Riccardo Imberti
27 giugno 2015
Dopo le elezioni amministrative succede
che personaggi che hanno criticato pesantemente Renzi e il nuovo
corso del PD si stiano sfilando. Certo se il risultato delle
amministrative fosse stato diverso sono convinto che ciò non sarebbe
successo.
Ogni volta che qualcuno se ne va non è
un bel segno. Ma leggendo le motivazioni di Fassina ho capito che per
lui la nascita del PD doveva essere la continuità delle sigle e non
la creazione di una nuova esperienza politica che, facendo tesoro
della storia dei partiti di provenienza, avesse il compito di
superare le esperienze precedenti per creare un nuovo partito capace
di affrontare le sfide del terzo millennio, superando i limiti della
cultura politica del '900.
Anche altri non erano convinti
dell'operazione, ma, vista la crisi del consenso tradizionale, se ne
fecero una ragione e si adeguarono. Fermandosi allo slogan di
superare la "fusione a freddo". Dopo la prima fase a guida
Veltroni tante energie nuove, che avevano condiviso la scelta del PD
come forza riformista, si sono allontanate perché le facce non
cambiavano e nei territori e nei circoli dominava la spartizione
delle cariche tra DS e Margherita.
Anche il PD di Veltroni non ha
raggiungo risultati immediati, facendo svanire molti consensi
interni. I deludenti risultati delle elezioni politiche del 2013
hanno confermato che si rendeva necessario un cambiamento alla stessa
guida di Bersani, un cambiamento radicale. Il congresso ha assegnato
a Matteo Renzi un suffragio larghissimo per la sua determinazione al
cambiamento.
Ora, dopo un anno e più di governo,
Renzi sta mettendo in pratica le cose che aveva detto di fare, ma
sembra che le riforme nel nostro Paese siano tabù. Qualsiasi
comparto intendi riformare oppone una accanita resistenza, senza
parlare dei sindacati - in particolare della CGIL - specializzati nel
dire di no.
Un amico in questi giorni mi diceva che
Renzi fa bene a forzare la mano sulle riforme perché questo Paese
rischia di morire. Il problema - continuava l’amico - è che deve
trovare il coraggio di pensare al futuro dell'Italia e non alle
prossime scadenze elettorali. Renzi in qualche modo sta procedendo in
questa direzione, visto che ha fatto più cose lui in questo anno e
mezzo di quanti lo hanno preceduto in venti anni, ma pare che ciò
non basti.
La questione è anche legata al fatto
che le cose cambiate non producono risultati immediati e la gente
vuole vederli.
Per queste ragioni i “partiti contro”
stanno aumentando i loro consensi, ma basterebbe volgere lo sguardo
alla Grecia per capire che la strada del no è strettissima. Pare
che circa la metà del partito del leader greco contesti la bozza di
programma base per l’accordo in Europa. Il tandem che contesta oggi
Tsipras, Lafazanis-Lapavitsas, preferirebbe uscire dall’euro
piuttosto che chiedere altri sacrifici ai greci. Altro che alzare
l’Iva e prelevare una percentuale dalle pensioni e dagli stipendi
superiori ai trentamila euro. Non si voleva assicurae la fine
dell’austerità? Una cosa sono le promesse elettorali, altra la
realtà, come sanno bene tutti i governanti d’Europa. Il contesto
europeo e internazionale hanno regole che vanno tenute di conto per
mantenere la credibilità del proprio Paese.
Le sfide per noi sono ancora grandi: il
terrorismo, l'immigrazione con gli sbarchi quotidiani e la
moltitudine di disperati che arrivano da noi, la questione
morale e la corruzione che tarda ad essere fermata, l'economia che
troppo debolmente sta riprendendo.
Il PD e Renzi non intendono rinunciare
a cambiare questo Paese, al contrario paiono determinati ad
esercitare fino in fondo la responsabilità che gli italiani
hanno loro assegnato; se saranno in grado di farlo, come io mi
auguro, allora l'uscita di Civati e Fassina, per quanto spiacevole,
assume la dimensione che merita, indipendentemente da qualche
titolo di prima pagina in ossequio alla polemica di qualche
giornalista.
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