lunedì 24 febbraio 2014

Il Nemico

Marco Damilano


 
 

Li teneva sul tavolo di lavoro da sindaco di Firenze, a Palazzo Vecchio. Due libri: l’autobiografia di Peter Mandelson, lo spin doctor di Tony Blair, e il più sorprendente “Love is our resistance” che raccoglie i testi delle canzoni di Matthew Bellamy e della band inglese Muse. «You don’t have long/I am to you». «Non avete molto tempo, vi sto con il fiato sul collo… non ci vorrà molto tempo/ vi sto con il fiato sul collo/ è giunto il momento/ di demolire la vostra supremazia». Un progetto di lavoro, a ben guardare. Era fine estate, Matteo Renzi era appena tornato da un viaggio con la famiglia in America, confidava al cronista di aver scherzosamente avvertito i figli: «L’ho detto ai due maschi: ragazzi, dopo questi giorni papà lo rivedete quando sarete già fidanzati!».
Aveva ragione lui. Nessuno, in quel momento, poteva prevedere che in pochi mesi Matteo Renzi sarebbe arrivato a Palazzo Chigi alla guida di un governo che ha un nemico dichiarato, la ormai stranota palude, «la conservazione per la conservazione», e uno più sottile e insidioso (che non è Enrico Letta, come vedremo). La squadra dei ministri, i sedici nomi con le otto donne, l’età media (47 anni), il premier, «uno come me, un ragazzo sotto i quaranta», non nasce soltanto dalla brutale operazione politica di una settimana fa che ha portato all’estromissione del premier precedente (che non l’ha presa bene, infatti), né dalle trattative delle ultime ore con Angelino Alfano. È un passaggio di fase storico, come tale va trattato, anche se ha le apparenze del blitzkrieg e del tradimento all’italiana.
L’era Renzi, se sarà di lunga durata, inizia nel 2014, esattamente venti anni dopo la campagna elettorale che portò Silvio Berlusconi a conquistare per la prima volta Palazzo Chigi. Altro che i progressisti di Occhetto, il governo Renzi visto durante il giuramento al Quirinale sembrava una gioiosa macchina da guerra: guascona, sbruffona, baldanzosa, in grado di strappare qualche sorriso a Napolitano che pure non ha nascosto il suo sentimento di distacco, forse di estraneità dall’«impronta» renziana, il nuovo. Come venti anni fa arriva a Palazzo Chigi l’homo novus, direttamente alla guida del governo senza un cursus honorum parlamentare. «Al mio arrivo qui c’erano due ali di folla, la gente mi mandava baci», disse Berlusconi ai cronisti il giorno dell’incarico. Renzi ha spedito un tweet dallo studio presidenziale: «Arrivo, arrivo!».
Venti anni sono un ciclo politico, lungo e ridicolmente soffocante è stato quello berlusconiano, come tragico era stato quello fascista. E alla fine di ogni ciclo politico c’è una generazione pronta a ereditarne le macerie. Non si è ancora capito, né minimamente studiato, cosa sia avvenuto nel profondo della società italiana, nelle viscere e nei sogni, nella vita quotidiana e nelle ambizioni degli italiani, in questi ultimi decenni. Chi conosce la storia sa che non esistono cesure, parentesi, invasioni straniere, e neppure autobiografie nazionali, ogni stagione è il frutto di quella che l’ha preceduta. I giovani fascisti di un secolo fa, tra il 1919 e il 1922, erano gli eredi della prima guerra mondiale e delle delusioni risorgimentali, come i ragazzi del ‘68 e della contestazione erano nati e cresciuti negli anni della Repubblica anti-fascista e del boom economico. Anche sull’estremismo dei deputati grillini e del Movimento 5 Stelle, ogni parola di condanna andrebbe preceduta da una premessa, una minima assunzione di responsabilità: quei ragazzi che oggi siedono in Parlamento sono i fratelli minori, i figli della società che li ha preceduti. Non un Sistema generico e deresponsabilizzante, come si vagheggiava negli anni Settanta, ma un preciso blocco politico, economico, intellettuale che si è riconosciuto in Berlusconi ma che spesso a sinistra ha assunto Berlusconi come alibi della sua inazione. Intanto cresceva la rabbia, nelle sue molteplici forme: la voglia di eliminare tutti, il tutti a casa di Grillo, la rassegnazione che prende la forma del non-voto, il cambiamento.
Oltre a Beppe Grillo, l’unico politico che ha intuito il fiume carsico che si muoveva nel Paese lontano da questo establishment autoreferenziale è stato il Renzi prima maniera, versione rottamatore, l’unico ad aver rappresentato un sentimento profondo di intolleranza verso il Blocco. Figlio, anche lui, di questo ventennio: dalla ruota della Fortuna a Palazzo Chigi, venti anni esatti, ieri c’era Mike, oggi c’è Napolitano ad assegnare il premio che cambia la vita. In questi due decenni la parola politica ha perso valore, nel suo insieme: zero rappresentanza, con le liste bloccate del Porcellum a suggellare l’universo parallelo dei notabili e dei loro staff senza nessun legame con i territori di appartenenza, e nessuna capacità decisionale. Berlusconi era un tycoon, non voleva passare alla storia come il riformatore dello Stato modello De Gaulle, si accontentava di passare dalla cassa, come proprietario del suo impero, il centrosinistra (con l’eccezione dell’Ulivo 1996 e in parte il Pd di Veltroni) non ha mai avuto un progetto che andasse oltre la pura semplice accettazione dell’esistente. I tecnici alla Monti hanno provato a gestire il disastro, ma senza mai andare oltre la contabilità, senza incrociare le paure e le speranze degli italiani. Il Paese è andato in declino. Il dibattito pubblico è sconfortante.
C’è un ciclo lungo, di venti anni, e uno breve, di quest’ultimo incredibile anno, dal 25 febbraio 2013, quando Pier Luigi Bersani scoprì l’amarezza della non-vittoria, al 21 febbraio 2014 del governo Renzi. Il premier ha promesso di sfondare questo muro opaco di gerontocrazia e di maschilismo, di portare una nuova generazione al governo del Paese, di promuovere il merito e il talento. Nella lista dei ministri alcuni obiettivi sono stati raggiunti, su un piano quantitativo. Non certo sul piano qualitativo: non certo per l’inesperienza dei ministri più giovani, avranno tempo per imparare, ma perché in alcuni casi non sembrano aver nulla della fame che spinge i loro coetanei a sperimentare, a mettersi in gioco. Alcuni, come Roberta Pinotti, arrivano da una lunga gavetta nell’associazionismo, nella politica locale e parlamentare, garantiscono competenza e innovazione. Altri, come Dario Franceschini, sono uomini per tutte le stagioni, sia pure di ancor giovane età. Angelino Alfano e i suoi sono, semplicemente, quella che Renzi chiama «la conservazione per la conservazione»: eccoli lì, al gran completo, integri. E tanti nomi nuovi sono, piuttosto, figli del vecchio establishment (la ministra dello Sviluppo Federica Guidi lo è in senso stretto, una rampolla di famiglia), dei quartieri alti, delle buone scuole. Ripetono, nelle interviste, tutte gentili e educate, la frase comehadettomatteorenzi, così, tutto attaccato, come un hashtag. Non sono outsider, ma predestinati alle posizione di guida. Per via ereditaria.
La carica di novità, così, finisce per essere racchiusa tutta nella persona del premier. Lui sì partito dal nulla, dalla provincia di Firenze, e arrivato in tempo eccezionalmente rapido al vertice del Paese. È Renzi il nuovo: questo è il punto di partenza, ma non può essere il punto di arrivo. È Renzi che può entusiasmare o deludere, lui che può aprire una stagione di egemonia o consumarsi rapidamente. Ed è questo il vero nemico di Renzi: non l’entusiasmo, l’inesperienza, la voglia di fare e perfino di strafare. Ma la ricerca del conformismo, del rapido applauso, la confusione della comunicazione con la propaganda e dell’immediatezza e dell’estemporaneità con il progetto. Il sindaco-premier non può trasformare i ministri in assessori fedeli e obbedienti, chiederà la fiducia al Parlamento, non un atto di fede. Nella lista dei ministri, in alcuni nomi, come già nella segreteria del Pd, il nuovo c’è, i contenuti sono incerti, il merito e il talento molto meno, soprattutto quel merito che si conquista contraddicendo il Capo, come ha fatto Renzi, non compiacendolo o citandolo ogni due per tre. Il nemico di Renzi è Renzi stesso. Lo combatta, senza trastullarsi con gli adulatori, si auguri critici esigenti, non accomodanti. Senza dimenticare, come cantano i Muse, di continuare ad «avere fame di un po’ di disordine».

Nessun commento:

Posta un commento