Corriere della Sera 20/06/15
Dario Di Vico
Spulciando negli annali si scopre che
il risultato di Alessandra Moretti (22,7%) in Veneto è inferiore
alla sconfitta del Fronte Popolare che nel ‘48 si fermò al 23,9%.
La giornalista Alessandra Carini ha scritto che, visti i candidati,
il Pd avrebbe perso anche contro Topo Gigio. Le analisi sono così
feroci perché solo sei mesi fa il partito di Matteo Renzi esaltava
la raggiunta «contendibilità» del Veneto e il premier validava
quest’analisi con una presenza costante nelle fabbriche e nelle
assemblee confindustriali. Eppure anche stavolta la sinistra ha
segnato il passo in una terra che resta ostile e che sembra
respingerla antropologicamente. La lista degli errori è lunghissima
e le distanze tra centrodestra e Pd appaiono così larghe che anche
un candidato più testato, come il sindaco di Vicenza Achille
Variati, avrebbe perso comunque. Consumato il flop c’è poco da
fare se non costruire un’opposizione di buon senso al governatore
Luca Zaia, che ha promesso un secondo mandato più interventista del
primo dipanatosi all’insegna del quieta non movere.
Ma l’onda
della débâcle veneta si proietta già sul prossimo e più
importante confronto del Nord, la scelta nel 2016 del sindaco di
Milano. Fino a qualche settimana fa c’era la convinzione che il
vincitore delle primarie Pd avrebbe avuto la strada spianata, ora
invece è spuntata la paura perché il ciclo del renzismo vittorioso
si è arrestato e in parallelo sono salite le quotazioni del milanese
Matteo Salvini. Va da sé che la composizione sociale milanese è
assai diversa da quella veneta e il Pd è in questo momento il
partito in sintonia con le trasformazioni di un corpo sociale che,
superate le vecchie classi, può essere mappato solo per grandi
aggregati. Scemato il ruolo della borghesia economico-finanziaria è
la grande galassia delle competenze a ricoprire in città un ruolo
guida e a rilanciare l’idea di una Milano capace di scalare le
graduatorie europee.
Una galassia che ha come esponenti di punta
le archistar, i grandi medici, il top della consulenza d’industria
e persino gli chef e che è molto esigente sulle policy ovvero le
scelte concrete. Non si accontenta di sentir pronunciare ogni due
frasi la parola «innovazione», cerca soluzioni vere per problemi
veri. Il terziario moderno ha però anche una sua faccia in ombra,
quella che corrisponde alle migliaia di freelance attratti dalla
modernità di Milano e che scontano ogni giorno la contraddizione di
possedere alto capitale umano e basso reddito.
Con questi mondi
il Pd dialoga e la Leopoldina dello scorso sabato allo Spazio Ansaldo
ne è stata la riprova. Dialoga mostrando rispetto per le competenze,
incoraggiando i professionisti a partita Iva, facendo proprie tutte
le nuove culture come lo sharing , il movimento dei coworking oppure
le social street che operano su Facebook come nuovi comitati di
quartiere. Accanto ai nuovi segmenti il centrosinistra milanese ha
anche un radicamento tradizionale in un altro grande aggregato
cittadino: l’impiego pubblico della scuola/università, degli
ospedali, degli enti locali e delle municipalizzate. È un popolo che
con il renzismo ha un rapporto conflittuale e alle parole d’ordine
verticali sulle sfide di Milano 2020 preferisce un lessico più
bersaniano, teso a ribadire i valori orizzontali e coesivi della
sinistra. Eppure pur potendo in teoria il Pd sommare ceti innovativi
e tradizionali la partita del consenso a Milano è aperta. La sfida
viene dal basso, dalla geografia sociale del degrado urbano. Milano è
una città cosmopolita che non ha vissuto contrapposizioni radicali
all’immigrazione, ha cercato di metabolizzare i nuovi arrivati come
aveva fatto negli anni 60.
Ci sono però segnali di slittamento
di questa mentalità e il terreno più delicato dove si manifestano è
la condivisione dei servizi. Vale per alcune linee del trasporto
urbano di superficie, per la metro nelle ore del dopocena, vale per
le scuole dove il numero dei bambini italiani e stranieri è in
equilibrio. Vale certamente per la sicurezza. In tutti questi casi
quando la gestione pubblica non riesce ad evitare cadute di qualità
il milanese le vive come segno di una retrocessione e finisce per
reclamare una differenza tra sé e gli stranieri che non vede più.
Non è un rifiuto dell’accoglienza quanto una misurazione severa
dei costi della solidarietà. È ovvio che elettoralmente si tratta
di un terreno fertile per la nuova Lega di Salvini e un test lo
abbiamo già avuto con la propaganda delle ruspe.
Il rischio per
il Pd è di vedere sconfitta la retorica dell’innovazione da un
centrodestra monotematico che punta sull’immigrazione come tallone
d’Achille del renzismo meneghino. E che una volta aggregato il
disagio dei quartieri popolari più esposti parta da questa base per
conquistare l’elettorato moderato e fare bingo.
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