Corriere della Sera 02/06/15
La «non sconfitta» impone una
riflessione profonda e un cambio di passo. La minoranza del Pd non
infierisce e non calca gli accenti, ma dopo la frenata di Renzi prova
a rialzare la testa. C’è la sinistra di Stefano Fassina, che non
condivide l’analisi «trionfalistica» del voto e non è
disponibile «ad andare a sbattere con il Pd». E c’è quella di
Roberto Speranza (e Pier Luigi Bersani) che vuole «stare fino in
fondo nel Pd» e però non rinuncia al sogno di costruire, da dentro,
un’alternativa a Renzi.
«Prima o poi ritornerà il Pd delle
origini — sospirava due giorni fa Bersani, sul Corriere —. Io dal
Pd non me ne vado, io il Pd lo voglio salvare... La battaglia
continua» . E se Gianni Cuperlo non ha alcuna nostalgia della
vecchia «ditta», nella minoranza ex Ds c’è chi non rinuncia al
sogno di riprendere il timone del Nazareno.
Con Renzi
invincibile, l’idea di scalare il partito sembrava pura utopia. Ma
la battuta d’arresto delle Regionali ha galvanizzato la parte più
ribelle della minoranza, che ora aspetta al varco Renzi in Parlamento
e chiede un «cambio di rotta». Come ha detto Bersani, «la riforma
costituzionale deve cambiare...».
Massimo Mucchetti è pronto
alla sfida e sottolinea come il Pd, dai dati dell’Istituto
Cattaneo, «perde due milioni di voti rispetto al 2014 e un milione
rispetto al 2013». Miguel Gotor, nel commentare quella che definisce
«una non sconfitta», consiglia ai renziani «di non fare gli
struzzi» e rimarca che il Pd «ha subito una notevole emorragia di
voti a livello nazionale». L’astensionismo cresce in Regioni rosse
come Toscana, Umbria e Liguria e il senatore bersaniano legge il dato
come un campanello di allarme, quasi la conferma della mutazione
genetica del partito: «Una parte dei nostri non si riconosce nella
trasformazione che Renzi ha impresso al Pd e preferisce fermarsi un
giro».
Per Roberto Speranza «il partito della nazione
indistinto, in cui scompare il confine tra destra e sinistra e ci può
stare dentro tutto, è indebolito». L’ex presidente dei deputati,
che lasciò la poltrona per non votare l’Italicum, ritiene che
sulla scuola il Pd abbia «pagato un prezzo salatissimo». Per il
leader di Area riformista, «il punto è la linea politica» e
adesso, numeri alla mano, si aspetta che Renzi riconosca le
responsabilità e accetti di aggiustare il tiro: «Bisogna
rivendicare le cinque Regioni vinte, ma comprendere che un pezzo
significativo del nostro mondo non ha condiviso le ultime scelte. Il
segretario dovrebbe capire che c’è bisogno di riunire il Pd ed
evitare altre fratture». Per Speranza la scissione non è all’ordine
del giorno e lui, come Bersani, resterà nel Pd «per fare emergere
un punto di vista che non sia schiacciato su Renzi». Il motto dei
riformisti? «Autonomia e responsabilità».
Anche per Rosy Bindi
il partito della nazione è in frenata e Renzi salverà la «ditta»
solo tornando all’Ulivo. Nessuno ovviamente gioisce per i voti in
fuga, ma è evidente come la minoranza del Pd abbia tutto l’interesse
a leggere in negativo i numeri per accorciare il divario tra il Pd di
Bersani e il Pdr, il partito di Renzi. «Siamo tornati al 25 per
cento» sottolineano in tanti, rievocando il mantra con cui la
maggioranza ha picchiato duro sui bersaniani, da quando alle Europee
il Pd toccò la vetta del 40,8%. Ora Renzi ha quasi dimezzato il suo
bacino elettorale e se dal Nazareno buttano la croce sulla minoranza,
Fassina declina le responsabilità della sinistra: «Si cerca in
Pastorino il capro espiatorio, ma quel pezzo di Pd che lo ha votato
in Liguria, non avrebbe votato la Paita neanche sotto tortura. Se si
fa finta che il problema sia il dissenso di alcuni di noi, non si va
da nessuna parte».
Se la riforma della scuola al Senato non
cambierà, l’ex viceministro potrebbe tener fede all’impegno di
lasciare il Pd. Anche per Alfredo D’Attorre la riflessione sul
«dopo» è aperta: «C’è una emorragia impressionante di voti a
sinistra che finisce in astensione o al M5S. Un mondo nostro che
rischia di non riconoscersi più in questo Pd». Che fare, adesso? Da
dove ripartire per incollare i cocci?
Lunedì in direzione
l’analisi del voto potrebbe trasformarsi in resa dei conti.
D’Attorre chiede a Renzi «una verifica senza rimozioni né
trionfalismi» e spiega che non si può ridurre tutto alla
definizione di «sinistra masochista», ma bisogna aprire una «grande
consultazione sui grandi temi, come la scuola». Poi l’affondo
contro la foto, che ha fatto il giro del web , e che ritrae Renzi e
Orfini mentre giocano alla Playstation: «Lasciamo stare i
videogiochi e torniamo alla realtà, che è molto, molto dura».
La minoranza è divisa in tre tronconi. Gli irriducibili, come
Fassina. I riformisti che lavorano per ricostruire l’alternativa e
sfidare Renzi al prossimo congresso. E i filo-renziani, come Matteo
Mauri e Cesare Damiano, che chiedono a Renzi un «premio» per aver
votato l’Italicum, magari con la scelta del nuovo capogruppo. Si è
parlato dell’ex dalemiano Enzo Amendola, ma ora il segretario
sembra orientato a mettere in quella casella-chiave Lorenzo Guerini,
liberando la poltrona di vicesegretario per Lotti o Rosato.
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