martedì 2 gennaio 2018

In politica in alcuni momenti sostanza e apparenza si divaricano.

Stefano Ceccanti
2 gennaio 2018
Fabozzi sul Manifesto e Palmerini sul Sole ci spiegano giustamente che il discorso breve ed essenziale del Presidente Mattarella non prelude affatto a un suo ruolo più ritirato dopo le elezioni nella formazione del Governo, ma con tutta probabilità esattamente al contrario. E' ovvio e giusto che per invitare alla partecipazione si insista sul ruolo degli elettori nello scrivere la "pagina bianca" della vita politica. E' però ancor più vero che in un sistema a base proporzionale gli elettori col voto assegnano solo la quantità di carte per l'inizio vero del gioco che avviene solo in seguito e che, con partiti deboli e lontani tra di loro, esso tenda in realtà a spostarsi sul Quirinale.
Nella cosiddetta seconda Repubblica, con sistemi a dominante maggioritaria, in genere questo accadeva a un certo punto della legislatura, dopo l'implosione dei governi legittimati direttamente dagli elettori, ora invece è altamente probabile che accada sin da subito. 
Sostanza e apparenza sono destinate a divaricarsi per un mese, fino alla chiusura delle candidature, anche nella vita tra partiti e coalizioni. Essi giustamente già chiedono il voto contro i propri rivali, però questa è la fase in cui si regola soprattutto la competizione interna. Nei partiti non è mai facile combinare unità e pluralismo, anzi in qualche caso è evidente il tentativo di comprimere tutto nella prima direzione come con le nuove regole del M5S, che potrebbero avere come effetto anche la fuoriuscita di alcuni potenziali candidati non ritenuti allineati, anche con clamore pubblico e danno per il risultato. 
Anche quando si ricorra a strumenti apparentemente democratici come forme di primaria, magari essi sono impostati con regole tali da rendere ancor più monolitica la scelta: basti pensare alle 'parlamentarie'  di 5 anni fa di Bersani tra Natale e Capodanno ben congegnate soprattutto per eliminare le minoranze interne, anche se poi, nonostante la rispondenza effettiva del risultato a quello scopo, la fedeltà degli eletti non durò molto rispetto all'incapacità di formare il Governo nel tentativo impossibile col M5S. 
Nelle coalizioni  vi è il problema di come si dividono le candidature uninominali (quante alla Lega e quante a Fi? Quante al Pd e quante agli alleati? Come si fa senza avere prima indicatori sicuri della forza reciproca? Si ricorre ai sondaggi?) e nelle liste che risultano da intese tra forze diverse (esempio quella della sinistra sinistra) che non possono vincere collegi ma che vedranno eletti solo capilista c'è un problema analogo (quanti a D'Alema? Quanti a Civati?).
Si aggiunge a ciò qualche difficoltà interpretativa di una legge elettorale nuova di zecca, che però sarebbe risolubile, come sempre, con un pò di ragionevolezza. Anche per questo non va data per irreversibile la momentanea rottura tra Pd e Radicali
C'è a dire, tuttavia, che il Pd si presenta stavolta, in questa fase, come il soggetto relativamente più preparato a vivere il passaggio come in un gioco di squadra effettivo, nonostante le difficoltà obiettive di inizio campagna, il che potrebbe essere una risorsa non da poco.
Non sono infatti più i tempi in cui una qualsiasi scelta veniva recepita in modo acritico dall'elettorato, non è più il momento di D'Alema che invia Di Pietro nel Mugello sicuro del risultato.
Al momento del voto sostanza e apparenza si riavvicinano e l'esito non è mai certo.

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