Claudio Cerasa
Il Foglio 10 giugno 2015
La via giudiziaria alla legalità non
basta e non funziona. La chiave giusta per prevenire mazzette e
cravattari riguarda il funzionamento del mercato più che il codice
penale. Per tutto il resto ci sono gli scoop sulle caldarroste.
A forza di fare i giornali con lo
spirito di chi deve riempire le pagine del proprio quotidiano con la
certezza unica di non aver lasciato per strada un solo stralcio di
una qualsiasi intercettazione contenuta in una qualsiasi pagina di un
qualsiasi fascicolo giudiziario si perdono spesso di vista i problemi
veri e si finisce per ripetere a pappagallo quello che ci viene
offerto ora dai magistrati ora dagli osservatori mainstream. La
cantilena la conoscete tutti. Oddio, c’è la mafia a Roma. Oddio,
la corruzione dilaga, la politica è compromessa, non si salva
nessuno, il più pulito ha la rogna e l’Italia – si dice citando
sempre una qualche affidabilissima ricerca internazionale – è
ormai messa peggio del Botswana. Anche questa volta, di fronte
all’inchiesta su Mafia Capitale, la reazione pigra è sempre la
stessa. E di fronte a un paio di cravattari che tirano su due spicci
in combutta con un paio di consiglieri comunali di terza categoria si
osserva con intensità il dito dimenticandosi della luna indicata dal
dito. E dunque, via, tutti insieme, sempre citando il Botswana: so’
tutti ladri, aho, anvedi come rubano, guarda come magnano, sta a
vede’ che mo’ viene giù tutto, ’a regggione, er comune, e pure
er cupolone. Hai visto? Avemo una città in mano ai caldarrostari.
“Così non stai a
fa’ giustizia, stai a fa’ pubblicità”, ci dice Pennacchi Le
comiche di mafia capitale Marino, Roma e la “V” di vacca Perché
Renzi vuole far dimettere Marino, "spontaneamente" Roma
senza più potere Se questa è mafia Chi si occupa però del dito,
riempiendo di morbose intercettazioni le pagine dei propri giornali,
ancora una volta dimentica di affrontare un punto che se proprio
bisogna parlare dell’inchiesta cravattari & capitale ci sembra
un filo più interessante della storia della mafia da quattro soldi.
E quel tema, quel punto, è presto detto: ma perché in un paese come
l’Italia, che ha offerto ai magistrati poteri straordinari per
combattere tanto l’illegalità quanto l’immoralità la
corruzione, dopo vent’anni di grandi e clamorose battaglie
combattute dalle procure fuori e dentro le aule del tribunale non si
riesce a estirpare la corruzione? E perché, insomma, come ha detto
bene sabato scorso il presidente dei giovani industriali Marco Gay,
“la via giudiziaria alla legalità non è riuscita a restituirci un
paese che funziona come vorremmo?”. I pigri che pensano che fare
informazione significhi utilizzare i giornali come buca delle lettere
delle procure risponderebbero che ’a politica è ’na schifezz’,
so’ tutti corrotti, fanno tutti vomitare, il più pulito c’ha la
rogna, e dunque meglio il Botswana. A voler però affrontare il tema
alzando anche di poco lo sguardo sopra il pelo dell’acqua si può
dire che, senza allontanarsi troppo da Roma, le inchieste piccole e
grandi che riguardano la corruzione ci offrono non solo uno spaccato
di una politica corrotta (ovvio che c’è) ma ci offrono anche uno
spaccato di istituzioni che in questi anni hanno scambiato la lotta
alla corruzione per una battaglia meritevole di essere combattuta
solo con la lente distorta del codice penale. Scemenze. Er problema,
come direbbe il saggio, è più complesso e riguarda l’humus sul
quale matura la corruzione – la mucca da mungere, come
direbbe Salvatore Buzzi. E il punto è proprio qui: la mucca esiste,
eccome se esiste, e il fatto che sia così gonfia e facilmente
vulnerabile è un problema persino più interessante della caccia ai
corrotti e ai corruttori.
Nel caso di Buzzi e Carminati il tema è
chiaro ed è ovvio che in un sistema come quello del comune di Roma
in cui la politica (vedi alla voce municipalizzate) ha il predominio
sull’economia esistono meno anticorpi per evitare gli sprechi e per
razionalizzare le risorse pubbliche. E non è certo un segreto dire
che in un sistema competitivo che tratta il denaro come una risorsa
preziosa e non come una paghetta della mamma combattere gli sprechi
risulta essere un modo come un altro per tenere a debita distanza le
mani della criminalità. E non lo diciamo noi. Lo dice, con parole
definitive, un gustoso studio della Banca d’Italia firmato nel 2014
da De Angelis, De Blasio e Rizzica, “The effects of EU funding on
corruption”, che sostiene quanto segue.
Scrivono gli economisti di Bankitalia:
“La corruzione, associata allo stanziamento di fondi strutturali
europei, è stata minore nei comuni con amministrazioni
particolarmente efficienti nella produzione di beni e servizi e in
quelli in cui è più alta la partecipazione dei cittadini alla vita
politica e più intenso il controllo sugli amministratori locali”.
Da questo punto di vista, senza voler generalizzare ma volendo fare
un discorso più generale, in Italia l’intreccio tra comuni e
municipalizzate è spesso uno specchio sufficientemente fedele di un
mondo dove la corruzione può proliferare: il 97 per cento degli
8.058 comuni italiani detiene quote del capitale sociale di una o più
imprese e come ricordato lo scorso anno dall’ex commissario alla
spesa pubblica Carlo Cottarelli “la banca dati del dipartimento del
Tesoro del ministero dell’Economia ha censito 7.726 partecipate
locali al 31 dicembre 2012, anche se non si conosce il numero esatto
delle partecipate perché non tutte le amministrazioni locali
forniscono le informazioni richieste e perché le banche dati
esistenti si fermano ad un certo livello di partecipazione…”. C’è
questo tema, ovviamente, ma se in Italia la corruzione è un fenomeno
che non si riesce a sradicare, e se la via giudiziaria alla legalità
non è riuscita a restituirci un paese che funziona come vorremmo,
non è solo per la mucca che ha molto latte da offrire ma è anche
perché è innegabile che esista una parte del paese che qualche
volta vede nella corruzione una via alternativa al malfunzionamento
dello stato.
E’ un’esagerazione? Un elemento
utile a completare la nostra riflessione è offerto da un intervento
interessante fatto alla fine del 2014 dal presidente dell’Autorità
garante della concorrenza e del mercato Giovanni Pitruzzella che da
un certo punto di vista spiega meglio di un’intercettazione
ambientale quel che non si dice e si dovrebbe dire di fronte alle
notizie su inchieste come quella di Mafia Capitale. “In Italia, le
cause della dilagante corruzione possono essere individuate
sostanzialmente nell’ipertrofia della burocrazia, nell’eccesso e
complicazione delle regole e nel basso livello di diffusione della
cultura della legalità soprattutto nel mondo degli affari…
L’eccesso di oneri e di controlli per l’avvio e l’esercizio di
un’attività d’impresa facilita l’emersione e la diffusione di
condotte illegali poiché riconosce ai burocrati un ampio potere nei
confronti dell’impresa, la quale per accelerare il proprio ingresso
sul mercato e/o rendere più agevole la propria operatività sarà
maggiormente propensa a sperimentare la via della corruzione…
Effetti analoghi produce la complicazione normativa, che spesso è
causa dell’eccesso di oneri burocratici. In ordinamenti in cui le
regole sono poche, chiare e piuttosto stabili nel tempo sono
tendenzialmente minori gli spazi per comportamenti illeciti, mentre
maggiore è lo sviluppo economico. Regole poco chiare e
stratificazioni normative che rendono difficile l’individuazione
della norma concretamente applicabile aumentano, di contro, la
discrezionalità creando un terreno fertile per il proliferare di
comportamenti elusivi della legge e per l’aumento delle occasioni
di corruzione”.
Ricapitoliamo: eccesso di potere
offerto a municipalizzate spesso fuori mercato, passaggi burocratici
deliranti, politiche insufficienti per promuovere la concorrenza,
spreco folle di denaro pubblico e convinzione diffusa che sia
sufficiente un Di Pietro, un Borrelli, un Cantone o un’alleanza con
i cinque stelle per combattere l’illegalità ed estirpare per
quanto possibile la corruzione. Tutte ragioni per cui la via
giudiziaria – come ha detto sabato scorso ancora Marco Gay con
parole che sottoscriviamo – “non è riuscita a cancellare le
varianti che fanno salire a dismisura i costi degli appalti, né i
miliardi programmati e non spesi, non ha razionalizzato la spesa
sanitaria o posto fine alle nomine politiche nelle Asl, né abbattuto
il costo e il numero delle partecipate locali. La via giudiziaria
alle Mani pulite ha distrutto qualche partito, ma ne ha creato
qualche altro. Ha fatto fallire qualche azienda e cambiato qualche
consiglio di amministrazione, ma alla fine non siamo stati capaci,
una volta conclusa, di dare vita a un nuovo corpo sociale e a un
nuovo modo di intendere il rapporto fra impresa, istituzioni e
politica”. Questo è il punto. E ora mi raccomando sotto con le
caldaroste di Buzzi e Carminati.
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