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martedì 30 giugno 2015
domenica 28 giugno 2015
Il disegno di legge al Senato. Il piano: unioni civili sul modello tedesco Possibile l’adozione dei figli del partner.
Corriere della Sera 28/06/15
Alessandra Arachi
La scommessa è di portare a casa il
risultato entro l’estate. Una maggioranza trasversale che accanto
al Pd veda il Movimento 5 stelle, Sel e qualche liberale di Forza
Italia potrebbe farcela a far passare il disegno di legge sulle
unioni civili fra persone dello stesso sesso. In commissione. E alla
fine anche in aula.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi
proprio la settimana scorsa ha ribadito la volontà di riprendere
questo tema. E adesso che, dopo l’Irlanda e dopo il Parlamento
europeo, è arrivata anche l’America a dire il suo forte «sì» ai
matrimoni fra omosessuali, la posizione del nostro Paese diventa
sempre più di minoranza rispetto al mondo e non soltanto rispetto
all’Europa.
Il disegno di legge in discussione al Senato non
parla di matrimoni gay, bensì di unioni civili secondo il modello
tedesco che prevede anche la step child adoption , ovvero la
possibilità di adottare il figlio biologico del compagno.
Ieri
dal Gay Pride di Milano ha fatto sentire la sua voce anche il
ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina: «È ora di una
legge moderna sulle unioni civili anche in Italia», ha dichiarato.
I numeri, teorici, per una maggioranza che faccia passare il disegno
di legge sulle unioni civili ci sono. Nella realtà, tuttavia, pesa —
e non poco — l’incognita degli emendamenti.
Erano poco più
di quattromila, circa. Sono stati praticamente dimezzati dal
presidente della commissione Giustizia Francesco Nitto Palma, di
Forza Italia. Ma sono comunque tanti, una montagna, difficile da
scalare.
Si può immaginare un calendario fitto fitto della
commissione che preveda sedute notturne per esaminare gli
emendamenti. Si può anche immaginare di far arrivare il testo in
aula senza esaminare gli emendamenti grazie ad un voto di fiducia.
Non si può sperare che chi ha firmato quella valanga di correzioni
le ritiri, visto che sono stati presentati proprio per fare
ostruzionismo.
Lucio Malan, Forza Italia, da solo ne ha
sottoscritti più di 700. E non è soddisfatto nemmeno degli
emendamenti presentati proprio in queste ore dalla relatrice, la
senatrice Monica Cirinnà, del Pd.
Dice infatti il senatore
Malan: «Con un emendamento la relatrice ha voluto cancellare la
parola “vedovile” dal testo, così da togliere un’equiparazione
al matrimonio. Ma è un emendamento ipocrita: tutto l’impianto del
disegno di legge è fatto per equiparare queste unioni civili fra
persone dello stesso sesso al matrimonio».
I senatori della
commissione hanno tempo fino a domani pomeriggio per presentare
subemendamenti agli emendamenti della relatrice. Poi si dovranno
prendere delle decisioni.
Il presidente della Commissione
Giustizia Nitto Palma ha più volte fatto sapere di non avere
intenzione di dedicare tutto il tempo del suo organismo parlamentare
all’esame degli aggiustamenti sulle unioni civili. Ma è anche vero
che il presidente Francesco Nitto Palma è in scadenza e sono
prossime le elezioni per eleggere il suo sostituto. Al più tardi a
settembre, secondo la prassi parlamentare.
Oltre che su M5s e
Sel, il Pd può contare per l’approvazione su un’area liberal
dentro Forza Italia e anche sull’Ncd, sebbene sia Fabrizio
Cicchitto sia Nunzia De Girolamo — i più aperti del partito dove
ci sono oppositori duri, come Carlo Giovanardi e Maurizio Sacconi —
siano alla Camera e non al Senato.
Fassina, il pd e l’eterna scissione della ditta.
Corriere della Sera 28/06/15
Aldo Grasso
Stefano Fassina, dopo non pochi
tentennamenti, ha lasciato il Pd di Renzi. Probabile che confluisca
nel gruppo «Possibile», insieme con Civati, Cofferati, Landini,
Mineo, Monica Gregori e altri duri e puri. «Con loro — ha detto il
dissidente — ci ritroveremo per avviare un percorso politico sui
territori, plurale, che possa raccogliere le tante energie che sono
andate nell’astensionismo».
Per alcuni, lo strappo di Fassina
è sacrosanto: non è Fassina che esce dal Pd, è il Pd che esce da
Fassina e abbandona con lui i tanti elettori che si erano
riconosciuti in un progetto diverso (quello perdente di Bersani?). Il
Pd di Renzi sarebbe mutato geneticamente, il puro resta Fassina. Come
Alexis Tsipras in Grecia. Che poi la criticata mutazione genetica
consisterebbe nell’espressione di una novità radicale nel modo di
essere della sinistra di governo in Italia.
Vero è che di
genetico c’è solo il vizio del frazionismo, una tara che la
sinistra si porta dietro da tempo immemorabile. Senza andare tanto
indietro negli anni, basta ricordare Lotta comunista, il Partito
Comunista d’Italia, Rifondazione Comunista, Iniziativa Comunista,
il Pci Marxista Leninista, la Sinistra Critica, Sel...
Si tratta
solo di scommettere chi, fra Fassina, Civati e Cofferati, dal
possibile passerà al probabile. Cioè alla nascita di un nuovo
gruppo, a sinistra della sinistra, più puro dei puri. Del resto, la
scissione è la ragione sociale della «ditta».
sabato 27 giugno 2015
Se ne vanno...
Riccardo Imberti
27 giugno 2015
Dopo le elezioni amministrative succede
che personaggi che hanno criticato pesantemente Renzi e il nuovo
corso del PD si stiano sfilando. Certo se il risultato delle
amministrative fosse stato diverso sono convinto che ciò non sarebbe
successo.
Ogni volta che qualcuno se ne va non è
un bel segno. Ma leggendo le motivazioni di Fassina ho capito che per
lui la nascita del PD doveva essere la continuità delle sigle e non
la creazione di una nuova esperienza politica che, facendo tesoro
della storia dei partiti di provenienza, avesse il compito di
superare le esperienze precedenti per creare un nuovo partito capace
di affrontare le sfide del terzo millennio, superando i limiti della
cultura politica del '900.
Anche altri non erano convinti
dell'operazione, ma, vista la crisi del consenso tradizionale, se ne
fecero una ragione e si adeguarono. Fermandosi allo slogan di
superare la "fusione a freddo". Dopo la prima fase a guida
Veltroni tante energie nuove, che avevano condiviso la scelta del PD
come forza riformista, si sono allontanate perché le facce non
cambiavano e nei territori e nei circoli dominava la spartizione
delle cariche tra DS e Margherita.
Anche il PD di Veltroni non ha
raggiungo risultati immediati, facendo svanire molti consensi
interni. I deludenti risultati delle elezioni politiche del 2013
hanno confermato che si rendeva necessario un cambiamento alla stessa
guida di Bersani, un cambiamento radicale. Il congresso ha assegnato
a Matteo Renzi un suffragio larghissimo per la sua determinazione al
cambiamento.
Ora, dopo un anno e più di governo,
Renzi sta mettendo in pratica le cose che aveva detto di fare, ma
sembra che le riforme nel nostro Paese siano tabù. Qualsiasi
comparto intendi riformare oppone una accanita resistenza, senza
parlare dei sindacati - in particolare della CGIL - specializzati nel
dire di no.
Un amico in questi giorni mi diceva che
Renzi fa bene a forzare la mano sulle riforme perché questo Paese
rischia di morire. Il problema - continuava l’amico - è che deve
trovare il coraggio di pensare al futuro dell'Italia e non alle
prossime scadenze elettorali. Renzi in qualche modo sta procedendo in
questa direzione, visto che ha fatto più cose lui in questo anno e
mezzo di quanti lo hanno preceduto in venti anni, ma pare che ciò
non basti.
La questione è anche legata al fatto
che le cose cambiate non producono risultati immediati e la gente
vuole vederli.
Per queste ragioni i “partiti contro”
stanno aumentando i loro consensi, ma basterebbe volgere lo sguardo
alla Grecia per capire che la strada del no è strettissima. Pare
che circa la metà del partito del leader greco contesti la bozza di
programma base per l’accordo in Europa. Il tandem che contesta oggi
Tsipras, Lafazanis-Lapavitsas, preferirebbe uscire dall’euro
piuttosto che chiedere altri sacrifici ai greci. Altro che alzare
l’Iva e prelevare una percentuale dalle pensioni e dagli stipendi
superiori ai trentamila euro. Non si voleva assicurae la fine
dell’austerità? Una cosa sono le promesse elettorali, altra la
realtà, come sanno bene tutti i governanti d’Europa. Il contesto
europeo e internazionale hanno regole che vanno tenute di conto per
mantenere la credibilità del proprio Paese.
Le sfide per noi sono ancora grandi: il
terrorismo, l'immigrazione con gli sbarchi quotidiani e la
moltitudine di disperati che arrivano da noi, la questione
morale e la corruzione che tarda ad essere fermata, l'economia che
troppo debolmente sta riprendendo.
Il PD e Renzi non intendono rinunciare
a cambiare questo Paese, al contrario paiono determinati ad
esercitare fino in fondo la responsabilità che gli italiani
hanno loro assegnato; se saranno in grado di farlo, come io mi
auguro, allora l'uscita di Civati e Fassina, per quanto spiacevole,
assume la dimensione che merita, indipendentemente da qualche
titolo di prima pagina in ossequio alla polemica di qualche
giornalista.
giovedì 25 giugno 2015
Profughi siriani in Libano. Un dramma che rischia di far saltare non solo il Libano ma anche l'Europa.
David Sassoli
25 giugno 2015
A quaranta chilometri da Beirut va in
scena una tragedia umanitaria che rischia di far saltare il Libano ed
esplodere in Europa. Campi profughi nella Valle della Beqa' e altrove
accolgono oltre un milione e mezzo di fuggiaschi siriani e iracheni.
Sono famiglie, in gran parte classe media, fuggite dai territori
incendiati dalla guerra. Un'onda che si riversa in un paese grande
quando l'Abruzzo, con 4 milioni di abitanti. E cosa peggiore, si
tratta di una bomba umanitaria a ridosso di un fronte di guerra. La
tensione è altissima. E non si tratta di un caso isolato. La
Giordania è nelle stesse condizioni e anche alla frontiera turca la
pressione non accenna a diminuire. Trasferire qui a Beirut le
riflessioni e le polemiche che si sviluppano in Europa sul numero dei
migranti appare quantomeno stonato.
Incomprensibile ai più discutere di
qualche decina di migliaia di rifugiati aventi diritto da proteggere
fra 28 paesi. Anche perché in questa regione si ferma una grande
quantità di persone che potrebbe arrivare in Europa. E con lo status
di rifugiati c'è l'obbligo dell'accoglienza. Dove dirigersi,
d'altronde? Dove cercare di andare, quando si scappa dalla Siria con
moglie, figli da mettere al sicuro? Nei nostri confronti insomma, è
attiva una forma di protezione che spesso ignoriamo e troppe volte
consideriamo scontata. In ogni caso si tratta di valutazioni
irresponsabili che contraddicono anche i toni di un dibattito che
batte sul tasto di aiutare i paesi arabi per non far partire i
migranti. Quante volte abbiamo sentito dire "aiutiamoli a casa
loro"? Bene, in Libano, Giordania e Turchia la possibilità di
sviluppare questo impegno concreto non manca. Ed è nel nostro
interesse sostenerlo. Progetti di accoglienza e di assistenza corrono
sullo stesso binario. In Libano ben 400mila giovani rifugiati
sono senza occupazione e senza scuola. Le loro condizioni
costituiscono una riserva di caccia per le formazioni jiadiste. Il
pericolo è ben presente alle autorità libanesi impegnate nel
contrasto con frazioni dell'Isis già presenti nel paese dei Cedri. È
di pochi giorni fa la notizia di una importante postazione recuperata
dai miliziani hezbollah proprio in territorio libanese, a un
centinaio di chilometri da Beirut.
Di sicurezza nell'area del Mediterraneo
si è parlato molto nel corso della Conferenza per la revisione della
politica di vicinato, che si è svolta nella capitale libanese. A
parte Turchia, Libia e Israele, tutti i paesi della sponda sud erano
presenti a livello di ministri degli Esteri. "L'Europa può fare
molto, se solo volesse", mi ha detto l'esperto segretario della
Lega Araba, Nabil el-Araby. Il vento populista e islamofobico che
scuote l'Unione viene seguito con grande attenzione. E preoccupa. "La
crescita dell'estrema destra in Europa può rappresentare un pericolo
per la democrazia nella regione", ha avvertito il ministro degli
Esteri palestinese. Anche dai respon-sabili degli Esteri di Marocco,
Tunisia, Algeria, Egitto, Giordania é arrivato un forte richiamo per
un vero rilancio della politica dell'Unione per il Mediterraneo. Una
valutazione che non possiamo lasciar cadere e su cui dobbiamo
investire. Ma è tutto nella disponibilità dell'Europa? Il mio
invito è stato rivolto ai paesi arabi, a recuperare forme di dialogo
fra loro in grado di superare i conflitti - vedi il caso Libia - e
poter confrontarsi con l'Ue senza il peso di relazioni privilegiate
con i singoli Stati europei. È nel loro interesse, d'altronde,
esprimere valutazioni condivise. Le crisi, ancora una volta, possono
aiutarci a voltare pagina e a intraprendere strade nuove. Quelle che
finora i governi europei, per un miope interesse nazionale, non hanno
voluto percorrere.
mercoledì 24 giugno 2015
Leonardo Boff: “L’Enciclica Laudato si' è una nuova speranza per il Pianeta”
Pierluigi Mele 23 giugno 2015
rainews.it
L’Enciclica di Papa Francesco dedicata all’ ecologia , ovvero
alla “madre terra”, non ha deluso le aspettative. Sta facendo
discutere l’opinione pubblica mondiale. Per andare alle “radici”
dell’Enciclica abbiamo intervistato il teologo brasiliano Leonardo
Boff, uno dei padri della teologia liberazione. Boff è tra gli
ispiratori dell’Enciclica
Leonardo Boff, per prima cosa partiamo
dalle reazioni all’Enciclica in America latina: come è stata
accolta?
Finora è stata accolta molto bene, persino con una certa
perplessità perché nessuno sperava un testo cosi positivo e dentro
il nuovo paradigma ecologico. Il Papa ha innovato la discussione
proponendo l’ecologia integrale che va ben oltre l’ecologia
ambientale dominante.
Sicuramente, per lei, questa Enciclica segna la
piena riabilitazione del suo lavoro teologico. In particolare quello
dedicato all’ecologia. Infatti, nel documento, c’è l’espressione
“grido della terra, grido dei poveri” che è sua. Qual è la
novità teologica dell’Enciclica?
A richiesta dello stesso Papa gli
ho inviato molto materiale sull’ecologia, visto che è da 30 anni
che lavoro su questo tema. Molto mi ha aiutato la partecipazione alla
redazione della “Carta della Terra”, sotto l’egida di Michail
Gorbaciov. Questo documento molto simile con l’enciclica è per me
l’unico grande documento, assunto dall’UNESCO, che sia stato
elaborato totalmente dentro il nuovo paradigma, fondato nelle scienze
della vita e della Terra. Io ho insistito insieme al Papa attraverso
l’ambasciatore argentino nella Santa Sede che l’enciclica avrebbe
tutto da guadagnare, mostrandosi contemporanea del migliore pensiero
ecologico, se avesse assunto tale paradigma. Secondo questo paradigma
tutte le cose stanno interconnesse formando un grande tutto. Tutto
sta in relazione e niente esiste fuori dalla relazione. Questa
prospettiva aiuta a mostrare che tutti i problemi stanno
interconnessi e devono essere affrontati simultaneamente, specie il
riscaldamento globale e la povertà delle moltitudini. Sono felice
che questa prospettiva sia stata assunta, conferendo grande coerenza
e unità al testo. Ciò è una novità nella tradizione del magistero
della Chiesa. Il Papa Francesco ha innovato e collocato la Chiesa nel
punto più avanzato della discussione ecologica.
Le piace il termine “Ecologia integrale”?
Le piace il termine “Ecologia integrale”?
Il tema “ecologia integrale” è
presente in tutti i miei libri e articoli. É la forma di come
superiamo il discorso convenzionale che si restringe all’ecologia
ambientale, secondo la quale s’immagina che l’essere umano stia
al di fuori dell’ambiente e della natura, ma al di sopra
dominandola e che non bisogna riconoscere il valore intrinseco di
ciascun essere, indipendentemente dall’uso umano. Io ho lavorato di
forma coordinata l’ecologia ambientale, politico-sociale, mentale e
integrale. Specie ultimamente elaboro un’etica, una spiritualità
ecologica e una cultura della cura per la Casa Comune, l’unica che
abbiamo per abitare. L’ecologia integrale ha incluso le diverse
forme di ecologia, dimostrando però che tutte si articolano tra loro
a servizio di una cultura bio-centrata e di una Terra, che molti
chiamano “Terra di Buona Speranza”.
Quali sono i concetti più belli dell’Enciclica?
Quali sono i concetti più belli dell’Enciclica?
I concetti centrali, che articolano tutto il
testo, sono la concezione che tutto sta in relazione con tutto. Tutto
è relazione e niente esiste fuori dalla relazione. Questa è la
convinzione della fisica quantistica e della nuova cosmologia. Questa
comprensione è teologicamente ben fondata perché si afferma che il
Dio cristiano non è la solitudine dell’Uno ma la comunione e la
relazione della Santissima Trinità, sempre ed eternamente
interconnessi. Se Dio-Trinità sono cosi, relazione, allora tutta la
creazione rispecchia la natura relazionale di tutte le cose. Da
questo concetto ne deriva un altro, quello dell’interdipendenza tra
tutti e della corresponsabilità collettiva per il destino comune,
della Terra e dell’umanità. Un altro concetto chiave è quello
della cura. Significa una relazione amorosa e non dominatrice con la
natura e si oppone frontalmente al paradigma della modernità che e
la dominazione dell’altro, dei popoli e della natura. Il Papa
denuncia l’espressione maggiore di questa dominazione che è la
tecnocrazia. La distingue bene dalla tecnica che ci ha portato tanti
benefici. La tecnocrazia rappresenta la dittatura della tecnica, come
se tutti i problemi ecologici e umani potessero essere risolti solo
per la tecnica. Devono essere presenti la politica, l’etica e una
scienza fatta con coscienza, non prioritariamente per il mercato, ma
per la vita. Altro concetto importante è il termine “casa comune”
per designare la Terra. Cosi è più facile ricordare che tutti
abitano lo stesso spazio e che tutti sono fratelli e sorelle gli uni
degli altri e anche fratelli del fratello Sole, della sorella Luna e
figli della Madre Terra. Questa visione che esiste una fratellanza
universale è derivata dalla mistica cosmica di San Francesco, una
fonte d’ispirazione per tutta l’enciclica. Essa permette
espressioni di grande bellezza, sentimenti di rispetto e di
venerazione per tutto quello che esiste e vive. Qui il Papa innova di
fronte ai suoi predecessori, in quanto nel suo testo coltiva
l’eleganza, la lievità e la poesia.
Come verrà declinata, dopo
questa Enciclica, la parola “Liberazione”?
La teologia della
liberazione nacque ascoltando il grido degli oppressi, o nella
versione argentina, del popolo messo a tacere e della cultura
popolare oppressa. Il “marchio registrato” di questo tipo di
teologia è l’opzione per i poveri, contro la povertà e in favore
della loro liberazione e della giustizia sociale. A partire dagli
anni’80 del secolo passato, alcuni teologi percepirono che
all’interno di quest’opzione si sarebbe dovuto collocare il
Grande Povero che è la Terra crocefissa, devastata e oppressa. Fu in
questo senso che io scrissi nel 1995 il libro “Dignitas Terrae”,
ecologia: grido della Terra - grido dei poveri”. Questa espressione
è stata coerentemente assunta dall’enciclica. Nacque cosi
un’eco-teologia della liberazione. Non fu assunta da tutti, perché
questa eco-teologia incorpora i dati delle nuove scienze, come la
nuova cosmologia, la fisica quantistica, la nuova biologia. La
teologia della liberazione classica dialogava con le scienze sociali,
con l’antropologia e con la cultura. Tutti fummo formati dentro
questo paradigma. Pochi si sono arrischiati a dialogare con le nuove
scienze. Ciò rappresentava una vera rivoluzione intellettuale. Io
stesso, feci un grande sforzo per incorporare il nuovo paradigma. Non
si tratta di parlare su questo, ma da questo. E da lì tutto cambia e
mi resi conto che era più facile fare teologia con questo paradigma
che con quello classico. Insieme con il cosmologo nord-americano Mark
Hathaway elaborammo tutta una visione nuova in un libro dal titolo
“Tao da Libertação” che fu tradotto in italiano nel 2014 da
Fazi Editore. Negli USA il libro, nel 2010, ha vinto la medaglia
d’oro per la “nuova scienza e cosmologia”. Penso che sia il
passo più avanzato della teologia della liberazione. Con questo
documento pontificio si mette radicalmente in discussione il
“pensiero unico” neoliberista.
E’ davvero alternativo al
neoliberismo. Le chiedo: l’enciclica potrà avere degli effetti
politici?
Sicuramente l’enciclica avrà effetti politici.
Primariamente perché non è diretta ai cristiani, ma a tutti gli
abitanti della Casa Comune. Essa fa severe critiche agli incontri
dell’ONU sul riscaldamento globale perché non possiede una visione
integrale ma atomizzata e focalizzata solo nell’ecologia ambientale
che favorisce l’antropocentrismo, dove si vede appena la relazione
dell’essere umano con l’ambiente e la natura, dimenticando che
questo essere umano è parte della natura e tra entrambi esistono
relazioni inclusive e reciproche. Non mi meraviglierei se
nell’incontro in dicembre a Parigi – organizzato dall’ONU,
quando si tratterà nuovamente dei cambiamenti climatici, queste
questioni fondamentali siano sollevate e cambi il corso delle
discussioni. La questione non è appena il riscaldamento globale. Ma
il tipo di produzione, distribuzione e consumo che la nostra società
ha elaborato negli ultimi secoli, il quale ha richiesto alti costi
alla natura e hanno prodotto un’iniqua disuguaglianza sociale,
altro nome, dell’ingiustizia sociale mondiale. I cambiamenti
climatici sono la conseguenza di questo modo di abitare la Terra,
devastandola in vista di un’accumulazione illimitata. Dobbiamo
cambiare, altrimenti conosceremo catastrofi ecologico-sociali mai
viste prima. Papa Francesco, con l’Enciclica, porta nettamente la
Chiesa cattolica sulla frontiera profetica della lotta per la
“liberazione dei poveri”.
Riuscirà l’intera comunità
ecclesiale a reggere il passo di Papa Francesco? Vi saranno conflitti
all’interno dell’episcopato? Il problema del Papa non si
concentra nella Chiesa, ma nell’umanità. La sua questione non è
domandare: che futuro avrà il cristianesimo?
Ma la sua
preoccupazione risiede in questo: in quale misura il cristianesimo,
le altre chiese e cammini spirituali, possono e devono contribuire a
salvare la vita sulla Terra e garantire un futuro per la nostra
civiltà?
Lui ha percepito nubi nere che si annunciano all’orizzonte,
anticipando grandi catastrofi, nel caso non facessimo nulla. Ma
sempre da' l’ultima parola alla speranza e alla creatività umana,
capace di dare un salto quantistico e conferire un altro corso alla
nostra forma di abitare la Casa Comune. Esistono molti cristiani e
vescovi che ancora non si sono svegliati di fronte alla gravità
dell’attuale situazione che richiede un “cambio di direzione”
e, citando la Carta della Terra “cercare un nuovo inizio”. Forse
con l’aggravarsi della situazione mondiale, tutti si sveglieranno,
poiché – nel caso contrario – potremmo conoscere il cammino già
percorso dai dinosauri. Ultima domanda: con Papa Francesco i martiri
dell’America Latina tornano a parlare alla Chiesa Universale.
Qual
è il “seme” di futuro che questi martiri portano all’intera
comunità ecclesiale?
Il Papa Francesco ha accolto la riflessione che
si è fatta in America Latina secondo cui il martire non è appena
quello che sacrifica la vita per fedeltà alla fede cristiana. Questo
è un martire della Chiesa. Ma esiste anche un altro tipo di martire
che sacrifica la vita nella difesa della dignità delle persone e dei
loro diritti contro la violenza dei regimi dittatoriali. Questi sono
i martiri, come diciamo noi, del Regno di Dio. Il Regno di Dio, il
messaggio centrale di Gesù, è fatto di giustizia, d’amore
incondizionato, di consegna della propria vita per difendere i
violentati, specie i poveri. Questo è un atto d’amore e
costituisce il contenuto concreto del grande sogno di Gesù: un Regno
di giustizia, di compassione, d’amore, di pace e di totale apertura
a Dio. Tutti questi martiri possiedono una connotazione politica.
Proprio i Papi hanno definito la politica come una forma mai alta di
amore verso il prossimo e di servizio alla giustizia del Regno. In
questo senso abbiamo molti martiri nella Chiesa dell’America
Latina, poiché molti cristiani, laici e laiche, preti, religiosi e
religiose e per lo meno due vescovi, Oscar Romero in San Salvador ed
Enrique Angelelli in Argentina furono assassinati per difendere
questi valori del Regno di Dio. E anche molti colleghi teologi e
teologhe furono sequestrati, barbaramente torturati e assassinati per
difendere i poveri e per essersi impegnati nell’osservanza, da
parte dello Stato, dei diritti umani universali. Tutti questi sono
martiri del Regno di Dio, del quale la Chiesa è segno e sacramento.
(Traduzione dal portoghese di Gianni Alioti)
lunedì 22 giugno 2015
Il boom di tessere nei circoli pd «feudali» In città più di uno su tre rischia la chiusura.
Corriere della Sera 20/06/15
Alessandro Capponi
Più che una «mappatura» dei circoli
sembra la diagnosi di un male terribile, chissà se curabile: il Pd
di Roma, per Fabrizio Barca, che con il suo staff l’ha esaminato
nella quasi totalità dei 110 circoli, «finisce per essere un
partito mai nato». Con ventisette «sezioni dannose» da
classificare in modo inequivocabile: «Il potere per il potere». Ce
ne sono altre tredici segnate con segno «meno», accusate nella
migliore delle ipotesi di inerzia. Quindi «quaranta circoli —
spiega Barca — con una situazione o una tendenza all’infeudamento».
Gestiti da capibastone (come Mirko Coratti e Daniele Ozzimo, finiti
agli arresti nella seconda ondata di Mafia Capitale, o Marco Di
Stefano, anche lui nelle carte di varie inchieste) che li
utilizzavano per fare tessere, per «contare». Senza traccia, o
quasi, di attività politica. Anche perché il 40 per cento degli
iscritti «non frequenta mai la sede». E la media complessiva degli
«incontri pubblici» è di 10 all’anno, neanche uno al mese. Un
partito guidato quasi esclusivamente da uomini: ogni quattro
«coordinatori» c’è una «coordinatrice». Venticinque circoli,
poi, sono «privi di sede»; il 36 per cento «ha in corso un
contenzioso con la proprietà».
I dati di Barca in qualche modo
coincidono con quelli di Matteo Orfini: tra il venti e il trenta per
cento di iscritti «fantasma». «Da lunedì via alle chiusure e ai
commissariamenti», promette lo stesso Orfini. Di certo, però, il
lavoro di Barca fotografa un passato recente e cupo: nella stagione
2012-2013, che porta al congresso, c’è l’ exploit di iscrizioni,
con una crescita del 39,6 per cento; l’anno seguente ecco quello
che Barca chiama «un disamore improvviso»: le iscrizioni calano del
40 per cento. Per Barca «nel 2013 sono stati 32 i circoli che hanno
avuto un aumento di iscrizioni superiore alla media». Inspiegabile,
forse, anche alla luce dell’attività svolta: le sedi sono aperte,
in media, 11,5 ore a settimana, appena sei in quelle «dannose».
Nel suo lavoro, Barca analizza anche la storia del Pd: «Nel 2006 un
nuovo snodo. Le elezioni comunali diventano un test per l’investitura
di Walter Veltroni a leader politico nazionale, in vista della messa
in opera del progetto del Pd. Raccoglie il 61 per cento dei consensi,
quasi un milione di voti, ma nella forza di questo risultato di
valenza nazionale è insita una debolezza grave per il sistema
politico locale: la ricerca di consenso avvalora una logica di
trasformismo e trasversalità che sbiadiscono definitivamente il
riformismo romano e l’autonomia della politica dall’economia
cittadina». È così che «invece di un modello virtuoso», il Pd di
Roma finisce per essere «un partito mai nato». Perché, già nel
2007, è «espressione di divisione correntizia: due correnti Ds, due
della Margherita, una per le liste civiche (dentro un pulviscolo di
grumi di consenso personale)». E ancora: «Mostra di non sapersi
rigenerare, come prova la scelta di candidato sindaco nel 2008»,
cioè Francesco Rutelli. È lo stesso Rutelli, oggi, a dire: «Se
solo trovassi un circolo del partito dove iscrivermi potrei pensare
di tornare. Ma li hanno tutti chiusi».
Barca non si nasconde
neanche dalle responsabilità del Pd in Mafia Capitale: certo il
sodalizio criminale trova terreno fertile con l’amministrazione di
Gianni Alemanno ma «il Pd deve farsi carico di una degenerazione nel
rapporto con cooperative, consorzi di auto-recupero e aziende
cresciute negli ultimi anni al fianco delle amministrazioni di
centrosinistra. Ciò è collegato al decadimento della vita interna
al partito, i cui equilibri non si formano più sulla dialettica
politica ma su rapporti di potere che abusano degli strumenti
essenziali della partecipazione democratica, come il tesseramento e
le primarie». Certo, ci sono anche elementi di speranza nella
mappatura: «Potenzialità positive in 44 circoli». Poi c’è una
fascia intermedia, con «17 circoli inattivi e 25 identitari che
producono iniziativa politica ma non rappresentano gli interessi dei
cittadini».
Se l’immigrazione diventa la leva per scalare il Comune di Milano.
Corriere della Sera 20/06/15
Dario Di Vico
Spulciando negli annali si scopre che
il risultato di Alessandra Moretti (22,7%) in Veneto è inferiore
alla sconfitta del Fronte Popolare che nel ‘48 si fermò al 23,9%.
La giornalista Alessandra Carini ha scritto che, visti i candidati,
il Pd avrebbe perso anche contro Topo Gigio. Le analisi sono così
feroci perché solo sei mesi fa il partito di Matteo Renzi esaltava
la raggiunta «contendibilità» del Veneto e il premier validava
quest’analisi con una presenza costante nelle fabbriche e nelle
assemblee confindustriali. Eppure anche stavolta la sinistra ha
segnato il passo in una terra che resta ostile e che sembra
respingerla antropologicamente. La lista degli errori è lunghissima
e le distanze tra centrodestra e Pd appaiono così larghe che anche
un candidato più testato, come il sindaco di Vicenza Achille
Variati, avrebbe perso comunque. Consumato il flop c’è poco da
fare se non costruire un’opposizione di buon senso al governatore
Luca Zaia, che ha promesso un secondo mandato più interventista del
primo dipanatosi all’insegna del quieta non movere.
Ma l’onda
della débâcle veneta si proietta già sul prossimo e più
importante confronto del Nord, la scelta nel 2016 del sindaco di
Milano. Fino a qualche settimana fa c’era la convinzione che il
vincitore delle primarie Pd avrebbe avuto la strada spianata, ora
invece è spuntata la paura perché il ciclo del renzismo vittorioso
si è arrestato e in parallelo sono salite le quotazioni del milanese
Matteo Salvini. Va da sé che la composizione sociale milanese è
assai diversa da quella veneta e il Pd è in questo momento il
partito in sintonia con le trasformazioni di un corpo sociale che,
superate le vecchie classi, può essere mappato solo per grandi
aggregati. Scemato il ruolo della borghesia economico-finanziaria è
la grande galassia delle competenze a ricoprire in città un ruolo
guida e a rilanciare l’idea di una Milano capace di scalare le
graduatorie europee.
Una galassia che ha come esponenti di punta
le archistar, i grandi medici, il top della consulenza d’industria
e persino gli chef e che è molto esigente sulle policy ovvero le
scelte concrete. Non si accontenta di sentir pronunciare ogni due
frasi la parola «innovazione», cerca soluzioni vere per problemi
veri. Il terziario moderno ha però anche una sua faccia in ombra,
quella che corrisponde alle migliaia di freelance attratti dalla
modernità di Milano e che scontano ogni giorno la contraddizione di
possedere alto capitale umano e basso reddito.
Con questi mondi
il Pd dialoga e la Leopoldina dello scorso sabato allo Spazio Ansaldo
ne è stata la riprova. Dialoga mostrando rispetto per le competenze,
incoraggiando i professionisti a partita Iva, facendo proprie tutte
le nuove culture come lo sharing , il movimento dei coworking oppure
le social street che operano su Facebook come nuovi comitati di
quartiere. Accanto ai nuovi segmenti il centrosinistra milanese ha
anche un radicamento tradizionale in un altro grande aggregato
cittadino: l’impiego pubblico della scuola/università, degli
ospedali, degli enti locali e delle municipalizzate. È un popolo che
con il renzismo ha un rapporto conflittuale e alle parole d’ordine
verticali sulle sfide di Milano 2020 preferisce un lessico più
bersaniano, teso a ribadire i valori orizzontali e coesivi della
sinistra. Eppure pur potendo in teoria il Pd sommare ceti innovativi
e tradizionali la partita del consenso a Milano è aperta. La sfida
viene dal basso, dalla geografia sociale del degrado urbano. Milano è
una città cosmopolita che non ha vissuto contrapposizioni radicali
all’immigrazione, ha cercato di metabolizzare i nuovi arrivati come
aveva fatto negli anni 60.
Ci sono però segnali di slittamento
di questa mentalità e il terreno più delicato dove si manifestano è
la condivisione dei servizi. Vale per alcune linee del trasporto
urbano di superficie, per la metro nelle ore del dopocena, vale per
le scuole dove il numero dei bambini italiani e stranieri è in
equilibrio. Vale certamente per la sicurezza. In tutti questi casi
quando la gestione pubblica non riesce ad evitare cadute di qualità
il milanese le vive come segno di una retrocessione e finisce per
reclamare una differenza tra sé e gli stranieri che non vede più.
Non è un rifiuto dell’accoglienza quanto una misurazione severa
dei costi della solidarietà. È ovvio che elettoralmente si tratta
di un terreno fertile per la nuova Lega di Salvini e un test lo
abbiamo già avuto con la propaganda delle ruspe.
Il rischio per
il Pd è di vedere sconfitta la retorica dell’innovazione da un
centrodestra monotematico che punta sull’immigrazione come tallone
d’Achille del renzismo meneghino. E che una volta aggregato il
disagio dei quartieri popolari più esposti parta da questa base per
conquistare l’elettorato moderato e fare bingo.
«Caro D’Alema, sì al dialogo ma sono le polemiche interne ad aver deluso i militanti».
Corriere della Sera del 20/06/15
Marco Galluzzo
«Non vorrei deluderla ma non intendo
fare polemiche».
La polemica che Lorenzo Guerini non vuole fare è
con Massimo D’Alema. Il vicesegretario del Pd ha letto quello che
l’ex premier ha detto al Corriere , non lo condivide, «ma con lo
stesso garbo con cui ha ci invitato a riflettere possiamo
confrontarci».
D’Alema dice che avete perso milioni di voti e
state deludendo il vostro elettorato.
«Innanzitutto se guardiamo
al risultato elettorale nel suo complesso, possiamo dire che c’è
stato un esito positivo per il Pd, altra cosa sono stati i
ballottaggi, per i quali abbiamo subito manifestato la nostra
parziale insoddisfazione. Il vero punto è che valutare i risultati
del partito quando ci sono tante liste civiche e confontarlo con le
Europee è fuorviante. Da questo punto di vista il riferimento è
quanto emerso nella direzione dopo il voto: continuare, aperti al
confronto, ma senza indugio, nel percorso delle riforme».
Sareste stati anche sprezzanti di fronte all’abbandono di tanti
dirigenti del partito.
«In generale su quello che è successo
negli ultimi mesi potremmo anche interrogarci su come siamo arrivati
alle elezioni, con le tante polemiche interne, con il piacere di
alcuni di mostrare le nostre divisioni, atteggiamenti che credo
abbiano in parte influito sul voto. Se c’è una cosa che ci
chiedono i nostri militanti è unità e di non caratterizzarci per le
polemiche. Poi sinceramente non vedo questa diaspora di dirigenti,
alcuni hanno scelto di seguire Civati ma non riscontro alcuna
emorragia. Il Pd è consapevole delle proprie responsabilità di
governo e, dentro questo sforzo, tutti devono trovare la capacità di
sostenerlo. Abbiamo bisogno di un sostegno corale, non della polemica
fine a sé stessa o della critica aprioristica. Non è un compito
facile cambiare un Paese, certamente ci vuole il dialogo dentro il
partito e dentro la maggioranza, e credo che sia stato dimostrato su
tutti i passaggi più impegnativi, ma il nostro sforzo sarà più
proficuo partendo dai risultati che abbiamo raggiunto, per certi
versi straordinari, dal Jobs Act alla legge elettorale, da come
stiamo investendo sulla Pubblica amministrazione e sul fisco: il
Paese ci chiede di confrontarci su questi temi e non su dibattiti
proiettati al nostro interno».
Molte delle vostre misure hanno
colpito, e «disamorato», il vostro elettorato. È falso anche
questo?
«Siamo di fronte a una crisi sociale ed economica per
certi versi storica, eppure stiamo realizzando un cambiamento
portentoso, dimostrando che la politica può e sa decidere, prima
condizione per contrastare le derive populiste e dell’antipolitica.
Siamo alla guida del governo con il segretario del partito, abbiamo
il gruppo parlamentare più numeroso della storia della Repubblica,
governiamo in 17 Regioni e migliaia di Comuni, siamo il più grande
partito della sinistra europea. Il tema non è che non è ammessa la
critica ma che qualcuno si dimentica dei risultati: vanno
interpretati alla luce della responsabilità che abbiamo verso gli
italiani».
Non mi ha risposto.
«Insomma, il tema non è
capire se i nostri provvedimenti sono di sinistra o meno come dice
D’Alema, il punto è se siamo capaci di fare riforme che servono
all’Italia. Gli 80 euro non sono di sinistra? Una riforma del
mercato del lavoro che rende più facile trovare un’occupazione
stabile e che riduce il precariato, non è di sinistra? Il problema
non sono le etichette, sono le vere riforme, purtroppo lo sforzo
riformatore del Paese troppo spesso trova ostacoli anche al nostro
interno».
«Garbatamente» D’Alema vi fa anche notare che non
potete andare avanti con i voti di Verdini.
«É un argomento
trito e ritrito, nei fatti non si è mai realizzato. Noi vogliamo
governare e cambiare l’Italia con la nostra maggioranza, a partire
dal Pd. E se su alcuni provvedimenti si aggiungono i voti di altre
forze politiche è solo un bene, essendo riforme di sistema e che
riguardano tutti».
Enciclica e finanza.L’atto d’accusa di Francesco a un modello globale di sviluppo che ha creato degrado ambientale e nuova povertà
PAOLO RODARI
La Repubblica 21 giugno 2015
Il Papa del popolo “Il salvataggio
delle banche pagato dai deboli”
Protesta «sorella
terra » per il male che le facciamo. Pensiamo di essere «suoi
proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla». Mentre «i
cambiamenti climatici», causati anche da noi, sono «la sfida
principale dell’umanità ».
L’incipit di “Laudato si’”,
l’enciclica di Francesco sulla «cura della casa comune», resa
pubblica ieri (246 paragrafi divisi in 6 capitoli), non fa sconti. E
disegna un’impietosa critica globale al sistema di sviluppo che
schiavizza il mondo e lo spinge alla deriva, all’auto-annientamento.
Mentre «il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il
prezzo alla popolazione, riafferma un dominio assoluto della finanza
che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una
lunga, costosa e apparente cura». Seppure, spiega a Repubblica
Victor- Manuel Fernandez, teologo argentino vicino al Papa, «il
cuore della critica papale non è soltanto all’ economia, ma anche
agli uomini: senza riconoscere gli altri non può svilupparsi una
sana economia ».
Il vescovo di Roma che viene da un
Paese «quasi ai confini del mondo», ricco di risorse ma sfruttato
dalla globalizzazione mercatista, sa di cosa parla quando in alcuni
paragrafi di una lettera rivolta «a ogni persona che abita questo
pianeta» entra al cuore del problema: la cieca pulsione
accumulatrice ha effetti devastanti perché ha a disposizione «nuove
forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico». Una potenza
senza limite, che si scatena senza poter essere contenuta dalla
debolezza della reazione politica internazionale. Qui cita Romano
Guardini, teologo italo- tedesco a lui caro, che già aveva
denunciato i limiti dell’antropocentrismo moderno che «ha finito
per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà, tanto che
non sente più la natura né come norma valida, né come vivente
rifugio». Spiega ancora Fernandez: «Si tratta di una messa in
discussione del tremendo potere legato al paradigma
tecnologico-economico, che determina la vita delle persone e il
funzionamento della società, che pervade tutto e produce una
modalità di comprensione riduttiva della vita e della società
stessa». Un sistema – scrive la teologa Cristina Simonelli in una
prefazione all’enciclica editata da Piemme – che pensa che il
mondo sia «destinato a una crescita economica indefinita ». Mentre
non è così.
LA DECRESCITA
Francesco non ha soluzioni certe. Ma
indica alcune vie di salvezza per uscire dalla crisi ambientale.
Anzitutto la decrescita. Scrive: «È arrivata l’ora di accettare
una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse
perché si possa crescere in modo sano in altre parti».
LA SOBRIETÀ
Oltre alla decrescita, la sobrietà: «È
importante accogliere un antico insegnamento, presente in diverse
tradizioni religiose, e anche nella Bibbia. Si tratta della
convinzione che “meno è di più”. È un ritorno alla
semplicità».
LA PROPRIETÀ PRIVATA
Amare il creato può portare anche a
rinunciare alla proprietà privata: «La tradizione cristiana non ha
mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla
proprietà privata».
IL RISCALDAMENTO E IL MARE
È spesso l’uomo la causa dei
problemi ambientali: «Numerosi studi scientifici indicano che la
maggior parte del riscaldamento globale è dovuta alla grande
concentrazione di gas serra emessi soprattutto a causa dell’attività
umana». Anche «l’innalzamento del livello del mare può creare
situazioni di estrema gravità».
ISTITUZIONI MONDIALI FORTI
Per invertire il degrado ambientale e
creare sviluppo sostenibile si rende «indispensabile lo sviluppo di
istituzioni internazionali più forti e efficacemente organizzate ».
GUERRE NUCLEARI
Altrimenti tutto può accadere: «La
guerra causa sempre gravi danni all’ambiente e i rischi diventano
enormi quando si pensa alle armi nucleari e a quelle biologiche».
LA MAESTRA ELEMENTARE
Invece occorre ripartire dalle cose
semplici. E per insistere su ciò il Papa ha voluto che ci fosse ieri
a presentare l’enciclica in Vaticano anche Valeria Martano, una
maestra elementare della periferia di Roma.
IL PLAUSO DI OBAMA
Ma anche i potenti applaudono. Scrive
Obama: «Do il benvenuto all’enciclica. Ammiro profondamente la
decisione del Papa di sollevare il caso per un’azione globale sui
cambiamenti climatici».
Grecia. Poveri e baby-pensionati l’esercito di anziani che paralizza il negoziato
La Repubblica 21 giugno 2015
Ecco la fotografia del sistema
previdenziale ellenico al centro del confronto tra la Grecia e i
creditori
Il futuro dell’euro è in mano a una
banda di 2,65 milioni di arzilli vecchietti (alcuni, a dire il vero,
nemmeno troppo vecchietti): l’esercito dei pensionati greci,
diventato in queste ore la linea del Piave su cui si è bloccato il
negoziato tra Atene e la Troika. “Costano troppo! Tsipras deve
tagliare i loro assegni previdenziali di almeno 1,8 miliardi”
dicono da settimane Ue, Bce, Fmi. “Richieste assurde — ribatte il
premier — . Le abbiamo già ridotte oltre i limiti. Un esempio? Il
45% dei pensionati ellenici prende meno di 655 euro al mese, il
livello della soglia di povertà”.
Chi ha ragione? Dipende da che parte si
guardano i numeri. Dafne Grigoropoulos, 67 anni ben portati,
snocciola i suoi. “Ho fatto l’insegnante di scuola elementare per
38 anni. Sono andata in pensione a 58 anni con 1.300 euro al mese —
calcola cullando il nipote nel parco dello Zappeion — . Oggi ne
prendo 1.050. E mi va ancora bene rispetto a molti”. Con il suo
assegno ci campano lei, rimasta vedova, la figlia 38enne disoccupata
dal 2012 (“ha perso il sussidio dopo un anno, è andata a cercare
lavoro per l’estate a Santorini”) e il piccolo Emmanuel.
Tutt’altro che un caso isolato. Il 49% delle famiglie elleniche,
calcola uno studio della Confindustria locale, vive solo di un
reddito previdenziale.
“Nessuno vuole
toccare chi prende il minimo — ha garantito due giorni fa Juncker —
ma la Grecia spende 28 miliardi l’anno in pensioni, il 16% del
Pil”. Nel 2009, quando è scoppiata la crisi, nel paese c’erano
130 differenti fondi pensione e 580 professioni usuranti tra cui i
presentatori tv, a rischio per l’accumulo di flora batterica nei
microfoni. Atene, a voler guardare, ha già fatto i compiti a casa:
il numero dei fondi è stato ridotto a 13. Un censimento nel 2012 ha
portato alla scoperta di 90mila truffatori che ritiravano l’assegno
di parenti morti da anni e di 350mila posizioni irregolari. I diktat
di Ue, Bce e Fmi hanno ridotto da 14 a 12 le mensilità e le entrate
medie sono oggi di 713 euro a testa al mese. “La spiegazione del
rapporto tra spesa e Pil è semplice — ha scritto ieri su Der
Spiegel Tsipras per spiegare le sue ragioni ai tedeschi — . Noi
abbiamo tagliato le pensioni, ma l’austerity ha fatto crollare il
Pil del 25% in cinque anni distorcendo i dati. Da noi, per dire, si
lascia il lavoro a 67 anni, due anni più tardi dei tedeschi”.
Peccato non sia vero. Certo, la Troika
ha imposto una legge che sposta ai 67 anni l’età in cui si può
lasciare il lavoro. Nella pratica le vie di fuga restano però tante.
Fofi Gennimata, neo presidente del Pasok, ex impiegata di banca con
tre figli, ha ritirato il suo primo assegno previdenziale lo scorso
anno a 51 anni. Oggi, diventata parlamentare, l’ha sospeso. L’età
media in cui si va in pensione nel pubblico è di 56,7 anni,
destinati a diventare 60 solo nel 2022, con buona pace di Tsipras. E
dal 2009 le richieste di ritiro anticipato sono salite del 48%.
“Il problema è
con questi soldi campano intere famiglie”, dice Dafne. La
disoccupazione giovanile è al 50%, quella tra gli ultra 55enni è
balzata dal 6% del 2009 al 20%. “E con una cifra sempre più magra
vivono sempre più persone”, conferma Iannis Angelopoulos, 62 anni
e 594 euro di stipendio al mese (“200 se ne vanno in affitto”).
Il paradosso è servito. I pensionati
greci sono tra i più poveri d’Europa ma pure i più costosi. E il
tiro alla fune continua: Tsipras da una parte, la Troika dall’altra,
e l’euro in mezzo.
giovedì 18 giugno 2015
Ecco cosa fa la Chiesa italiana per i migranti
ANDREA TORNIELLI
Vatican Insider
Vatican Insider
Roma 18 giugno 2015
Dalle mense ai dormitori, dagli
ambulatori ai centri di ascolto: dopo le provocazioni di Salvini un
viaggio tra le iniziative di parrocchie, Caritas e fondazione
Migrantes
«Quanti rifugiati ci sono in
Vaticano?», ha domandato Matteo Salvini rispondendo alle parole del
Papa. Negli ultimi mesi Francesco ha voluto dare un segno tangibile
di vicinanza agli homeless aprendo per loro un servizio docce e
barberia sotto il colonnato di San Pietro. Si sta realizzando un
dormitorio che avrà una trentina di posti letto, e dal Vaticano
partono derrate alimentari da distribuire ai poveri della capitale.
Ma è la Chiesa in Italia, con la Caritas, la fondazione Migrantes e
le parrocchie, a svolgere un servizio capillare per l'aiuto
agli immigrati.
Le strutture legate alla Chiesa
negli ultimi anni hanno dato la disponibilità ad accogliere 10mila
migranti. Un numero che è andato aumentando. Il lavoro sociale delle
23.000 parrocchie, attraverso la rete dei centri di ascolto, hanno
generato migliaia di servizi di prima necessità (mense, prestiti,
ambulatori, dormitori) che oltre a servire gli italiani in difficoltà
servono anche i poveri migranti. Si tratta di oltre 1500 servizi ai
migranti.
Per citare soltanto la distribuzione dei pasti, le mense
per i poveri sono 449, per un quarto promosse dalle parrocchie, per
un altro quarto dalla Caritas, per un terzo da ordini e congregazioni
religiose, per l’ultimo quarto da realtà diverse come le diocesi.
Il dato relativo al 2009 indicava un totale di 6 milioni di pasti
erogati. Oggi queste cifre vanno decisamente ritoccate al rialzo.
«Considerato come le mense prive di aiuto pubblico siano quattro su
cinque - ha scritto Giuseppe Rusconi, nel libro "L'impegno"
(Rubbettino) - e che un pasto ha mediamente un valore monetario di
4,5 euro, si può calcolare che in questo campo la Chiesa faccia
risparmiare allo Stato non meno di 27 milioni di euro l’anno.
Servizi di tutela per gli immigrati
impiegati in lavori precari sono stati approntati dalla Caritas, con
il Progetto Presidium in 10 diocesi italiane, e la fondazione
Migrantes con il progetto «La legalità paga». Sono nati centinaia
di doposcuola nelle parrocchie e negli oratori per i figli di
immigrati, le scuole cattoliche si sono aperte alla presenza dei
bambini stranieri (oltre il 12% delle presenze, superiore alla scuola
pubblica), sono nati asili multietnici. Gli oratori sono diventati
quasi una seconda casa per molti bambini e ragazzi immigrati (6
su 10 li frequentano). Sono attive anche iniziative di aiuto al
ricongiungimento familiare, attraverso la disponibilità di case o
attraverso progetti di Housing sociale (a Torino, Firenze, Milano,
Cremona).
Un impegno importante che si sta
rafforzando nelle diocesi è la tutela dei minori non accompagnati –
oltre 13.000 oggi – attraverso una rete di affidi familiari.
L’Associazione «Accoglirete» nata in parrocchia a Siracusa e ad
Augusta, si è già impegnata nella tutela di 1000 minori, senza
alcun compenso. E non va dimenticato che la fondazione Migrantes ha
approntato da 4 anni un fondo per il rimpatrio delle salme dei
migranti che muoiono in Italia e non hanno familiari: oltre
200.000 euro per contribuire a circa 190 rimpatri in 32 nazioni
del mondo.
mercoledì 17 giugno 2015
Parliamo di informazione pubblica.
Pierluigi Castagnetti
17 giugno 2015
Adesso che sono finiti tutti i turni
elettorali non si potrà pensare a un mio secondo pensiero. Debbo dire
che nelle ultime settimane sono stato colpito da come le televisioni
hanno trattato la questione degli immigrati. Non mi hanno sorpreso le
televisioni private che hanno obiettivi di audience evidenti. Mi
riferisco ai canali Rai che, essendo pagati da noi cittadini e dallo
Stato, dovrebbero sentire la responsabilità di una informazione semplicemente
obiettiva e non interessata ad alimentare sentimenti di paura e
persino di panico nella popolazione, rincorrendo le reti commerciali e
gossipare. Non si dica che quanto accaduto alle stazioni di Milano e
Roma Tiburtina e a Ventimiglia erano innocenti notizie che dovevano
essere date. E si diano, perbacco! Ma istituire in quei siti dei veri e
propri punti fissi di collegamento multiquotidiano con tanto di inviati
speciali,pronti a indugiare sui lati più morbosi della notizia, risponde
non all'esigenza di una informazione corretta ma a quella di una
informazione finalizzata. Mentre il paese è impegnato in una difficile
e, come si vede pressochè solitaria, impresa di civiltà e di recupero
del valore dell'umano, che ci siano mezzi di cosiddetto servizio
pubblico che si compiacciono di fomentare vero e proprio allarme sociale
a me pare grave. Semplicemente grave. Se poi la questione riguarda
solamente la professionalità modesta dei giornalisti che trattano il
tema (non è vero, perché è proprio l'impaginazione del giornale che
rivela una intenzione precisa), si consigli loro di leggere gli
editoriali di domenica scorsa di Mario Calabresi e Adriano Sofri così
imparano qualcosa. PS: non replicherò alle prevedibili accuse di
attacco alla libertà di informazione perché le considero infondate: io
rispetto la libertà di tutti, a partire da quella dei giornalisti, ma
rivendico il diritto di giudicare.
martedì 16 giugno 2015
Bauman: “Siamo ostaggi del nostro benessere per questo i migranti ci fanno paura”
Zygmunt Bauman. “Anche se il prezzo
dei sacrifici che pagheremo sarà molto alto, la solidarietà è
l’unica strada per arginare futuri disastri”
Bauman, oggi uno dei pensatori
più influenti del mondo, è stato più volte esule. La prima volta,
quando nel 1939, giovane ebreo, scappò dalla Polonia verso la
Russia, in condizioni simili a quelle dei profughi che, scampati alle
guerre e alla traversata del Mediterraneo, sono in questo momento
oggetto più delle nostre paure che di nostra solidarietà. E la
dialettica dell’integrazione ed espulsione dei gruppi sociali ai
tempi della modernità è uno dei temi che più ha approfondito nelle
sue opere. Con Bauman abbiamo parlato di quello che intorno alla
questione profughi succede in questi giorni in Italia; tra una destra
razzista e una sinistra che stenta ad affrontare le paure di una
parte della popolazione.
Sembra che non siamo in grado di far
fronte alla questione immigrati.
«Il volume e la velocità dell’attuale
ondata migratoria è una novità e un fenomeno senza precedenti. Non
c’è motivo di stupirsi che abbia trovato i politici e i cittadini
impreparati: materialmente e spiritualmente. La vista migliaia di
persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e
una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle
situazioni in cui abbiamo l’impressione che “le cose sfuggono al
nostro controllo”. Ma a guardare bene i modelli sociali e politici
con cui si risponde abitualmente alle situazioni di “crisi”,
nell’attuale “emergenza immigrati”, ci sono poche novità. Fin
dall’inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle
guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato
alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone
sono sempre state “estranei”, “altri”».
Quindi ne abbiamo paura. Per quale
motivo?
«Perché sembrano spaventosamente
imprevedibili nei loro comportamenti, a differenza delle persone con
cui abbiamo a che fare nella nostra quotidianità e da cui sappiamo
cosa aspettarci. Gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci
piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita. Degli
stranieri sappiamo troppo poco per essere in grado di leggere i loro
modi di comportarsi, di indovinare quali sono le loro intenzioni e
cosa faranno domani. La nostra ignoranza su che cosa fare in una
situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra
paura».
La paura porta a creare capri
espiatori? E per questo che si parla degli immigrati come portatori
di malattie? E le malattie sono metafore del nostro disagio sociale?
«In tempi di accentuata mancanza di
certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo
in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come
messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito
rimuovere: ci rendono presente quanto forze potenti, globali,
distanti di cui abbiamo sentito parlare, ma che rimangono per noi
ineffabili, quanto queste forze misteriose, siano in grado di
determinare le nostre vite, senza curarsi e anzi e ignorando le
nostre autonome scelte. Ora, i nuovi nomadi, gli immigrati, vittime
collaterali di queste forze, per una sorta di logica perversa
finiscono per essere percepiti invece come le avanguardie di un
esercito ostile, truppe al servizio delle forze misteriose appunto,
che sta piantando le tende in mezzo a noi. Gli immigrati ci ricordano
in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere,
guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla
questione del capro espiatorio: è un’abitudine, un uso umano,
troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso
messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei
confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso
soggetti, per così dire “vicari”, verso gli immigrati, appunto».
Sta parlando del meccanismo grazie a
cui crescono i consensi delle forze politiche razziste e xenofobe?
«Ci sono partiti abituati a trarre il
loro capitale di voti opponendosi alla “redistribuzione delle
difficoltà” (o dei vantaggi), e cioè rifiutandosi di condividere
il benessere dei loro elettori con la parte meno fortunata della
nazionale, del paese, del continente (per esempio Lega Nord). Si
tratta di una tendenza intravvista o meglio, preannunciata molto
tempo fa nel film Napoletani a Milano , del 1953, di Eduardo De
Filippo, e manifestata negli ultimi anni con il rifiuto di
condividere il benessere dei lombardi con le parti meno fortunate del
paese. Alla luce di questa tradizione era del tutto prevedibile
l’appello di Matteo Salvini e di Roberto Maroni ai sindaci della
Lega di seguire le indicazioni del loro partito e non accettare gli
immigrati nelle loro città, come era prevedibile la richiesta di
Luca Zaia di espellere i nuovi arrivati dalla regione Veneto».
Una volta, in Europa, era la sinistra a
integrare gli immigrati, attraverso le organizzazioni sul territorio,
sindacati, lavoro politico…
«Intanto non ci sono più quartieri
degli operai, mancano le istituzioni e le forme di aggregazione dei
lavoratori. Ma soprattutto, la sinistra, o l’erede ufficiale di
quella che era la sinistra, nel suo programma, ammicca alla destra
con una promessa: faremo quello che fate voi, ma meglio. Tutte queste
reazioni sono lontane dalle cause vere della tragedia cui siamo
testimoni. Sto parlando infatti di una retorica che non ci aiuta a
evitare di inabissarci sempre più profondamente nelle torbide acque
dell’indifferenza e della mancanza dell’umanità. Tutto questo è
il contrario all’imperativo kantiano di non fare ad altro ciò che
non vogliamo sia fatto a noi».
E allora che fare?
«Siamo chiamati a unire e non
dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime
collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano
secondo il principio Divide et Impera, qualunque sia il prezzo dei
sacrifici che dovremo pagare nell’immediato, a lungo termine, la
solidarietà rimane l’unica via possibile per dare una forma
realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non
peggiorare la catastrofe in corso».
lunedì 15 giugno 2015
Il coraggio di guardare la realtà
Mario Calabresi
La Stampa 15 giugno 2015
Viviamo in un’epoca di
semplificazioni assolute, di esagerazioni dettate dalla pancia e di
tragica mancanza di buon senso. Un’epoca in cui manca la memoria ma
ancor più la razionalità, non si tiene più conto di numeri,
proporzioni e contesti. Non si capisce che la complessità non si
affronta e non si risolve con i proclami ma con un lavoro faticoso in
cui l’egoismo dei singoli (siano essi Stati, Regioni o Comuni)
rischia di essere letale.
Lo scorso anno sono arrivati dal mare
170 mila migranti (nei primi cinque mesi e mezzo del 2015 sono 56
mila) e questo ha avuto il potere di destabilizzare un’Unione
europea di ben 500 milioni di persone e di mettere in scena un vero e
proprio psicodramma. Significa che gli arrivi sono pari a uno ogni
3000 abitanti, ma ogni nazione si è chiusa a riccio, interpretando a
suo favore le regole e chiudendo a singhiozzo le frontiere.
Negli ultimi tre anni in Turchia,
nazione con 75 milioni di cittadini, i rifugiati arrivati dalla Siria
e dall’Iraq sono stati oltre due milioni: uno ogni 35 abitanti.
Duecentomila sono arrivati in pochi mesi solo dall’area di Kobane
per sfuggire all’offensiva dell’Isis. I turchi per gestire una
migrazione di queste proporzioni stanno spendendo 6 miliardi di
dollari l’anno a cui - ci racconta oggi l’ambasciatore di Ankara
in Italia - la comunità internazionale collabora con soli 400
milioni. Ma non è il solo esempio della nostra miopia: in Libano si
sono rifugiati 2 milioni di siriani, una cifra immensa e spaventosa
se si tiene conto che i libanesi sono solo 4 milioni. E’ come se da
noi italiani si scaricassero 30 milioni di rifugiati…
Tutto questo non diminuisce di certo il
disagio, i problemi e i rischi che gli italiani devono affrontare e
non ci rassicura, ma forse può aiutarci ad avere una visione più
oggettiva di quello che sta accadendo. Tutto questo dovrebbe invece
spingere tutti a mettere in atto politiche nuove che abbiano come
obiettivo quello di cercare di gestire i flussi e, per quanto
possibile, di rallentarli, agendo in Nord Africa, procedendo anche
con le espulsioni, garantendo sicurezza e legalità.
L’Europa ha cominciato a discutere un
piano di rimpatri per coloro che non hanno i requisiti per restare
come rifugiati ma latita nel definire quote di accoglienza. Se la
prima è una strada che andrà necessariamente percorsa, non può
però prescindere dalla realtà quotidiana degli sbarchi e della
necessaria accoglienza.
Ci preoccupiamo della sicurezza e delle
questioni igienico-sanitarie? Bene, allora non abbandoniamo la gente
in mezzo alla strada, sotto i ponti o nelle stazioni. È un discorso
che vale per i Paesi della Ue come per le regioni: lo scarica-barile
non migliora la situazione serve solo a fare propaganda politica.
E quei barconi che arrivano ogni giorno
non possono essere l’alibi per un racconto della realtà
completamente emotivo e slegato dalla verità. Quando si parla di
tassi di criminalità, di pirati della strada o di stazioni insicure
si fa bene a pretendere più severità e un maggiore controllo del
territorio, ma non raccontiamoci che prima vivevamo nel Paese delle
fate. Lo dicono le statistiche ma anche la memoria.
Le bande di stranieri che fanno le
rapine nelle case sono un’emergenza? Vanno affrontate con più
forze dell’ordine nelle nostre province, ma non fingiamo di non
ricordare anni di malavita italiana o la drammatica stagione dei
rapimenti. «Investono la gente ubriachi e drogati!». Guardate ai
fatti di cronaca, ai pirati della strada, e nella maggioranza dei
casi troverete rispettabili padri di famiglia italiani o i loro
figli. Chi ha ucciso un quindicenne a Monza a marzo e poi è scappato
non era un rom ma un quarantenne brianzolo con un’Audi.
«Sono pericolosi ed efferati!».
Olindo e Rosa non sono musulmani, Yara non pare sia stata uccisa da
un albanese e la cronaca quotidiana è piena zeppa di delinquenti
italiani. Le stazioni oggi ci fanno paura? Ce ne accorgiamo perché
sono luoghi più belli e puliti di quanto non lo fossero 10 o 20 anni
fa, con i negozi, i bar, i ristoranti e allora lo notiamo. A me la
Stazione Centrale di Milano o Roma Termini facevano molta più paura
vent’anni fa, piene di tossici e spacciatori.
Questi sono i problemi della nostra
epoca, migrazioni dovute a guerre, estremismo, miseria, fame e
cambiamenti climatici. Non possiamo pensare di arrenderci o
soccombere ma nemmeno di nascondere il problema o scaricarlo sul
vicino, bisogna avere il coraggio di essere adulti, chiamare tutti
alle responsabilità e chiamare le cose con il loro nome. Costruire
percorsi virtuosi (di accoglienza, studio, rispetto delle regole per
chi ha i requisiti) e insieme meccanismi di rimpatrio e di aiuto ai
Paesi da cui partono, ma evitare di voltare la testa dall’altra
parte regalando migliaia di disperati al lavoro nero e alla
criminalità organizzata.
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