lunedì 29 febbraio 2016

Trump, pericolo per tutti noi


Walter Veltroni
L'Unità 28 febbraio 2016
Battute oscene, proposte assurde. Eppure il consenso cresce: il magnate fornisce voce a sentimenti profondi che si fanno strada in tutto l’Occidente
Mentre il nostro paese sembra impegnato – colonne di pagine dei giornali, televisioni, siti invasi e mobilitazione dell’Accademia della Crusca – dal decisivo tema della possibilità che venga introdotto o no il termine “petaloso” , inventato da un creativo bambino, nei nostri vocabolari , il mondo rischia di precipitare in una avventura senza ritorno. Donald Trump sta scalando le vette dei sondaggi sul prossimo candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. Sta sbaragliando i suoi avversari usando un armamentario retorico che ci è ormai noto : l’essere un imprenditore che si è fatto da solo, il proporre soluzioni disumane per il fenomeno della migrazione, l’insultare le donne. Il tutto condito da un linguaggio estremo, dalla totale indifferenza per ogni coerenza e praticabilità reale delle proposte». Con queste parole, in un editoriale di fine agosto dell’anno scorso, quando tutti ironizzavano su Trump, cercavo di richiamare l’attenzione su quello che stava accadendo nella più importante democrazia del globo. Vorrei tornarci oggi, visto che quella profezia si sta tragicamente avverando.
Trump sta dominando le primarie , in beffa agli osservatori radical chic che alzavano il sopracciglio immaginando che ,come è sempre avvenuto nella storia americana, gli estremismi fossero costruzioni alla periferia dell’impero. Trump dice nefandezze che , secondo lo schema del politicamente corretto, avrebbero dovuto condurlo al totale isolamento politico e morale . Invece Trump cresce. Se Papa Francesco richiama alla disumanità della proposta del candidato repubblicano riguardante i muri contro gli immigrati, Trump vola nei consensi. Se il magnate dice, sempre a proposito dei migranti, «non possiamo farli entrare. Sono un cavallo di Troia. Abbiamo già troppi problemi. Angela Merkel ne ha accolti un milione? Che si vergogni», i suoi voti aumentano.
Se si scaglia violentemente sulla sua avversaria democratica dicendole: «Se Hillary Clinton non sa soddisfare suo marito, cosa le fa pensare saprà soddisfare gli americani?», gli elettori applaudono entusiasti. Se in tv prende in giro un giornalista disabile, insulta una cronista che gli ha fatto domande che non ama, e minaccia di picchiare un solitario contestatore, il suo consenso si impenna. Possiamo distrarci un attimo dal terribile dilemma su “petaloso” per cercare di capire cosa sta avvenendo nel profondo della coscienza del civile popolo di uno dei pochi paesi che non ha mai conosciuto, in tutta la sua storia, dittature di nessun colore? Cosa è successo in pochi anni perché la nazione che ha eletto Obama volgesse il suo sguardo verso il peggio del peggio, la demagogia populista di un miliardario reazionario che si erge a paladino dell’antipolitica?
Attenzione a valutazioni semplicistiche , come quella che spiega il successo di queste posizioni con il presunto fallimento della presidenza democratica. Non sono d’accordo, personalmente. Obama ha affrontato la più grave crisi economica della storia del dopoguerra americano e ne ha fatto uscire il suo paese. Ha approvato una coraggiosa riforma sanitaria, ha capovolto la politica di Bush nei confronti dell’Islam, ha favorito una politica di distensione verso l’Iran, ora corrisponde alla promessa di chiusura di Guantanamo, si prepara ad uno storico viaggio a Cuba. Ha sfidato le lobby dei costruttori di armi e il consenso degli utilizzatori , ha difeso un’idea civile del governo dei fenomeni migratori. Il tempo e la storia si incaricheranno di rendere ad Obama il ruolo che gli spetta. E se esitazioni ed errori ci sono stati, come nell’atteggiamento verso il caos nel mondo islamico, essi non possono essere certo rimproverati da chi, come l’Europa, non ha fatto altro che disinteressarsene.
Dunque se Trump cresce non è per colpa di Obama. Sarebbe una analisi frettolosa e riduttiva. Il magnate candidato fornisce la sua voce a sentimenti profondi che si fanno strada in tutti gli elettorati dei paesi occidentali. Al fondo, mi si consenta di dirlo con nettezza, c’è il desiderio di nuovi autoritarismi. È inutile che ci giriamo intorno. In molti paesi cresce, in ragione delle difficoltà della democrazie e delle colpe di partiti politici senza anima e ragione, un desiderio di semplificazione, di riduzione drastica della inevitabile complessità dei processi decisionali delle istituzioni. Il populismo è cresciuto, ovunque, anche per effetto del conservatorismo ottuso di chi non ha compreso che la democrazia deve innovare se stessa per inverarsi nel suo tempo storico e che per salvarsi deve accentuare le sue capacità di decisione esecutiva e di controllo parlamentare. Ovunque si volga lo sguardo, in Occidente, si trovano fenomeni analoghi. Basti pensare che, nel paese di Mitterrand, il primo partito è quello di Marine Le Pen. Quello che sto cercando di dire è che mi sembra assurdo che non ci si fermi a ragionare e cercare le contromosse per evitare che questo caos rischi di assomigliare agli anni venti e trenta in Europa. C’è una gigantesca sottovalutazione, nel dibattito politico e culturale del nostro tempo.
Io non so se Trump vincerà, alla fine, la nomination repubblicana, come tutto sembra far pensare. Nel campo democratico sta succedendo qualcosa che, in fondo, ha un segno culturalmente in sintonia con i rivolgimenti politici, culturali, antropologici che sto cercando di sottolineare. Un candidato ultrasettantenne, che si è sempre definito socialista, sta incalzando da vicino Hillary Clinton. Sanders agisce contro la sua contendente un argomento tipico di questa fase: la polemica antiestablishment. La Clinton è Washington e Sanders il popolo. Questo è lo schema semplificato del confronto nel campo democratico, il cui esito ora non è affatto scontato. Si dice che si stia aprendo lo spazio per una candidatura indipendente, quella di Bloomberg. Conosco Michael da tempo, siamo stati sindaci di New York e Roma e le nostre due città, allora all’avanguardia nel mondo, hanno collaborato benissimo. Ne conosco il sincero amore per la democrazia e tanto mi basta. Ma se, facciamo l’ipotesi, un candidato indipendente vincesse le elezioni presidenziali e poi si trovasse ostaggio di un Congresso in cui, comunque, sarebbero egemoni i due partiti storici, cosa ne sarebbe della «presidenza imperiale» di cui parlava Arthur Schlesinger? Non voglio prendere in considerazione l’ipotesi che, alla fine, la valigetta nucleare e la più grande potenza mondiale finiscano nelle mani di Donald Trump. Non voglio farlo ma tengo gli occhi aperti. Il mondo, in quel caso, statene certi, sarebbe assai poco petaloso.

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