Corriere della Sera 14/06/15
Maria Teresa Meli
L’INTERVISTA MATTEO RENZI
Presidente Renzi è un momento
complicato per l’Italia.
«No, è un bel momento, con buona
pace dei gufi e dei profeti di sventura. L’occupazione sale di 200
mila unità. La crescita ha di nuovo il segno più, i consumi segnano
un risveglio. Veniamo da un G7 dove non eravamo più il problema, ma
parte della soluzione. La fame di Italia nel mondo tira l’export
come non mai. E l’Expo che doveva essere un disastro annunciato è
un fiore all’occhiello. Potrei proseguire con esempi di tutti i
tipi. Eppure il dibattito politico interno è incartato solo sulle
cose che non vanno. Sembra che una parte della classe dirigente di
questo Paese non viva senza ricorrere alla paura. Del diverso,
dell’immigrazione, del futuro. Ma noi abbiamo scommesso sul
coraggio, non sulla paura, e dunque avanti tutta».
Bè,
l’immigrazione è una vera e propria emergenza.
«Guai a
sottovalutarla. È un tema grave e — diciamolo chiaro — le
risposte che l’Europa sta dando sono insufficienti. Redistribuire
solo 24 mila persone è quasi una provocazione».
Ma se la Ue non
vi ascolterà è vero che adotterete una linea più dura
sull’immigrazione?
«Nei prossimi giorni ci giochiamo molto
dell’identità europea e la nostra voce si farà sentire forte
perché è la voce di un Paese fondatore. Se il consiglio europeo
sceglierà la solidarietà, bene. Se non lo farà, abbiamo pronto il
piano B. Ma sarebbe una ferita innanzitutto per l’Europa. Vogliamo
lavorare fino all’ultimo per dare una risposta europea. Per questo
vedrò nei prossimi giorni Hollande e Cameron e riparlerò con
Juncker e Merkel. In Europa va cambiato il principio sancito da
Dublino II e votato convintamente da chi oggi protesta contro il
nostro governo. La comunità internazionale è responsabile di ciò
che accade in Libia in ragione dell’intervento di 4 anni fa e della
scarsa attenzione successivamente dedicata al tema. Se la Libia non
trova un assetto istituzionale, diventa la calamita per fanatici e
terroristi e dunque ci stiamo giocando una partita di portata
storica. La vogliamo affrontare con la serietà di un Paese che è
una potenza mondiale o inseguendo chi fa tweet sulla scabbia e
propone di sparare al primo che passa? Torniamo al buon senso».
Si riferisce a Salvini, presidente?
«Certo che mi riferisco a
lui. Strillare di epidemie significa procurare allarmismo ma tutti i
report medici dicono che non è così. Se volessimo fare polemica,
potremmo criticare il fatto che la Lega a Strasburgo ha votato contro
la proposta di aiutare l’Italia ridistribuendo le quote di
immigrati: il colmo! Ma non è tempo di divisione: ieri ho chiamato
Zaia e Maroni. Ho offerto e chiesto collaborazione istituzionale».
Intanto la Francia respinge i profughi e le Regioni non li vogliono.
«La situazione è tesa, ma i numeri sono appena più alti dello
scorso anno: al 13 giugno 2014 avevamo accolto 53.827 persone. Al 13
giugno 2015 siamo a 57.167. Numeri sostanzialmente simili. Senza
contare che le persone che sono ferme nelle stazioni hanno un
biglietto per lasciare l’Italia: il blocco di qualche giorno di
Schengen li sta tenendo fermi qui, ma per loro non è l’Italia la
destinazione. Il tempo della campagna elettorale è finito: noi
stiamo aprendo un fronte in Europa difficilissimo, mi piacerebbe che
l’intero sistema istituzionale – compresi i governatori leghisti
– facesse il tifo per l’Italia. Quando vado all’Expo vedo
cittadini di tutto il mondo arrivare entusiasti e felici di Milano,
dell’Italia. Apro i siti e sembra che Milano sia il sobborgo di una
megalopoli malata. Gridare al lupo ti fa ottenere un voto in più, ma
quando i quotidiani internazionali mettono in discussione la tenuta
del sistema turistico come accaduto ieri, ci rendiamo conto che
stiamo facendo danno all’Italia? Il problema c’è. Ma quando vedo
iniettare nel dibattito pubblico dosi di terrore verbale, temo la
reazione istintiva, di pancia. In economia possiamo rilanciare solo
se le aziende, i risparmiatori, gli investitori vivono una fiducia
che è ben giustificata dalle riforme in atto. E nella vita di tutti
i giorni abbiamo necessità di tornare a credere nelle istituzioni».
Squinzi si lamenta perché l’Italia è esclusa dai vertici
europei sulla Grecia.
«Rispetto la sua posizione. Ma a quei
vertici non vado. Non è un problema di inviti, visto che Tsipras mi
ha più volte chiesto di partecipare. Solo che noi abbiamo una
cultura europeista per cui i problemi si affrontano nelle sedi
istituzionali, non nei caminetti. Alexis si è affidato alla Merkel e
a quelli che hanno seguito la sua campagna elettorale spunta un
sorriso, visto ciò che diceva allora. Ma se questo è ciò che vuole
la Grecia, ok. Solo che l’Italia partecipa ai vertici
istituzionali, non a quelli informali. Per spiegare ai greci che non
possiamo pagare le baby pensioni a loro dopo aver fatto tanta fatica
per toglierle agli italiani non serve una riunione. Tutti noi
vogliamo la Grecia nell’Euro, ma devono volerlo anche loro: noi
siamo pronti a dare una mano. È maturo il momento della svolta
economica per l’Europa, puntando più sulla crescita che
sull’austerità. Ma per arrivarci occorre aver completato il
percorso delle riforme strutturali, a cominciare dalle nostre».
Voterete sì all’arresto di Azzollini?
«Leggeremo le carte. Se
emergerà il fumus persecutionis voteremo contro l’arresto. Se
tutto sarà in linea con la Costituzione e con le leggi, voteremo a
favore dell’arresto, come abbiamo fatto anche con i nostri. Gli
sconti si fanno nei negozi, non in Parlamento».
Quando
sospenderà De Luca?
«Sulla Severino faremo ciò che prevede la
legge, senza interventi ad personam. Esiste una contraddizione,
perché de Magistris e De Luca sono nella stessa situazione, non si
capisce perché uno dovrebbe essere sospeso e l’altro no. Vedremo
le decisioni dei giudici. Nel frattempo sto dialogando con De Luca
sui dossier più importanti, a cominciare dalla nomina del
commissario di Bagnoli che andrà in cdm venerdì assieme ad alcuni
decreti fiscali e molto altro».
Dopo il suo incontro con Putin
come sono i rapporti con gli Usa?
«Ottimi. Obama ha più volte
espresso apprezzamento per le riforme italiane che al G7 ha definito
“coraggiose”. Sull’economia gli americani sono punto di
riferimento: più crescita, meno austerity. Sulla Libia, sono gli
unici che hanno chiara la situazione e ci stanno fornendo tutto il
supporto come noi facciamo con loro altrove. Sulla Russia abbiamo
discusso in amicizia soprattutto nel vertice alla Casa Bianca,
condividendo anche le sfumature. Il G7 è uscito con una posizione
condivisa: si dia corso integralmente agli accordi di Minsk 2. Lo
stesso Putin si è detto favorevole. Adesso lavoriamo per passare
dalle parole ai fatti».
Se l’inchiesta romana dovesse
decapitare altri vertici del Pd in giunta e in consiglio comunale
continuerete a dire «o Marino o morte»?
«Ho rispetto per
Ignazio Marino. Non possiamo però sottovalutare il messaggio che
viene da Roma. Ci sono due questioni differenti. Sul piano giuridico
aspettiamo le carte, ma personalmente non vedo elementi per
sciogliere il Comune per mafia. Non si tratta solo di una questione
mediatica internazionale, ma di un giudizio basato su quello che ad
ora abbiamo letto. Se — come credo — la questione scioglimento
per mafia non esiste, dovremo affrontare politicamente (in sede Pd)
la questione Roma. Il partito va rifondato come ha iniziato a fare
bene Orfini. Migliaia di ragazzi vogliono fare politica in quella
città e un Pd capitolino profondamente ripensato può accoglierli,
valorizzarli, esaltarli. Possiamo studiare una grande campagna sui
circoli, come propone lo studio di Barca. Possiamo inventarci il
modello organizzativo del partito del nuovo secolo, prendendo dal
male di questa situazione il bene. Il governo è pronto a fare la
propria parte ma è finito il tempo in cui si davano i soldi a Roma
capitale con leggerezza. Se decideremo di andare avanti lo faremo
solo se convinti, non per paura di perdere il Comune. Dobbiamo
cambiare l’Italia e l’Europa, possiamo aver paura di Di Battista
o dei delfini di Alemanno? Il mio Pd non può mai aver paura delle
elezioni. Mai. Altrimenti diventa come gli altri».
Ma veramente
crede di arrivare fino al 2018 con i numeri del Senato?
«Al
Senato i numeri sono più solidi del passato. Credo che la
maggioranza dei parlamentari non voglia interrompere questo percorso
di riforme. Il mio governo oggettivamente ha fatto in 15 mesi cose
ferme da anni: riforma elettorale, Jobs act, il pacchetto di
interventi sulla giustizia. E siamo in pista su riforma
costituzionale, diritti e terzo settore, pubblica amministrazione,
fisco. Gli interventi economici, dagli 80 euro al taglio Irap del
costo del lavoro, hanno rilanciato l’economia italiana. Gli
investitori internazionali tornano a credere in noi. Vorrei essere
chiaro: si può sempre fare di più. E cercheremo di farlo. Se poi
deputati e senatori si sono stancati di noi, basta togliere la
fiducia delle Camere e vediamo chi prenderà quella dei cittadini. Ma
non vedo praticabile questo scenario: a mio giudizio la legislatura
andrà avanti fino al 2018».
Sta per cambiare i vertici della
Cdp?
«Bassanini e Gorno Tempini hanno fatto un buon lavoro.
Nelle prossime ore decideremo le nuove tappe. Cassa depositi e
prestiti è strategica per il futuro del nostro Paese e ci sono tutte
le condizioni per fare un ulteriore passo in avanti».
Non la
imbarazza sapere che Buzzi ha finanziato alcune sue iniziative?
Restituirà quei soldi?
«La fondazione Open restituisce in
automatico i denari ricevuti da realtà discusse. Il Pd ha uno
statuto diverso. Ma troverà la strada per restituirli. Quello di cui
sono fiero invece è il meccanismo all’americana che stiamo
mettendo in atto per finanziare la politica. Superato il
finanziamento pubblico, siamo l’unico partito che non ha licenziato
il personale, ricorrendo a una seria spending e aumentando donazioni
liberali e trasparenti. Meglio così che i diamanti in Tanzania o le
lauree a Tirana del Trota, mi creda».
Non le sembra che sia
cambiato il vento nei suoi confronti?
«Mi chiedono di inventarmi
qualche colpo a effetto. Ma dopo anni di immobilismo in Italia
l’unico colpo a effetto che può fare il capo del governo è
governare quotidianamente con serietà e responsabilità. Il tasso di
attuazione dei decreti è salito al 65%, tutti i dossier procedono,
le aziende pubbliche, a partire da Eni, Enel e Finmeccanica, dopo il
cambio dei vertici viaggiano più spedite. Certo se il Jobs act lo
avessero fatto quelli di prima, oggi staremmo meglio. Se si fosse
fatta prima la legge elettorale, avremmo un sistema più stabile. Se
avessero già fatto la riforma costituzionale non impiegheremmo mesi
per approvare una legge. Chiunque può passare il tempo a piangere e
rimpiangere. Ma noi siamo diversi da chi ci ha preceduto. Non
vogliamo trovare alibi, ma trovare soluzioni. Ora dobbiamo continuare
sulla strada delle riforme, più decisi che mai. Ma la prima riforma,
strutturale, è restituire orgoglio all’Italia e fiducia agli
italiani. E in questo clima questa è la sfida più difficile. Però
è anche la più bella. Dopo quindici mesi di governo sono più
convinto di prima che il nostro Paese tornerà a guidare l’Europa.
A noi toccherà sudare e lavorare molto. I nostri figli però
staranno meglio di noi. Questo è il vero motivo per cui facciamo
politica. Non per godere della rendita del passato, ma per costruire
una speranza per il domani».
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