Carmine Gazzanni
L'Espresso, 7 ottobre 2015
Era stata approvata Camera dopo la
condanna di Strasburgo per i fatti della scuola Diaz. Ma la legge è
caduta nuovamente nel dimenticatoio. Da cinque mesi, infatti, è
ferma in Senato. E, intanto, la Corte europea sta esaminando alcuni
ricorsi che potrebbero portare a nuove pesanti sanzioni per il nostro
Paese. Caduta nel dimenticatoio. Ancora una volta.
Sembrava che questa potesse essere la
volta buona e invece pare proprio che il nostro Paese non voglia
decidersi ad introdurre nel suo ordinamento penale il reato di
tortura. Nonostante i mille propositi di governo e Parlamento,
infatti, la legge è ferma ormai da oltre cinque mesi al Senato, in
una melina estenuante finalizzata a "spedire la legge in
soffitta e non parlarne più", come dice a L'Espresso Patrizio
Gonnella, presidente di "Antigone", una delle associazioni
più attive a riguardo.
Eppure tutti ricorderanno il pressing
dell'esecutivo ad aprile scorso per l'approvazione della legge. "Ciò
che è accaduto attiene a una pagina nera nella storia del nostro
Paese. E se vogliamo affrontare quella pagina nera, la prima cosa da
fare è introdurre subito il reato di tortura", aveva detto lo
stesso Matteo Renzi dopo la condanna della Corte europea dei diritti
dell'uomo per i fatti della scuola Diaz al G8 di Genova del 2001.
Detto fatto: due giorni dopo la condanna, sulla scia dello strazio e
dello sdegno di tutti, la Camera dei Deputati licenziava il testo che
poteva finalmente avviarsi al Senato per l'approvazione definitiva.
Da allora, però, è calato il sipario,
il silenzio e pure l'impegno concreto, nonostante scontiamo un
ritardo già di trent'anni, tra omissioni e negligenze, rispetto alla
Convenzione delle Nazioni Unite del 1984, sottoscritta dall'Italia
quattro anni dopo. Fa niente se nel testo, all'articolo 2, si dica
chiaramente che "ogni Stato parte adotta misure legislative,
amministrative, giudiziarie e altre misure efficaci per impedire che
atti di tortura siano commessi in qualsiasi territorio sottoposto
alla sua giurisdizione".
Parole al vento, dato che anche questa
volta, dopo l'approvazione alla Camera, il testo a Palazzo Madama è
praticamente sparito. Basti questo: dall'arrivo in Senato, la
commissione Giustizia (presieduta dal forzista Francesco Nitto Palma)
si è riunita solo sette volte. In pratica, una seduta al mese. Ma
non è tutto. "Il testo non solo si è bloccato - commenta
Gonnella - ma, pur vedendosi pochissime volte, al Senato sono stati
capaci di peggiorarlo rispetto a quello che era stato approvato dalla
Camera, che già di per sé era frutto di un compromesso al ribasso".
Insomma, siamo lontani anni luce dalle direttive Onu e comunitarie.
Come L'Espresso aveva già documentato,
infatti, il testo licenziato da Montecitorio introduceva sì il reato
di tortura ma lo faceva restare un reato comune, imputabile dunque a
qualunque cittadino, e prevedeva pene molto basse soprattutto se
raffrontate a quelle di altri Paesi. La Corte di Strasburgo ha
condannato l'Italia per le violenze alla Diaz e per non aver
introdotto il reato nel codice penale. Come prevede una Convenzione
Onu del 1984. Ma finora il Parlamento ha fatto di tutto pur di non
tener fede agli impegni. E il provvedimento ora all'esame della
Camera è assai lontano dal testo delle Nazioni Unite
"Ma al Senato si sono superati",
commenta sconsolato Gonnella. Sono state approvate modifiche per le
quali, ad esempio, affinché si possa parlare di tortura, devono
essere commesse più violenze. "È stato messo il plurale: una
sola violenza non basta per configurare una tortura. Senza
dimenticare - continua il presidente di Antigone - che è stato
deciso che quando si produce una sofferenza psichica, questa deve
essere verificabile. Il che è ovviamente impossibile, specie se,
come accade spesso in Italia, i processi durano anche dieci anni".
Insomma, al Senato tra rallentamenti e peggioramenti, il testo è
ormai bello che morto: "l'obiettivo è non approvarlo mai, o
tramite melina oppure peggiorandolo a tal punto che poi si dica che
questo testo così com'è non può essere approvato perché troppo
distante dalle indicazioni che aveva dato l'Onu sul reato di
tortura".
Intanto, però, dall'Europa potrebbero
arrivare presto nuove condanne per violazione dei diritti umani e
maltrattamento dei detenuti. E, paradosso dei paradossi, a quanto
pare il nostro Paese è consapevole del rischio. Pochi giorni fa è
stata presentata al Parlamento la "Relazione sullo stato di
esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo
nei confronti dello Stato italiano". Dal report emergono alcuni
dati interessanti, a cominciare dal fatto che contro il nostro Paese
sono stati presentati ben 10.100 ricorsi. Una cifra sbalorditiva se
si pensa che siamo secondi solo all'Ucraina (13.650). Contro di noi,
dunque, più procedimenti rispetto anche a Stati come la Russia
(10.000) o la Turchia (9.500).
Ma il punto è un altro. Tra i vari
procedimenti aperti spuntano anche "casi relativi ai disordini
durante il Vertice G8 di Genova". Secondo il rapporto, infatti,
la violazione del divieto di tortura e di trattamenti disumani in
relazione al comportamento tenuto dalle forze dell'ordine al G8 di
Genova è oggetto di altri due ricorsi pendenti alla Corte, proposti
complessivamente da 31 soggetti, tra cittadini italiani e stranieri,
arrestati e detenuti nella caserma di Bolzaneto. I magistrati dicono
chiaramente che "il contesto fattuale dei due ricorsi è
assimilabile a quello che ha dato luogo alla pronuncia di condanna
della Corte europea resa il 7 aprile 2015".
Ma non è finita qui. Nella relazione,
poco più avanti, si legge che risultano depositati "ulteriori
affari non ancora comunicati al Governo italiano". Affari che
"aggravano il quadro delle possibili, future condanne a carico
dell'Italia". Parliamo di casi in cui è emerso un "uso
sproporzionato della forza da parte delle forze dell'ordine nei
confronti di persone sottoposte a restrizione e mancanza di indagine
effettiva".
Tra i vari procedimenti, ad esempio,
c'è il "caso Saba". Siamo nel 2000, nel carcere di
Sassari. In occasione di un'operazione di perquisizione generale, si
registrarono episodi di violenza fisica e morale nei confronti dei
detenuti. Le indagini che seguirono portarono alla richiesta di
rinvio a giudizio per ben 90 agenti della polizia penitenziaria. Dei
61 imputati che optarono per il rito abbreviato, solo dodici furono
condannati a pene, tutte con sospensione, da quattro mesi ad un anno
e mezzo di reclusione per i delitti di violenza privata aggravata e
abuso di autorità contro arrestati e detenuti. Le condanne divennero
definitive soltanto per nove di loro. Quanto ai rimanenti 29 imputati
che non scelsero il rito abbreviato, nove vennero rinviati a giudizio
e poi assolti o prosciolti per intervenuta prescrizione, mentre per i
restanti venti fu pronunciata sentenza di non luogo a procedere.
Diverso sarebbe stato, probabilmente,
se l'Italia avesse avuto nel suo codice penale il reato di tortura.
Ed ecco perché ora rischiamo nuove pesanti sanzioni. E lo Stato è
consapevole di questo pericolo, tanto che - si legge ancora nella
relazione - "è all'attenzione delle competenti amministrazioni
l'ipotesi di una soluzione bonaria del contenzioso, per scongiurare
il rischio di ulteriore condanna per violazione del divieto di
tortura". Ma fa niente: meglio pagare e collezionare figuracce,
piuttosto che introdurre una legge che si aspetta da trent'anni.
Tanto poi, alla prossima condanna, una nuova ondata di sdegno ci farà
avere l'impressione che le cose stiano cambiando ancora. Prima di
tornare al solito silenzio. Lo stesso da trent'anni a questa parte.
Nessun commento:
Posta un commento