Mario Lavia
L'Unità 24 ottobre 2015
Pierluigi Castagnetti: “La scelta dell’incontro con la Dc
aveva un obiettivo grande: salvare la democrazia italiana Berlinguer
puntava a superare il sistema bloccato e aveva capito che Moro
coltivava lo stesso progetto”. «Non condivido tutto dell’articolo di Biagio de Giovanni, anche
se capisco che più passa il tempo e più cominciano a emergere i
limiti della strategia di Berlinguer, di cui è sempre giusto
valorizzare la figura». Pierluigi Castagnetti è molto sollecitato
dall’analisi del filosofo napoletano che sull’Unità ha aperto la
discussione sul leader del Pci. Uno con la sua storia certo è
sensibilissimo al tema del rapporto con i cattolici, il compromesso
storico, la questione morale: ma a Castagnetti, protagonista da tanti
anni della vita politica, non sfuggono anche aspetti più legati alla
vicenda del comunismo italiano, vicenda peculiare, ricca e
controversa.
Partiamo proprio dal comunismo, onorevole Castagnetti, da
quel comunismo entro i cui confini, seppure in modo originale,
Berlinguer rimase fino all’ultimo. E che malgrado le aperture
dell’ultimo periodo lo tennero distante dalle esperienze riformiste
europee. De Giovanni mi pare sia molto critico su questo punto.
«Intanto voglio sottolineare che i ritardi non furono solo di
Enrico Berlinguer ma di tutto il Pci, soprattutto sul comunismo
dell’est ma non solo. Più in generale io penso che su molte cose
Berlinguer esitò perché non tutto il suo partito lo avrebbe
seguito. Ma per stare alla questione che mi pone, certamente il 1989
è accaduto senza che il Pci se ne accorgesse, basterebbe dire che il
Muro è crollato addosso al Pci per dire del suo ritardo e della
profondità della sua crisi. Lui era un uomo della sua epoca, certo,
ma anche quando intravide qualcosa di nuovo preferì tirare il freno
a mano. Non c’è dubbio che faticava a capire la logica del mercato
e della liberaldemocrazia, restando per questo diffidente verso la
socialdemocrazia. Direi che in un certo senso Berlinguer era più
comunista di Togliatti, aveva ancora più netta l’idea della
presenza di una diversità comunista nella storia d’Italia».
Una diversità persino antropologica, si disse. Che si
sposava bene con le caratteristiche personali dell’uomo: ma non fu
proprio questo un motivo del suo fascino intellettuale?
«Si è parlato di Berlinguer quasi come di un’asceta della
politica. In questo vedo una somiglianza con Benigno Zaccagnini: nel
distacco dall’interesse personale, in questa concezione quasi
“missionaria” della politica, nella coerenza fra essere e
apparire. Un tratto che mi ha sempre molto colpito».
Tra l’altro questo tessuto “personale”, questo modo
di vivere la politica, probabilmente ha avuto un ruolo importante
anche nella teoria dell’incontro fra comunisti e cattolici, le due
grandi componenti della società italiana che avrebbero dovuto unirsi
nel grande “compromesso”. Regge alla critica, oggi, il
compromesso storico?
«Ho visto che de Giovanni ne dà una lettura molto critica. Lui
scrive che lì non c’era un’idea di futuro. Ma io su questo
difendo Berlinguer. Quella scelta, che aveva una sua corrispondenza
con il pensiero di Moro, era il frutto di un’adesione al principio
di realtà, era fortemente ancorata al momento storico. Un progetto
politico non può non tenere conto della situazione concreta. E in
quella fase Berlinguer diceva che salvare la democrazia italiana era
un obiettivo grande, e in effetti dopo la Resistenza era la prima
volta che il Pci si faceva carico di difendere il patrimonio
repubblicano, anche a costo di scontare forti critiche alla sua
sinistra».
Ma detta così non era un’impostazione difensiva? O
addirittura conservatrice?
«In parte è vero che era un conservatore, ma il suo disegno era
profondamente innovatore. Per questo non condivido il giudizio di de
Giovanni. Berlinguer voleva costruire le condizioni per superare la
fase in sui si trovava allora il sistema politico, quella che
Leopoldo Elia chiamava “la democrazia ad excludendum”, in vista
di un progressivo compimento della democrazia italiana. E aveva
capito che Moro coltivava lo stesso progetto, quello di costruire una
democrazia nella quale si compete liberamente per il governo. Infatti
Moro spingeva perché il Pci facesse altri passi avanti nel senso di
assumere pienamente una cultura di governo. Il disegno era
profondamente innovatore».
Quindi il compromesso storico era una fase intermedia?
«Si trattava di creare le condizioni per mettere mano a una
riforma delle istituzioni capace di garantire l’alternanza. Avendo
chiuso per sempre con l’idea rivoluzionaria, il Pci aveva capito da
tempo che il potere lo si acquisisce con il consenso, capì meno che
occorrono anche istituzioni che ti consentano di arrivarci. Ma il
compromesso storico era una giusta intuizione anche perché se il Pci
si fosse alleato con i socialisti contro la Dc si sarebbe creato non
dico un rischio “cileno” ma certo un grande problema non solo
internazionale, perché la Dc era una forza reale nella società
italiana».
Alla fine degli anni Settanta però quella strategia viene
messa da parte. Castagnetti, lei era molto vicino a De Mita in quegli
anni: cosa pensavate dell’ultimo Berlinguer?
«Berlinguer oggettivamente si chiamò fuori dal dibattito di
quegli anni che fu tutto fra De Mita e Craxi che litigavano sul tipo
di modernizzazione del Paese. De Mita accusò il segretario del Pci
di isolarsi e capì che il Pci stava entrando in crisi. Ucciso Aldo
Moro, Berlinguer si tirò fuori dal gioco ma rimase senza gioco».
Tuttavia allora ci fu la famosa intervista sulla
questione morale che fornì una forte immagine del segretario del
Pci.
«Quello fu un discorso rigoroso, suggestivo soprattutto per tanti
giovani cattolici. Però ebbe un limite, secondo me, e cioè che lui
sembrò farne un discorso di etica personale, di onestà
amministrativa, e invece smarriva l’idea di un’etica del sistema,
e qui ancora una volta si torna sul tema delle riforme istituzionali.
Come si vide dieci anni dopo, la corruzione non era solo un fatto di
correttezza individuale ma un problema di riforme del sistema delle
regole. Ecco perché la questione morale di Berlinguer venne vista
come un’accusa moralistica più che come indicazione politica. E lo
stesso si può dire dell’austerità».
La famosa critica di un Berlinguer pauperista…
«Esatto. Anche in quella occasione non prevalse il messaggio
politico generale ma la predicazione di un certo modo di essere».
Non crede che forse Berlinguer si aspettasse di più, un
maggiore sostegno, dal mondo cattolico democratico? In fin dei conti,
quel “muro” tutto italiano non crollò.
«Come Togliatti, anche lui colse l’imprescindibilità della
questione cattolica. Ma si badi che a suo modo pure Craxi, che mai la
chiamò “questione cattolica”, con la revisione del Concordato di
fatto finì per riconoscerla, eccome… Il segretario del Pci aveva
molte sollecitazioni, da Tatò a Rodano, e aprì quel famoso dialogo
con monsignor Bettazzi, nel quale però forse non fece il passo
decisivo: scrivendo che “il Pci non era teista, né antiteista, né
ateista” Berlinguer rivelava una certa indifferenza ideologica,
anche se non morale. Capì l’importanza del ruolo della religione
nella storia di un popolo e la forza ideale della Chiesa, cercò di
far superare i pregiudizi dell’elettorato cattolico, ma l’esito
di questo sforzo non fu all’altezza della sua ambizione perché fu
fatto con troppa timidezza. Voglio dire che l’occasione dello
scambio di lettere con monsignor Bettazzi poteva essere utilizzata
meglio, poteva forse fare un salto di elaborazione più deciso. Ha
visto la strada ma l’ha percorsa con troppa timidezza. Ma
evidentemente le condizioni del suo partito, insisto su questo punto,
non glielo consentirono».
Questo vale anche sul piano ideologico generale?
«In Berlinguer c’era la consapevolezza della necessità di
andare avanti ma gli mancò la forza, per usare un’espressione di
Martinazzoli, di un “ricominciamento”. Un nuovo inizio che
implicasse anche il saper andare alla radice della storia iniziata
nel 1917. Ma di Enrico Berlinguer resta la lezione di una grande
personalità politica, di un uomo profondamente coerente».
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