sabato 1 febbraio 2014

La politica di papa Francesco

Pierluigi Castagnetti 
Europa  

Le critiche di Bergoglio al sistema economico sono profondamente “politiche”. Ma la Chiesa che Francesco ha in mente lascia ai laici la ricerca delle soluzioni concrete
L’esortazione apostolica Evangelii gaudium è il primo testo magisteriale vero di papa Francesco. Vale la pena di leggerlo e rileggerlo per capire in che direzione camminerà la Chiesa nei prossimi anni. Non c’è solo una novità di metodo o di stile pastorale, in questo pontificato c’è una novità di strategia ecclesiale. Un magistero che propone il Vangelo sine glossa, veramente nudo, privo di mediazioni culturali e ancor meno politiche. Non più l’“inculturazione della fede”, ma la fede semplice e verace.
In questo testo il papa pronuncia parole nette, parole nuove che in effetti sono parole antiche ormai dimenticate e che oggi sembrano creare un clima, un’aura suggestiva e intrigante per i credenti, i non credenti, e i portatori di fede “dormiente”.
È cambiata la musica
Nella motivazione con cui la rivista Time ha designato papa Francesco uomo dell’anno 1913 è scritto: «In meno di un anno ha fatto qualcosa di veramente significativo: non ha cambiato (solo) le parole, ha cambiato la musica». La domanda che ci si pone allora è: questo papa ha dietro di sé la Chiesa o la Chiesa sta assumendo nei suoi confronti il vecchio adagio curiale «i papi passano»? E, ancora, il papa si sta rivelando per quello che non si pensava o è stato scelto in Conclave proprio perché lo si conosceva bene?
È infatti difficile che Bergoglio, già candidato nel precedente Conclave, cardinale latinoamericano conosciuto da decenni per la sua concezione di Chiesa, perdipiù dopo diverse congregazioni preparatorie in cui è stato possibile sentire le sue idee di riforma, sia stato eletto senza una forte intenzionalità. Dunque è ragionevole pensare che la sua elezione corrisponda a una precisa volontà di cambiamento della Chiesa universale, pur essendo vero che il “corpo” della Chiesa, soprattutto italiana, è ancora abbastanza stordito e in attesa, non si sa bene di che.
Del resto più passano i mesi più si coglie la coerenza di un disegno di cambiamento che comprende il magistero delle parole, quello dei gesti e quello delle scelte strutturali e degli uomini che debbono incarnarle. Il disegno c’è e si vede. Per quanto riguarda i riflessi sulla vita politica, soprattutto in un paese come il nostro in cui per decenni le connessioni fra la fede e la politica e fra la Chiesa e lo Stato sono state molto importanti, vale la pena concentrarsi su alcuni punti molto chiari.
Innanzitutto va rilevato che la Chiesa di papa Francesco, consapevole della progressiva condizione di minorità in cui è venuta a trovarsi nella gran parte delle società occidentali (oggi il numero dei cristiani che frequentano la messa domenicale in Cina è superiore a quello dei frequentanti in Germania, Francia, Gran Bretagna, Olanda e Belgio tutti insieme), finalmente si interroga sulle ragioni di questo processo, in gran parte determinato da una secolarizzazione colpevolmente sottovalutata nelle sue connessioni con il modello di sviluppo, e cerca una strada nuova.
La “chiamata” di un papa «dalla fine del mondo» – cioè di un papa che considera che la via della “inculturazione della fede”, anziché indurre la cristianizzazione dei modelli di sviluppo, ha determinato negli ultimi decenni lo scolorimento del messaggio cristiano – non è stata casuale né rappresenta una parentesi nella vita della Chiesa.
La forza scandalosa delle parole
Non è un caso, dunque, che papa Francesco si sia data la missione di favorire la “conversione” della Chiesa. Una decontaminazione culturale rispetto ai valori mondani. La rottura di un modello di confusione e coinvolgimento con il potere politico. Tutto ciò attraverso una nuova linea di teologia del popolo e, per quanto paradossale possa apparire, di teologia della laicità: questa Chiesa infatti osserva, giudica e sceglie da che parte stare. Non le compete dire cosa fare. Le compete annunciare il Vangelo senza mediazioni e proporlo come termine di paragone, ai governi e a tutti gli uomini, sollecitati a riscoprire il valore della gioia vera.
«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento», comincia così l’Evangelii gaudium. In questa luce appare chiaro il filo che lega le sfide che il papa vede in questo tempo: l’economia dell’esclusione, la nuova idolatria del denaro, la crescente disuguaglianza, l’indifferenza assoluta rispetto ad esse, i limiti della Chiesa stessa a partire da una certa mondanità spirituale e dal pessimismo culturale. La conversione comporta la riscoperta del valore primigenio di quella Parola che le è stata affidata: si tratta del patrimonio più prezioso e non può essere nascosto, edulcorato, tradito.
A leggere questo documento si resta sconvolti per la durezza di un linguaggio cui non siamo più abituati. Una forza “scandalosa” delle parole nude, al punto che gli stessi pastori nelle diocesi e nelle parrocchie (così come gran parte di loro fece dei discorsi sulla pace di Giovanni Paolo II al tempo della guerra in Iraq) si limitano spesso a riassumerne i contenuti, tanto è costosa e difficile la lettura testuale. Proviamo a soffermarci soltanto su alcuni passi.
«Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire: no a un’economia dell’esclusione e dell’iniquità. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. (…) Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono sfruttati, ma rifiuti, “avanzi”».
E, ancora, al punto successivo: «Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza… La cultura del benessere ci anestetizza».
A ciascuno le sue responsabilità
«Magari la sinistra europea riuscisse a dire la metà di ciò che è scritto nell’Evangelii Gaudium – ha osservato recentemente Claudio Sardo in una bella relazione a un seminario dei Cristiano Sociali – sarebbe la prova che è stato recuperato un pensiero critico, che non si è più appiattiti sul presente e sulle compatibilità date».
E, peraltro, anche solo queste poche righe del documento che abbiamo letto colpiscono per la loro disarmante semplicità, che dice che la “Chiesa di popolo” vuole farsi capire dal popolo, in ogni parte del pianeta, e non ha la pretesa di fondare o indicare una via politica per la soluzione di questi drammi, lasciandone per intero la responsabilità a quanti ne hanno responsabilità. La Chiesa osserva, valuta, denuncia, esorta, prende parte, ricorda a tutti che nei momenti di confusione e smarrimento c’è il Vangelo non per dare una soluzione concreta ma per indicare i principi che possono rimettere in carreggiata.
A ben guardare la conversione cui ci richiama Francesco è quella della centralità dell’uomo: se il bene dell’uomo è la ragione per cui, se l’uomo è il metro che misura e valida il nostro agire, se insomma l’uomo è la variabile indipendente, allora è tutto il resto che deve cambiare e riordinarsi a questo fine. Ecco cos’è l’antropocentrismo. Francesco non dice che l’economia di mercato è sbagliata, che la globalizzazione finanziaria è sbagliata, ma dice che entrambe debbono essere sottoposte alla seguente verifica: sono aumentate o diminuite la giustizia, l’uguaglianza, la pace?
Partiti senza “timbro”
Lasciatemi osservare che senza questi interrogativi coraggiosi e controcorrente sulla crescente ingiustizia – assoluta e relativa – probabilmente il presidente Obama non avrebbe fatto lo stesso discorso sullo stato dell’Unione che ha fatto pochi giorni fa. Queste domande infatti Francesco le ha proposte a tutti, credenti e non credenti, ricchi e poveri, uomini del nord e del sud, governanti e governati. Una rivoluzione copernicana in primo luogo per i cristiani impegnati in politica.
La Chiesa non chiede loro protezioni e agevolazioni, partiti unici o confessionali, difesa di valori non negoziabili (fermi restando i principî fondanti per i cristiani), mediazioni politiche o transazioni di potere. Chiede loro di voler bene all’uomo, a tutti gli uomini, e di testimoniare in tal modo l’essenza della loro fede. Ma se in un paese come il nostro, con la storia che ha il nostro e con le divisioni ideologiche che sino a pochi anni fa lo hanno attraversato, la Chiesa non ha più timbri da mettere su alcuna casacca, ma esprime qualcosa di ben più esigente come un antropocentrismo che rimette in asse ciò che il tempo e l’assuefazione allo spirito del tempo hanno spostato, allora le cose cambiano, per i credenti e non solo.
È evidente che la cultura della mediazione in senso classico non viene superata, essendo essa la virtù della politica, il mezzo attraverso cui la politica realizza i propri obiettivi. Liberata dall’onere di interconnettere i “poteri” (quello statuale e quello ecclesiale), la mediazione torna ad essere funzione politica nobile e si arricchisce in termini di laicità e responsabilità. In un simile contesto i cristiani conservano una loro specificità e una loro utilità quando si impegnano in politica?
Certamente. Nella misura in cui essi sapranno essere testimoni coerenti e fedeli di quella centralità dell’uomo che il Vangelo ispira ed esige, potranno rappresentare un’ulteriorità, una ricchezza per la vita politica, in cui non si dovranno mai sentire semplici ospiti, in una qualche misura estranei, sopportati solo per rispetto di una memorialistica più o meno gloriosa, ma motori di cambiamento e conversione indispensabili, promotori di quel pensiero critico senza del quale la politica degrada verso l’insignificanza.

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