Marco Imarisio
Corriere della Sera 27 febbraio 2014
I parlamentari a Cinque Stelle sono una
razza in via di espulsione. Dopo i pianti e le urla che hanno segnato
una giornata importante, non resta che aggiornare la contabilità dei
reprobi allontanati dal movimento di Beppe Grillo.
La vera novità
è l’addio al Padre da parte di un gruppo neppure piccolo di
senatori, preludio di un rimescolamento a sinistra. Forse potevano
pensarci prima. In questi primi dodici mesi romani la certificazione
della loro inutilità è stata pratica costante. Gli eletti/nominati
di M5S è come se non avessero mai avuto nome, figure intercambiabili
una dall’altra. Talvolta Grillo si ricordava della loro esistenza
lodando i fedeli alla linea, «ragazzi straordinari» che nel
silenzio combattono le forze del Male, cioè gli altri. Ma giorno
dopo giorno, con parole e opere li ha messi in una condizione di
assoluta irrilevanza, costringendoli a una marginalità che li ha
sterilizzati anche nella dialettica interna. L’esistenza dei quadri
intermedi non è ancora prevista in un movimento che usa la
comunicazione diretta sul web anche per mantenere la catena corta.
Grillo non ha mai saputo bene cosa farsene, di quei 156 parlamentari.
Se predichi solo la distruzione del sistema, concetto ribadito pochi
giorni fa nel monologo in streaming con Matteo Renzi, la vita di chi
è stato chiamato a dare il proprio contributo all’interno di quel
sistema si fa grama. La sua condizione diventa equivoca, a meno di
conformarsi in una eterna replica dell’originale, riproducendone
gli insulti e le insolenze. La libertà di pensiero, cosa diversa
dalla disciplina di partito, non è agli atti di questo M5S. La
contraddizione in termini vissuta dai pochi che si illudevano di
cambiare le cose da dentro, o almeno provarci, non sfugge ai
militanti che da sempre si misurano e si confrontano in altra sede,
andando dritti alla fonte, che sia il blog del Capo o le piattaforme
dei meetup. L’appartenenza a M5S ha un tratto fideistico che trova
la propria ragion d’essere più nelle malefatte degli «altri» che
in qualunque gesto o proposizione attiva fatta dai propri eletti. Nel
vortice umorale di Grillo che in questo anno ha fatto e disfatto,
perdonato e epurato, pochi militanti hanno notato la differenza tra
casi umani e gente che invece poteva dare un vero contributo. Conta
solo il gesto, l’affermazione di un principio di autorità che
ricorda molto il Pci degli anni Cinquanta. In questo clima ostile è
cresciuto il disagio dei dissidenti, delle voci critiche non piegate
a una ortodossia che ammetteva solo la replica a pappagallo dei
comizi di Grillo. La ribellione di ieri è maturata in pubblico,
quasi annunciata. Apre una crepa nel monolite a Cinque Stelle, ma non
pone domande a chi resta, perché le domande non sono contemplate dal
copione. La democrazia interna è un falso problema che interessa,
sorprende e indigna soltanto chi osserva da fuori. Le regole di
Grillo sono sempre state chiare, fin dall’ormai remoto dicembre
2012 dedicato alla piccola insurrezione in Emilia Romagna, quando
postò il celebre video del «chi non la pensa come me vada fuori
dalle palle», che sembrava lo sfogo di un uomo molto stressato e
invece era anche l’enunciazione di un metodo. La valutazione dello
stato di salute del Movimento non dipende dal pallottoliere di Camera
e Senato. La scelta di non scegliere, di restare fermo insensibile
agli avvenimenti esterni, ha condannato la truppa dei suoi «ragazzi»
alla condizione di mera escrescenza del M5S. Se ci sono bene,
altrimenti fa lo stesso. Non sono forza propulsiva, avamposto. Non
servono. Grillo ha scelto da tempo il gioco di sponda. Sfrutta
debolezze e contraddizioni degli altri, attende. L’appuntamento che
conta è quello delle prossime elezioni europee, ed è così che ci
arriverà. La demonizzazione che inevitabilmente farà seguito a
questo nuovo esercizio di autoritarismo avrà l’unico effetto di
rafforzare il senso di appartenenza dei suoi fedelissimi. E magari
gli porterà anche altri voti.
Nessun commento:
Posta un commento