Corriere della Sera
Michele Salvati
In un
recente articolo ho usato la metafora della sesta fatica di Ercole —
la meno eroica ma la più difficile — per dare un’idea della
situazione in cui si trova chi voglia tornare a far crescere il
nostro Paese. Per ripulire le stalle di re Augia, Ercole ricorse a un
metodo drastico: deviò due fiumi e ne fece passare le correnti
attraverso le stalle. Un metodo rapido e efficace. Un metodo
altrettanto rapido ed efficace non esiste per l’Italia: una
corrente vorticosa, insieme alla sporcizia, si porterebbe via le
stalle. Fuor di metafora, ci porterebbe al disastro. E questo per due
motivi principali.
Il primo è per la situazione
internazionale in cui viviamo e per i trattati che abbiamo
sottoscritto in sede europea. In gran parte degli economisti è ormai
prevalente la convinzione che la moneta unica, e le regole che la
disciplinano, siano state un errore, e che l’austerità che esse
inducono condannino l’intera Europa, ma soprattutto i Paesi meno
efficienti e competitivi, a una progressiva asfissia. Ma non potremmo
uscire dalla gabbia dei trattati? Certo, questo non risolverebbe il
problema della scarsa efficienza del nostro sistema-Paese e le
riforme sarebbero ancora necessarie se si ambisce a una crescita non
effimera; ma intanto potremmo respirare e distribuire l’impoverimento
che consegue a ogni svalutazione su tutti i cittadini, e non solo sui
lavoratori, che è quanto ora stiamo facendo. Questo suggerimento non
viene solo dall’estrema sinistra, o da incompetenti di economia.
Viene anche da un noto rappresentante dell’«ideologia tedesca»,
direttore del più importante istituto di ricerca economica del suo
Paese, Hans-Werner Sinn: ma anche il suo ponderoso e documentato
libro (The Euro Trap, Oxford University Press) non risponde
all’interrogativo se la catastrofe finanziaria che conseguirebbe al
solo sospetto che alcuni importanti Paesi intendono uscire dalla
moneta unica non sia assai peggio dell’asfissia in cui ci troviamo:
allora sì che il vortice delle fughe di capitali, della
speculazione, dei fallimenti bancari, si porterebbe via le nostre
fragili stalle. Per fortuna non credo che Renzi, per quanto a volte
dia l’idea di volersi staccare dalle gonne della Merkel — e fa
bene a darla — abbia l’intenzione di staccarsi dai pantaloni di
Draghi.
Ma
perché sono così fragili le nostre stalle e così poco adatte a
misure di rafforzamento rapide e risolutive, misure che ci
consentirebbero di essere competitivi e crescere anche sotto la
disciplina della moneta unica? Lo sono perché sono piene di crepe da
tutte le parti, perché le inefficienze sono diffuse in quasi tutti i
comparti del nostro sistema-Paese. È dal fallimento del
centrosinistra, da più di quarant’anni, che l’Italia vive alla
giornata, che la lotta politica riguarda non diversi progetti di
futuro ma diverse modalità di ottenere — a spese dello Stato e
gonfiando la spesa corrente — un consenso elettorale nel presente.
E anche quando si ruppe l’infausto equilibrio politico della Prima
Repubblica, e i primi otto anni di moneta unica ci regalarono risorse
eccezionali a seguito del crollo dei tassi di interesse, queste
furono sprecate per ottenere consenso, non per mettere in sicurezza
il Paese. E poi, nel 2008, è arrivata la crisi finanziaria americana
e la festa è finita.
Dunque crepe da tutte le parti, non un
singolo grande ostacolo su cui concentrare le scarse risorse di cui
disponiamo, ma numerose inefficienze e ingiustizie (le due vanno
spesso insieme) da affrontare con un doloroso bisturi, e non con una
semplice sciabolata. Inefficienze e ingiustizie nel settore pubblico
e privato: nel regime fiscale, nella scuola, nella giustizia, in
quasi tutti i comparti della pubblica amministrazione, nella
legislazione sul lavoro e sul welfare, nelle imprese e nel sistema
finanziario, nel Mezzogiorno — e sarebbe impietoso continuare —
tutte dovute all’assenza di un progetto di futuro che avrebbe
consentito un lavoro continuo di manutenzione, di indirizzo e
investimento. Ora la manutenzione ordinaria si è trasformata in
straordinaria, di grasso che cola ce n’è poco, e il bisturi ancor
più doloroso. E soprattutto i tempi in cui le riforme manifesteranno
i loro effetti benefici saranno molto lunghi se l’austerità
europea non viene rapidamente rovesciata, il che è improbabile: gli
effetti di quarant’anni di vista corta, avrebbe detto Tommaso
Padoa-Schioppa, non si cancellano in un breve periodo. La difficoltà
nel far passare le riforme, la lentezza dei loro tempi,
l’impossibilità di presentare risultati tangibili subito, sono una
dannazione per un politico che voglia mantenere un continuo consenso
elettorale, inducendolo a strafare con presenzialismo mediatico e
annunci. Uno strafare che spesso dà fastidio anche a me.
Questa è la situazione in cui si trova
Renzi e, se non mi sorprende la reazione dei rottamati, degli
spodestati, degli aggrediti — ex leader, sindacati, mandarini di
Stato, giudici, settori dell’imprenditoria — un poco mi
meraviglia lo scarso sostegno dei principali organi d’opinione.
«Nella pentola che bolle c’è solo acqua», titola Scalfari il suo
articolo di domenica scorsa. Ma, appunto, l’acqua bolle ed è
predisposta a cuocere le riforme che Renzi ha già lanciato o
annunciato, elettorali, costituzionali, del lavoro, della pubblica
amministrazione. E non sono acqua fresca — al contrario, bollente —
le battaglie che Renzi sta conducendo nel suo partito. Se avranno
successo, trasformeranno un raggruppamento conservatore di ex
democristiani ed ex comunisti in un moderno partito di sinistra
europea, come aveva tentato di fare Veltroni: del tutto condivisibile
l’editoriale di Angelo Panebianco domenica scorsa sul Corriere. E
infine il disegno strategico è chiaro, ivi incluso l’accordo
politico con Berlusconi: sta ora al centrodestra darsi una forma che
gli consenta di combattere efficacemente con il Pd nel contesto
bipolare e nel modello costituzionale che hanno deciso di costruire
insieme.
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