lunedì 8 febbraio 2016

«I social media sono una trappola», parola di Zygmunt Bauman


Ilaria Mauri
Zygmunt Bauman ha appena festeggiato il suo 90° compleanno, ma riesce ancora a esprimere le sue idee con calma e in modo chiaro, prendendosi tempo con ogni risposta perché odia dare risposte semplici a domande complesse. Da quando ha sviluppato  la teoria della modernità liquida alla fine del 1990 – che descrive la nostra epoca come quella in cui «tutti gli accordi sono temporanei, fugaci  e validi solo fino a nuovo avviso» – è diventato una figura di spicco nel campo della sociologia. In un’intervista al quotidiano spagnolo El Paìs ha espresso il suo scetticismo sull’uso dei social media in ambito politico.
Lei è scettico riguardo al modo in cui la gente oggi protesta attraverso i social media, il cosiddetto “attivismo da poltrona”, e sostiene che internet ci riempie la testa con contenuti scadenti. Dunque, secondo lei i social media sono il nuovo oppio dei popoli?
Il fatto è che l’identità è passata dall’essere qualcosa con cui si nasce a qualcosa da costruire: è necessario crearsi la propria comunità di riferimento. Ma le comunità non sono un’invenzione, o appartieni loro o ne sei fuori. Ciò che i social network possono creare è solo un surrogato.
La differenza tra una comunità e una rete è che a una comunità si appartiene, mentre una rete appartiene a voi. Se ne ha il controllo. Si possono aggiungere amici quando lo si desidera ed è possibile eliminarli allo stesso modo. Si tengono sott’occhio le persone con cui ci si vuole relazionare.
Il risultato è che tutto questo fa stare bene la gente, perché la solitudine, l’abbandono, è la paura più grande che affligge la nostra epoca individualistica. Ma è così facile aggiungere o rimuovere gli amici sui social media che le persone dimenticano le regole del comportamento sociale, necessarie quando si va per strada, al lavoro, o quando ci si trova costretti ad instaurare una relazione empatica con le persone che ci stanno attorno. Papa Francesco, che è un grande uomo, ha rilasciato la sua prima intervista dopo essere stato eletto a Eugenio Scalfari, giornalista italiano che è anche un ateo autoproclamato.
Era un segno: il vero dialogo non è parlare con persone che credono nelle tue stesse cose. I social media non ci insegnano a dialogare perché in quel mondo è facile evitare le polemiche, quando lo si desidera. La maggior parte delle persone utilizza i social media non per collegarsi e neppure per ampliare i propri orizzonti, ma, al contrario, per rinchiudere sé stessi in una comfort-zone in cui gli unici suoni sono gli echi della loro voce e  le uniche cose che vedono sono i riflessi del proprio volto. I social media sono molto utili e piacevoli, ma sono una trappola. La maggior parte delle persone utilizza i social media non per ampliare i propri orizzonti ma per rinchiudere sé stessi in una comfort-zone
Ha descritto la disuguaglianza come una “metastasi”. È la democrazia a essere a rischio?
Potremmo descrivere ciò che sta accadendo in questo momento come una crisi della democrazia, il crollo della fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni: la convinzione che i nostri leader non siano solo corrotti o incompetenti,  ma addirittura inetti. L’azione richiede energia per essere in grado di fare le cose, e noi abbiamo bisogno della politica, che è la capacità di decidere cosa deve essere fatto. Ma l’idillio tra il potere e la politica nelle mani dello Stato nazionale si è rotto.  
Il potere ha assunto dimensioni globali mentre la politica ha mantenuto la sua dimensione locale ed è rimasta fregata. La gente non crede più nel sistema democratico  perché non mantiene le sue promesse . Lo vediamo, ad esempio, con la crisi migratoria: è un fenomeno globale, ma noi ci comportiamo ancora con spirito campanilistico. Le nostre istituzioni democratiche non sono state progettate per affrontare situazioni di interdipendenza  e l’attuale crisi della democrazia è una crisi proprio delle istituzioni democratiche.
Adesso cosa pesa di più sulla bilancia: la libertà o la sicurezza?
Si tratta di due valori tremendamente difficili da conciliare. Per avere più sicurezza, bisogna rinunciare in parte alla libertà; se si vuole più libertà, inevitabilmente si ridurranno le misure di sicurezza. Questo dilemma sarà eterno. Quarant’anni fa eravamo convinti che la libertà avesse trionfato e abbiamo dato il via a un’orgia di consumismo. Tutto sembrava possibile, bastava solo un prestito di denaro: automobili, case… Ogni desiderio era realizzabile senza doverlo pagare subito.  La crisi migratoria è un fenomeno globale ma noi ci comportiamo ancora con spirito campanilisticoIl campanello d’allarme è scattato nel 2008, un anno amaro, quando i finanziamenti erano finiti e le casse prosciugate. La catastrofe, il collasso sociale che ne è seguito,  ha colpito in particolar modo le classi medie, trascinandole in quella situazione di precarietà in cui versano tuttora: non sanno se la loro azienda stia per essere acquisita o se saranno licenziati, non hanno nemmeno la certezza che ciò che hanno comprato a rate finora gli appartenga davvero. Il conflitto non è più tra le classi sociali, ma tra i singoli individui e la società. Non è solo una questione di mancanza di sicurezza, ma di mancanza di libertà.
Lei dice che ora il progresso è un mito, perché la gente non crede più che il futuro sarà migliore del passato.
Siamo in un periodo di interregno tra un momento in cui abbiamo avuto certezze e un altro in cui i vecchi modi di fare le cose non funzionano più. Non sappiamo cosa ci toccherà prossimamente. Stiamo sperimentando nuovi modi di fare le cose. La Spagna ha cercato di mettere in discussione questo stato di fatto con il movimento 15 Maggio (15M), quando la gente è scesa nelle piazze per discutere e confrontarsi,  nel tentativo di sostituire le procedure parlamentari con una sorta di democrazia diretta. Ma non è durato a lungo. Le politiche di austerità continueranno, nessuno le potrà fermare, ma queste persone potrebbero rivelarsi ancora vincenti nel trovare un nuovo modo di affrontare le questioni politiche.  
Lei sostiene che fenomeni come gli ‘Indignados’ o il movimento internazionale ‘Occupy’ sanno “come spianare la strada, ma non il modo per creare qualcosa di solido”.
Quando scende in piazza, la gente è disposta a mettere da parte le differenze in vista di un obiettivo comune. Se questo obiettivo è negativo, come ad esempio contestare qualcuno, ci sono più possibilità di successo. In un certo senso potrebbe essere vista come un’esplosione di solidarietà, ma la caratteristica di un’esplosione è di essere molto potente ma di breve durata.

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