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intervista di Pierluigi Mele
Dopo il voto delle regionali il PD si
sta interrogando, con forte tensione, sulle cause di questa “brutta
vittoria”. Ne parliamo con Giorgio Tonini, vice-presidente del
gruppo PD al Senato.
Senatore Tonini, il test elettorale
delle regionali segna, al di là del dato numerico (5 a 2 a favore
del PD), una battuta d’arresto della forza propulsiva di Renzi. La
clamorosa sconfitta della Paita in Liguria e quella della Moretti in
Veneto pongono problemi politici pesanti. Cosa non ha funzionato?
Lei dice “al di là del dato
numerico”. E certo non possiamo fermarci al 5 a 2. Ma non possiamo
neppure prescinderne. In qualunque paese del mondo, un partito di
governo che, a più di un anno dal suo insediamento, a luna di miele
col paese ormai dimenticata, nel pieno di riforme difficili,
controverse e conflittuali, spesso proprio con la propria costituency
elettorale, rafforzasse o anche solo mantenesse il suo primato nei
poteri locali, verrebbe considerato un vincitore e non uno sconfitto.
Il Pd oggi governa 17 regioni italiane su 20. Abbiamo perso la
Liguria, ma conquistato la ben più popolosa Campania. Molti
vorrebbero perdere sempre così. I nostri cugini socialisti francesi,
che con Hollande e Valls governano a Parigi, si sono svegliati terzi
alle elezioni amministrative, dopo il centrodestra di Sarkozy e la
destra di Le Pen. Noi ci siamo svegliati con qualche livido, ma
ancora primi. Detto questo, è evidente che abbiamo avuto due
sconfitte, certamente gravi. La più grave in Veneto, perché lì
eravamo tutti uniti, mentre la destra si era divisa, e ciò
nonostante siamo andati indietro, molto indietro, rispetto alle
europee. L’altra sconfitta, quella in Liguria, è invece in gran
parte figlia delle nostre divisioni interne: divisi, siamo stati
battuti da un centrodestra che, per quanto unito, si è fermato sotto
il 35 per cento. Due sconfitte e cinque vittorie. Io la chiamo, vista
nel suo complesso, una brutta vittoria, una vittoria ai punti,
rispetto alla bella vittoria per ko delle europee. Ma una brutta
vittoria è sempre meglio di una bella sconfitta.
Qualunque vittoria sarebbe peraltro
una vittoria dimezzata, in presenza di un così elevato tasso di
astensione, che ha sfiorato stavolta il 50 per cento. Non crede che
il Pd abbia fin qui sottovalutato questo fenomeno? Non sarebbe ora di
interrogarsi su di esso in modo meno rituale e superficiale?
Sono d’accordo con lei. Penso anche
che a poco servano recriminazioni e lamentazioni. A mio modo di
vedere, nell’astensione di domenica scorsa si sono saldate tre
componenti. La prima, quella di fondo e di lungo periodo, ha a che
fare con la secolarizzazione della politica. Su questa questione, che
da decenni interroga i filosofi e i sociologi della politica, c’è
poco di nuovo da dire e forse anche poco da fare. La seconda
componente, più recente (in Italia la sua comparsa ha coinciso con
la crisi della seconda Repubblica e della guerra civile fredda tra
berlusconismo e anti-berlusconismo), ha alla base la protesta contro
la “casta” dei politici, più che la politica come tale. Su
questo versante i rimedi sono chiari: bisogna completare l’opera di
disboscamento della gìungla dei privilegi dei politici, sapendo
peraltro che neppure questo sarà sufficiente, se non si riuscirà a
dimostrare che la politica può riuscire a cambiare in meglio le
cose, la vita concreta dei cittadini. Il Pd e il governo Renzi su
questa scommessa si giocano il futuro. Infine, la terza componente,
misurabile in un buon 10-15 per cento, esprime il distacco radicale
rispetto all’istituzione regione in quanto tale. Non a caso, nelle
città dove si votava per i sindaci, la percentuale di partecipanti
al voto è salita ben oltre il 60 per cento. E oltre il 60 era stata
la partecipazione alle europee, segno che l’Europa, nel bene e nel
male, coinvolge le menti e i cuori degli italiani più delle regioni.
Credo che in particolare su quest’ultima componente del non voto
sia urgente una riflessione e un piano d’azione, per rilanciare la
credibilità dei governi locali, la loro funzione democratica, che
oggi se forse non è ancora compromessa, è indubbiamente assai
appannata. La riforma del Senato e del titolo V deve essere
l’occasione per questo rilancio.
Quello che si è notato, prendendo i
due casi emblematici (Campania e Liguria), è la distanza tra la
realtà nazionale e il livello locale. Insomma il gruppo dirigente
nazionale è parso debole nell’imporre i criteri della
rottamazione. Così siete andati al voto da una parte (Liguria) con
un candidato debole, Paita, che rappresentava la continuità con
Burlando, e dall’altro con “l’impresentabile” De Luca che vi
creerà, con la sua vittoria, non pochi problemi. Insomma oltre al
dato politico emerge una “insipienza” politico-organizzativa. Non
è venuto il tempo di superare la “cultura dell’uomo solo al
comando”?
Se davvero ci fosse, nel Pd, un uomo
solo al comando, Renzi avrebbe potuto scegliere i candidati a sua
immagine e somiglianza. Come faceva Berlusconi. Ma il Pd non è Forza
Italia. Lì, per statuto, è (o era) il leader a scegliere i
candidati, tutti i candidati. Noi siamo un’altra cosa. Da noi i
candidati li scelgono i cittadini con le primarie. E così è stato
anche stavolta. A parte i due uscenti, che non sono stati sottoposti
a primarie perché nessuno li ha sfidati, Rossi in Toscana e la
Marini in Umbria (peraltro né l’uno né l’altra definibili come
renziani, ma semmai lealmente e apertamente collocati nel partito su
opposte sponde rispetto al segretario), tutti e cinque gli altri sono
stati scelti con la partecipazione decisiva di centinaia di migliaia
di nostri elettori. Neppure le primarie sono un sistema perfetto.
Vincere le primarie non garantisce la vittoria alle elezioni. Ma noi
non ci chiamiamo Partito democratico per finta. E Renzi, e con lui
tutti noi, ha fatto campagna elettorale per sette candidati che, alle
primarie nazionali del 2012, avevano tutti sostenuto Bersani e non
lui. E lui li ha sostenuti, tutti e sette, perché erano i nostri
candidati, i candidati del Pd, scelti dai nostri elettori con le
primarie. Detto questo, è evidente che c’è un problema, grande
come una casa, di rinnovamento della classe dirigente diffusa: un
rinnovamento che per ora si è in gran parte fermato a Roma e ha solo
lambito i territori. Bisogna dedicarsi con più energia a questo
lavoro, assolutamente fondamentale. Ma nel rispetto del nostro
modello di democrazia, dunque formando e selezionando una nuova
generazione di dirigenti, capace di farsi valere nel confronto
democratico, non imponendo o eliminando qualcuno attraverso un di più
di dirigismo.
Veniamo al quadro interno al PD.
Anche qui ci sono problemi a non finire. Ovvero il ruolo della
minoranza interna. Non le pare che un’altra lezione di queste
elezioni sia quella di recuperare il “metodo Mattarella” (ovvero
la ricerca delle scelte condivise)? Ha qualcosa da dire alla
minoranza?
Come è normale che sia, fa più rumore
un albero che cade di una foresta che cresce. L’albero ligure è
caduto, sotto il peso delle nostre divisioni, e ha fatto molto
rumore. Ma in tutte e sei le altre regioni, il Pd è stato unito,
vincendo in cinque casi e perdendo in Veneto. Dunque, quello che lei
giustamente chiama il “metodo Mattarella”, ovvero la ricerca
delle scelte condivise, se non nel merito, almeno nel metodo
(democratico), è il modo ordinario di vivere e di decidere dentro il
Pd. Perché questo metodo possa funzionare, c’è però bisogno di
richiamare una precondizione: tutti devono sentirsi impegnati dalle
decisioni che, democraticamente, si prendono insieme. Una parte della
minoranza, forse perché non le era mai capitato di non essere
maggioranza, questo principio fa fatica ad accettarlo e rivendica il
diritto di votare come crede nelle assemblee elettive e addirittura
di presentare candidati alternativi alle elezioni. Il problema è che
nessun partito democratico può funzionare così. Su questo punto,
dunque, un chiarimento fra noi è necessario e urgente. Non c’è,
peraltro, solo un problema di metodo. Le vicende interne al Pd hanno
messo in evidenza anche un problema di sostanza, vorrei dire
politico-culturale. Il mito fondativo del Partito democratico non è
l’unità delle sinistre, ma l’unità, si potrebbe dire il
ricongiungimento, dei riformisti, storicamente divisi in partiti e
perfino in schieramenti diversi, in un riformismo nuovo, capace di
confrontarsi in modo positivo con i grandi cambiamenti del nostro
tempo. Per una parte della nostra minoranza, rischiare (e sottolineo
la parola rischiare) un riformismo nuovo, non è adempiere alla
nostra missione di democratici, ma tradire la nostra storia. Così
come sfidare le pigrizie della sinistra conservatrice, politica e
sindacale, è infrangere il mito, duro a morire, nonostante la
nascita del Pd, la lezione di Veltroni e la rivoluzione di Renzi,
dell’unità delle sinistre e del “pas d’ennemis à gauche”.
Su questo crinale, per così dire “ideologico”, è raccomandabile
il massimo rispetto reciproco e un modo di argomentare e discutere
pacato, ma non si può chiedere a Renzi e a tutti noi di
diplomatizzare le differenze, fino a ridurre un sano perché vero
conflitto politico ad una questione di buone maniere.
E veniamo alla vicenda della
Presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi. Lunedì sera, a
“Piazzapulita”, ha chiesto le scuse da parte del PD per come è
stata trattata da alcuni esponenti del suo partito. Un episodio che
brucia sulla “pelle” del suo partito…
Non saprei, può darsi che qualcuno
abbia usato nei suoi confronti qualche parola di troppo. Resta il
fatto che Rosy ha gestito un passaggio delicato e difficile, come la
prima applicazione di un codice di autoregolamentazione ad un
processo elettorale, in modo assolutamente sbagliato. Non lo dico io,
lo hanno detto in modo inequivoco personalità insospettabili come
Saviano o Cantone. Mi permetto di aggiungere che nessuna delle
vicende giudiziarie che riguardano De Luca ha a che fare con la mafia
o la criminalità organizzata. E dunque la sua inclusione in quella
lista di “impresentabili”, peraltro alla vigilia del voto, quindi
negando di fatto a lui e al Pd, come agli altri coinvolti nella
vicenda, qualunque diritto di replica efficace, è stato un colpo
basso che ha inquinato in modo grave il confronto elettorale. Sarebbe
stato inaccettabile nei confronti di un avversario. Nei confronti di
un compagno di partito lascia senza parole.
L’idea del Partito della Nazione è
uscita bocciata dall’esito elettorale. Lo sfondamento a Destra non
c’è stato. E questo impone sicuramente un ripensamento verso una
identità più “ulivista” del partito. E’ così per lei?
Dalle elezioni regionali il Pd esce
confermato nella sua funzione di “partito del Paese”, non solo
perché governa 17 regioni su 20, ma anche e soprattutto perché è
l’unico partito che non si limita a dare voce alla rabbia e alla
paura, magari alimentandole cinicamente, ma cerca di produrre
risposte di speranza attraverso l’azione politica e di governo. È
vero che, rispetto alle elezioni europee, in particolare in Veneto,
ma anche, in misura minore, in Liguria e in Umbria, il centrodestra
ha ripreso parte dello spazio elettorale che gli avevamo sottratto.
Al contrario di tanti, anche nel Pd, che paventavano la nascita del
regime del partito unico renziano, non ho mai pensato che il travaso
di voti dal centrodestra verso di noi fosse irreversibile. Allo
stesso modo, oggi non penso che noi democratici dobbiamo tornare a
considerare irraggiungibili i voti di quel fitto tessuto produttivo,
civile, sociale, culturale, che è la forza di molti nostri
territori, in particolare ma non solo al Nord, e rassegnarci a
rientrare nel nostro tradizionale recinto identitario. Le europee
hanno dimostrato, un anno fa, che quei consensi sono contendibili. E
noi democratici dobbiamo restare coi piedi ben piantati in quella
contesa. Solo in questo modo, peraltro, il Pd può essere il degno
erede della stagione fondativa dell’Ulivo, che fu animata proprio
dallo slancio verso l’unità dei riformisti, alla conquista di
consensi in tutta la società italiana.
Certamente iI vincitore politico è
stata la Lega di Salvini e c’è stata anche la tenuta del movimento
5 stelle, che ha ottenuto risultati rilevanti. Chi deve temere di più
Renzi?
Il politologo Salvatore Vassallo ha
corretto l’analisi del voto proposta a caldo dall’Istituto
Cattaneo e che confrontava le mele dei voti di lista alle regionali,
con le pere di quelli alle europee. Vassallo ha ripreso la più
convincente metodologia, da lui stesso elaborata nell’ambito del
Cattaneo, del confronto tra le performance elettorali, non delle
singole liste, ma di aree politiche omogenee (centrosinistra,
centrodestra, M5S), in modo da tener conto delle diverse modalità
tattiche adottate dalle forze politiche nelle diverse elezioni,
regolate, come è noto, da differenti leggi elettorali. Sulla base di
questo metodo di calcolo, Vassallo conclude che il Pd-centrosinistra
ha avuto una flessione nazionale di circa 5 punti (più che
fisiologica per una forza alle prese con difficili problemi di
governo) e territorialmente concentrata in Veneto e Liguria, che lo
ha portato dal 42,3 per cento delle europee al 37,1 delle regionali.
Al contrario, grazie alla Lega ma non solo, il centrodestra ha
riconquistato quasi 13 punti percentuali, riportandosi al 35,2
rispetto allo sprofondo del 22,4 di un anno fa. Sulla base di questi
dati, è assai probabile che lo sfidante del Pd, alle prossime
elezioni politiche, sia il centrodestra. Anche perché il M5S esce
dalle regionali al 15,7 per cento, quasi 10 punti in meno delle
politiche e quasi 20 sotto l’area di centrodestra. Naturalmente,
per risultare davvero competitivo, il centrodestra deve trovare uno
Zaia nazionale: un federatore capace di rappresentare una proposta di
governo e di assorbire e metabolizzare la Lega di Salvini,
utilizzandone la forza, ma senza cederle la guida. Un’impresa non
impossibile, ma tutt’altro che facile.
Ultima domanda: la legislatura
arriverà al 2018?
Non sono una chiromante e non mi
avventuro in previsioni. Registro solo che il Pd ha tutto l’interesse
ad arrivare al 2018 per cercare di trarre il massimo beneficio, in
termini di consenso, dagli effetti delle riforme, in particolare in
termini di ripresa della crescita e dell’occupazione. Ma anche il
centrodestra ha bisogno di tempo, per gestire un’operazione
difficile come l’uscita di scena di Berlusconi e l’individuazione
di un nuovo assetto e una nuova leadership. Entrambi i principali
schieramenti hanno interesse a completare la riforma costituzionale e
in particolare quella del Senato, senza la quale potremmo trovarci di
nuovo in un Parlamento senza un chiaro vincitore, alle prese con la
formazione dell’ennesimo governo non deciso dagli elettori.
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