicato sul mensile “Popoli e
Missione” di marzo 2013).
Conclusione
La partecipazione di
una scuola ad una fiera come Exa trasmette l’idea che si tratti di
una fiera come tante. Ma in realtà non è così. Esporre delle armi
non è come esporre degli elettrodomestici.
Ha scritto Giovanni
Paolo II nel messaggio per la Giornata della pace del 1999:
“Le armi non
possono essere considerate come gli altri beni che vengono scambiati
sul mercato globale, regionale o nazionale. Il loro possesso,
produzione e scambio ha profonde implicazioni etiche e sociali e deve
essere regolamentato prestando la dovuta attenzione agli specifici
princìpi di ordine morale e legale”.
Le armi leggere sono
le principali protagoniste nelle guerre dimenticate e nei conflitti
“a bassa intensità” per una serie di motivazioni: la relativa
facilità di trasporto, l’ampia disponibilità, il facile impiego e
la lunga durata, il basso costo, la manutenzione elementare.
Ogni anno l’abuso
di armi leggere determina un aumento dei morti, dei feriti e dei
traumi psicologici sia nel contesto dei conflitti nazionali e
internazionali, sia degli abusi nell’applicazione della legge,
nella repressione violenta dei diritti democratici e nella violazione
del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Le armi leggere
incrementano la violenza (esemplare il caso degli Stati Uniti),
l’insicurezza, la paura, l’instabilità. La diffusione delle armi
leggere per la difesa personale diffonde l’idea della giustizia
“fai da te” e della visione dell’altro come potenziale nemico
da cui difendersi con ogni mezzo.
Ha
scritto Benedetto XVI ai partecipanti al seminario internazionale
organizzato dal Pontificio consiglio per la giustizia e la pace sul
tema Disarmo, sviluppo e pace. Prospettive per
un disarmo integrale, 20 aprile 2008:
“È infine
richiesto ogni sforzo contro la proliferazione delle armi leggere e
di piccolo calibro, che alimentano le guerre locali e la violenza
urbana”.
Alberto
Tridente (1932-2012), sindacalista torinese della Fim-Cisl, di cui
divenne segretario nazionale, come lo fu successivamente della Flm
nazionale (la Federazione unitaria dei metalmeccanici), all’interno
della quale occupò l’Ufficio delle relazioni internazionali, è
stato un protagonista del movimento sindacale italiano. Al cuore del
suo impegno vi è stata la battaglia per la riconversione, parziale e
progressiva, delle produzioni belliche in produzioni civili. Su tale
tema si è scontrato con molte resistenze, anche interne al
sindacato, ma Alberto Tridente non ha desistito, anzi ha provocato
apertamente il sindacato e gli stessi lavoratori. In una assemblea
tenuta nel 1974 alla Oto Melara, fabbrica bellica di La Spezia che
aveva inviato cannoni al Cile di Pinochet senza che nessuno del
sindacato o della sinistra locali avesse avuto da eccepire, Tridente
ha lanciato una provocazione che è diventata uno slogan da lui
ripetuto in ogni occasione:
“Produrre
armi nella settimana e poi manifestare il sabato per i popoli contro
i quali quelle armi saranno usate, è semplicemente incoerente e
vergognoso”
.
Ecco,
parafrasando Alberto Tridente, posso concludere dicendo che una
scuola non può da un lato educare alla pace, alla tolleranza, al
rispetto, ai diritti umani, e nello stesso tempo partecipare ad una
fiera che pubblicizza anche produzioni belliche che nulla hanno a che
fare con la pace, la tolleranza, i diritti umani, il rispetto degli
altri.
Allo
stesso modo una città non può, attraverso le sue associazioni,
proporre attività di educazione alla pace, al rispetto dei diritti
umani, alla mondialità, all’intercultura e nello stesso tempo
permettere che si pubblicizzino in una fiera armi da guerra.
P.S.
Quanto
qui di seguito riportato non è presente nell’articolo di Città e
Dintorni in quanto il materiale della diocesi, cui si fa riferimento,
è stato diffuso quando ormai il numero della rivista era in
tipografia per la stampa. Lo riporto perché serve a completare
l’articolo e a confermare le idee che vi sono sostenute.
In occasione della
Giornata di preghiera e di digiuno per la pace in Siria, indetta da
papa Francesco per il 7 settembre 2013, la diocesi di Brescia ha
diffuso tra i gruppi e le parrocchie del materiale per riflessioni e
celebrazioni, dove si denuncia «l’ipocrisia della comunità
internazionale che, dopo due anni di guerra civile in Siria con oltre
93mila morti e due milioni di sfollati, si accinge ora ad un
intervento militare nel Paese». Prosegue il documento della diocesi
di Brescia:«Dovevano essere fermate prima le esportazioni di armi
leggere che l’Italia, in particolar modo dalla provincia di
Brescia, e diversi Stati europei hanno continuato ad inviare nei
Paesi confinanti con la Siria. Le armi leggere sono le vere “armi
di distruzione di massa” che hanno alimentato il conflitto».
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