Corriere della Sera 14/06/15
Alan Friedman
La settimana scorsa, a cena a New York
City, mia madre, che ha novant’anni e ha votato per tutta la sua
vita per il Partito democratico, mi ha spiegato perché ha deciso di
non dare la sua preferenza a Hillary Clinton nel 2016. Che la signora
Clinton sarà il candidato dei Democrats è scontato, vista la
mancanza di rivali credibili. La sua nomina, in America, è
considerata inevitabile. Ma come mai mia madre e milioni di altri
elettori democratici dicono che non voteranno per Hillary?
«È
una persona fasulla, finta», spiega senza mezzi termini mia madre.
La quale, in effetti, fa parte di quel 52 percento di americani che
ha dichiarato, in un recente sondaggio Washington Post-Abc, che di
Hillary non si fidano, che pensano che l’ex first lady non sia una
persona onesta. L’ultimo sondaggio mostra un calo senza precedenti
nei consensi. Solo il 41 percento degli americani pensa che Clinton
sia onesta e affidabile. Quando si pone la stessa domanda riguardo a
Jeb Bush, il fratello dell’ex presidente George W., che domani
formalizzerà la sua candidatura, almeno il 45 percento crede che lui
sia onesto. Eppure, quando si chiede chi dei due capisca meglio i
problemi della gente comune, la risposta è favorevole a Hillary per
il 49 per cento, e solo per il 35 al candidato dei Repubblicani.
Al di là dei numeri, con l’arrivo di Jeb Bush nella corsa per la
Casa Bianca si rischia di alienare ancora di più elettori americani,
che non gradiscono lo spettacolo di una gara tra le due dinastie dei
Bush e Clinton. Negli Usa, i politologi la chiamano «
Dynasty-fatigue », l’«affaticamento da dinastie». E anche nel
Partito repubblicano c’è chi non vuole Jeb Bush — non a causa
del suo cognome, ma perché non è considerato abbastanza di destra
sulle questioni sociali.
Per Hillary, lo scetticismo è il
risultato di diversi fattori: la sua percepita tergiversazione sulla
pubblicazione delle email inviate mentre era segretaria di Stato è
un elemento; il fatto che abbia votato a favore dell’invasione
dell’Iraq rappresenta per lei un altro problema. I presunti
contributi alla Clinton Foundation da parte di Qatar, Arabia Saudita
e altri Paesi, e la sua spettacolare raccolta fondi da due miliardi
di dollari suscitano sospetti. La nota prossimità tra la famiglia
Clinton e i capi di Wall Street, poi, è un altro fatto che non
aiuta. E c’è infine una questione di simpatia umana — o, nel
caso dell’ex first lady , della sua mancanza.
Quando Hillary
Clinton va in giro per la campagna elettorale, non c’è nulla di
naturale o spontaneo. Persino la trattoria in Iowa dove si ferma per
un panino è scelta con molta cura. Spesso, in persona e nei suoi
video spot super patinati e costosamente prodotti, Hillary appare
come una politica cinica, senza principi e disposta a dire qualsiasi
cosa a qualunque lobby pur di farsi eleggere. La signora ha cercato
di rendersi più simpatica ieri, ad una grande kermesse sulla
Roosevelt Island, a New York City. Ha anche cercato di delineare una
linea politica abbastanza semplice ma populista, predicando contro i
privilegi per pochi e attaccando «i miliardari» e i banchieri di
Wall Street che sono, tra l’altro, fra i suoi più grandi
supporter.
La questione della simpatia non va sottovalutata. Jeb
Bush è molto meno preparato ma è più simpatico. Hillary dà spesso
l’idea di vivere la campagna elettorale come un calvario, un male
necessario per arrivare alla Casa Bianca. Talvolta si vede bene che
si sforza di sorridere.
L’antipatia suscitata da Hillary deriva
anche dal fatto che sta raccogliendo quasi due miliardi per
alimentare una macchina da guerra con pochi precedenti: la macchina
elettorale della famiglia Clinton. Questi soldi verranno in gran
parte raccolti da Wall Street e da quella che viene definita
«Corporate America», e cioè da quasi tutti i settori industriali e
finanziari degli Stati Uniti. Le critiche a Hillary su questo tema
arrivano dalla sinistra del suo partito, per cui il suo momento di
demagogia contro Wall Street ieri sembrava una mossa ben studiata.
Ora, poi, arriva Jeb. Nel Partito repubblicano, a oggi, non è
affatto sicuro che il fratello di Bush vincerà le primarie. Il campo
è pieno di candidati alternativi e forse più attraenti, come Marco
Rubio, il senatore della Florida. Ma alla fine credo che la spunterà
Bush, anche perché avrà più soldi da spendere nella campagna.
Mancano però ancora più di 500 giorni al voto del novembre 2016,
quindi qualunque cosa può ancora accadere.
Se l’anno prossimo
Jeb Bush dovesse emergere come il candidato repubblicano, credo che
sarà comunque Hillary, simpatica o meno, a vincere la gara per la
presidenza. Di poco, però: e in una « horse race », in un
fotofinish della politica americana. Sarà una specie di Derby delle
Dinastie.
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