MATTEO RENZI
La
Repubblica 23/02/2014
C’è stato un tempo in cui a sinistra la parola “sinistra”
era una parolaccia. Sacrificata al galateo della coalizione di
centrosinistra, tanto da giustificare dibattiti estenuanti e buffi
sul trattino, ricordate?
“Centro-sinistra” o “centrosinistra” era la nuova disputa
guelfi-ghibellini, tra chi pensava il campo progressista come un
litigioso condominio, caseggiato rumoroso di partiti gelosi delle
proprie convenienze e confini e chi, invece, vagheggiava il
Partito-Coalizione, area politica aperta, il cui orizzonte schiudeva
l’universo del campo progressista.
In questo incrocio, che ha opposto due linee in parte intente a
far baruffa ancora adesso, c’è il Partito democratico, la parola
“sinistra” come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre
ineludibile.
Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio,
non paura. Erano quelli gli anni dell’Ulivo, il progetto di Romano
Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito
comunista da quelli della Democrazia cristiana, di una forza che
raccogliesse istanze liberaldemocratiche, ambientaliste, in una nuova
unità, una nuova cultura politica semplicemente, finalmente potremmo
dire, “democratica”.
Erano, nel mondo, gli anni della “terza via”, di Bill Clinton
e Tony Blair, una rotta per evitare Scilla e Cariddi, tra gli
estremismi della sinistra irriducibile e la destra diventata, dopo
Reagan e Thatcher, una maschera di durezze. Qualcuno pensò allora
perfino che la sinistra fosse ormai uno strumento inservibile, non
più adeguato a un mondo nuovo, sulla spinta di quella che si
chiamava globalizzazione, dove finiva il XX secolo della guerra
fredda e cominciava il XXI, tutto individuale e personal, dalla
tecnologia alla politica.
A fare da sentinella, non per custodire e conservare, ma per
richiamare alla sostanza delle cose, alla loro forza, il filosofo
Norberto Bobbio — or sono venti anni esatti — pensò di tirare
una linea, per segnalare dove la divisione tra destra e sinistra
ancora teneva e tiene. Suggerendo che la scelta cruciale resti sempre
la stessa, storica, radicale, un referendum tra eguaglianza e
diseguaglianza, come dal XVIII secolo in avanti. Mi chiedo se oggi
che la seduzione della “terza via” — che pure nel socialismo
liberale, nell’utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un
riflesso — si è sublimata perdendo slancio, la coppia
eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la
distinzione destra/sinistra. Basti pensare, a livello europeo,
all’insorgere dei populismi e dei movimenti xenofobi contro i quali
è chiamato a ridefinirsi il progetto dell’Unione europea, così in
crisi. Un magma impossibile da ridurre alla vecchia contraddizione
eguali/diseguali a lungo così nitida.
Dal punto di vista del sistema politico, infatti, sono e rimango
un convinto bipolarista. Credo che un modello bipartitico,
all’americana per intenderci, sia un orizzonte auspicabile, sia pur
nel rispetto della storia, delle culture, delle sensibilità e della
pluralità che da sempre contraddistinguono il panorama italiano. Ma
riflettendo sulla teoria, sui principi fondamentali, non so se,
invece, non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini
temporali di conservazione/ innovazione.
Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull’eguaglianza come
stella polare a sinistra? In una società sempre più
individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei
social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano,
creando e distruggendo comunità e identità? Come recuperare, dopo
anni di diffidenza, anche tra i progressisti, idee come “merito”
o “ambizione”? Come evitare che, in un paesaggio sociale tanto
mutato, la sinistra perda contatto con gli “ultimi”, legata alle
fruste teorie anni sessanta e settanta, mentre papa Francesco con
calore riesce a parlare la lingua della solidarietà? Certo,
l’eguaglianza — non l’egualitarismo — resta la frontiera per
i democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato da disparità
di diritti, reddito, cittadinanza. Eppure era stato lo stesso Bobbio,
proprio mentre scandiva quella sua storica dicotomia, a rendersi
conto che forse la sua argomentazione aveva bisogno di un’ulteriore
dimensione, un diverso respiro temporale, un’altra profondità.
«Nel linguaggio politico — scrive Bobbio — occupa un posto molto
rilevante, oltre alla metafora spaziale, quella temporale, che
permette di distinguere gli innovatori dai conservatori, i
progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole
dell’avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile
luce che vien dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che
ha dato origine alla coppia destra-sinistra non possa coincidere, in
uno dei significati più frequenti, con quella temporale».
Ecco perché, venti anni dopo il monito di Bobbio, è maturo il
tempo per superare i suoi confini, modificati e resi frastagliati dal
mondo globale, come insegnano Ulrich Beck e Amartya Sen. Serve una
narrazione temporale, dinamica, più ricca. Che non dimentichi radici
e origini, sempre da mettere in questione, da problematizzare, ma
che, soprattutto, faccia i conti con i tempi nuovi che ci troviamo a
vivere, ad attraversare. Aperto/chiuso, dice oggi Blair. Avanti/
indietro, chissà, innovazione/conservazione.
E, perché no, movimento/stagnazione. Se la sinistra deve ancora
interessarsi degli ultimi, perché è questo interesse specifico che
la definisce idealmente come tale, oggi essa deve avere lo sguardo
più lungo. Le sicurezze ideologiche del Novecento, elaborate
sull’analisi di un mondo organizzato in maniera assai meno
complessa di quello contemporaneo, rendevano più semplice il compito
della rappresentanza delle istanze degli ultimi e degli esclusi, e
del governo del loro desiderio di riscatto. A blocchi sociali
definiti e compatti bisognava dare cittadinanza, affinché
condizionassero le decisioni sul futuro delle comunità nazionali di
cui erano parte. Per la sinistra che, dopo Bad Godesberg, si
organizzava in Europa in partiti socialdemocratici postmarxisti (e
anticomunisti) era un compito certo faticoso, ma lineare nel suo
meccanismo di funzione politica.
Oggi quei blocchi sociali non esistono più ed è un bene che sia
così! In fondo tutta la fatica quotidiana del lavoro della sinistra
socialdemocratica, cara a Bobbio, era stato quello di scardinare quei
blocchi. Allo scopo di offrire agli uomini e alle donne, che erano in
quei blocchi costretti, l’opportunità di una vita materiale meno
disagevole e di un’esistenza più ricca di esperienze. Con
l’invenzione del welfare quella sinistra aveva provveduto a sfamare
le bocche e gli animi degli ultimi e degli esclusi, liberandoli dal
bisogno materiale — libertà fondamentale anche per la sinistra
liberaldemocratica americana di Franklin D. Roosevelt — e fornendo
loro l’occasione di realizzare se stessi. L’invenzione
socialdemocratica del welfare aveva così conseguito due obiettivi
storici. Da un lato, difatti, il welfare aveva soddisfatto la
sacrosanta richiesta di maggiore giustizia sociale. Dall’altro,
tuttavia, il miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli
ultimi aveva determinato un beneficio generale per tutte quelle
comunità democratiche che non avevano avuto timore di rispondere
“Sì!” alla loro domanda di cambiamento.
La sinistra cara a Bobbio, quella socialdemocratica e
anticomunista, ha insomma vinto la sua partita. Ma oggi ne stiamo
giocando un’altra. Quei blocchi sociali che prima rendevano tutto
più semplice non ci sono più. Gli stessi confini nazionali che
erano il perimetro entro cui si giocava la partita dell’innovazione
del welfare sono ormai messi in discussione. Più che con blocchi
sociologicamente definiti entro Stati nazionali storicamente
determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da
gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche
sociali irrequiete. I confini nazionali non delimitano più gli spazi
entro i quali le nuove dinamiche giocano la loro partita.
Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed
economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere
coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il
costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una
benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario,
irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della
diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece
spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura. Sembra non
rendersi conto che il nuovo mondo in cui tutti viviamo è anche il
frutto del successo delle proprie politiche, dei cambiamenti occorsi
nel Novecento grazie alla sua iniziativa. Perché l’innovazione,
quando ha successo, produce un ambiente diverso da quello da cui si è
mosso. Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più
hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l’incarico più
gravoso di tutti. Eppure non cambiare se stessi, in una realtà che
si è contribuito a cambiare, condanna all’incapacità di
distinguere i nuovi ultimi e i nuovi esclusi, e all’ignavia di non
mettersi subito al loro servizio. Che è proprio quanto successo alla
sinistra di tradizione socialdemocratica al cospetto delle sfide del
secolo nuovo.
La sinistra è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il
movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe
vanamente fare appello a blocchi che non esistono più e che è un
bene non esistano più! In Italia, più che altrove, la capacità
della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che
interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare
loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante
movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è
il compito del Partito democratico. È la missione storica della
sinistra.