venerdì 29 dicembre 2017

La possibile spinta al Pd che può arrivare dall’essere al governo

di Paolo Bellucci
società italiana studi elettorali
Il dibattito sull’idea che stare al governo fino al voto sia o meno un vantaggio nelle urne. Ecco quanto può valere per i dem.
Sino a qualche tempo fa si scriveva di effetto incumbent per descrivere il vantaggio elettorale del partito di governo all’approssimarsi delle elezioni. Un effetto che ricorda l’aforisma “il potere logora chi non ce l’ha”. L’idea di fondo è che i partiti al governo godano di un possibile vantaggio elettorale, non solo per l’ovvia ragione che chi ben governa è ricompensato dal voto, ma anche perché far parte dell’esecutivo ha significato in passato – ma non solo – la possibilità di favorire con provvedimenti legislativi la propria base elettorale, stimolando così il consenso nell’imminenza delle consultazioni. Si pensi ad esempio al lungo periodo che in Italia ha visto la Democrazia Cristiana al governo da sola o in coalizione con il Partito Socialista.
Da qualche tempo questo effetto sembra tuttavia notevolmente ridimensionato. Anzi, abbiamo assistito a quello che pare delinearsi come un effetto opposto, cioè alla sistematica penalizzazione dei partiti di governo, sconfitti o indeboliti alle elezioni al termine del mandato. Lo abbiamo visto con evidenza in parecchie elezioni in Europa durante e dopo la Grande Recessione del 2008-12. Si dirà che questi esiti non sorprendono, anzi appaiono ragionevoli e scontati vista la severità della crisi. E che sono attribuibili al cosiddetto “voto economico”: le elezioni sono viste come un referendum sul governo, per cui l’elettorato premia o punisce a seconda di una situazione economica favorevole o meno, attribuendo ai partiti la responsabilità per cattivi o buoni esiti collettivi.
L’effetto incumbent negativo, tuttavia, non è circoscritto alle crisi economiche. Lo studioso danese Martin Paldam ha definito questo effetto come il cost of ruling – una sorta di attrito del governo – e ha calcolato che i partiti di governo perdono il 3% in media, e sino al 6% i governi in carica da oltre quattro anni. Perché? Le scelte di voto di un elettorato i cui tradizionali ancoraggi politici (dalla classe sociale alla religione) appaiono sempre più in declino dipendono infatti in misura significativa dai giudizi sull’operato del governo (in carica).
In ciò sospinti dalla marcata visibilità dei governi e dei leader rispetto a quella più incerta dei partiti, e dalla crescente personalizzazione della politica. Questo contribuisce a dare vita ad una campagna permanente nella quale l’operato e l’efficacia delle azioni del governo sono oggetto di costante attenzione e scrutinio da parte dell’opinione pubblica e dei media. Governi e leader politici comunicano incessantemente per diffondere e pubblicizzare le proprie realizzazioni, così come i partiti dell’opposizione danno vita ad eventi ed occasioni di visibilità con il fine di conquistare l’attenzione dell’opinione pubblica.
Ed oggi i like della rete, che moltiplica l’effetto comunicativo. Quindi il partito di governo che, agli occhi dell’opinione pubblica, ha ben operato ha una alta probabilità di riconferma da parte degli elettori. E viceversa. Un indicatore attendibile del giudizio dell’opinione pubblica è Il gradimento del governo, ossia la sua popolarità, rilevata da varie inchieste d’opinione. La popolarità non è un fenomeno emotivo e casuale. Al contrario presenta un ciclo stabile e prevedibile, a forma di U: è alta immediatamente dopo l’insediamento (la cosiddetta luna di miele), declina man mano che procede nel mandato a causa della formazione di minoranze scontente di questa o quella politica, e tende infine a risalire all’approssimarsi delle elezioni.
Ma cosa influisce sulla popolarità? Anzitutto il clima di fiducia dei consumatori e le aspettative sull’economia; quindi il ciclo elettorale nell’alternanza tra elezioni legislative e altre elezioni (regionali, europee, amministrative); infine la comunicazione politica e l’esposizione degli elettori ai media. Il primo fattore è di gran lunga il più importante. Dietro l’alternanza di governi che l’Italia ha conosciuto dal 1996 è osservabile, accanto alla differente composizione delle alleanze pre-elettorali, l’effetto della popolarità. Nessun governo è stato in grado di compiere il percorso completo, risalendo verso la fine del ciclo.
E un livello di gradimento inferiore al 30% ha significato la sconfitta. L’attuale governo sembra conoscere una situazione migliore, con l’indice di popolarità appena sopra il 40%. Questo potrebbe significare un risultato elettorale per il Pd al di sopra delle aspettative correnti. Non si tratta di una sola impressione. Infatti le analisi della popolarità sono utilizzate per effettuare previsioni elettorali con largo anticipo rispetto a quanto possibile dai sondaggi sulle intenzioni di voto, che si stabilizzano solo alla vigilia elettorale.
Si tratta di modelli previsionali diffusi in Europa e negli Stati Uniti, che si basano appunto sulle caratteristiche di base dei cicli della popolarità (e che non dipendono da caratteristiche contingenti ancora sconosciute quali campagna elettorale, alchimie delle alleanze, eventi). Impiegando un modello simile (che ha come ingredienti di calcolo la serie storica dei risultati elettorali alle politiche, europee e regionali, la popolarità del governo nel trimestre precedente il voto, il consenso medio alle tre precedenti consultazioni) si perviene ad una stima del voto per il Pd del 34% (con un margine d’errore di +/- 6%).
Si tratta ovviamente di una stima, con un margine statistico d’errore tipico di tutti i modelli previsionali. Segnala tuttavia un’occasione di riflessione per il Partito Democratico, che in passato, a differenza del centro-destra, non si è mai presentato alle elezioni riconfermando il presidente del consiglio uscente.

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