Walter Veltroni
L'Unità 11 ottobre 2015
Fondato il 14 ottobre 2007, il Pd
compie 8 anni
«Fare un’Italia nuova. È questa la
ragione, la missione, il senso del Partito democratico. Riunire
l’Italia, farla sentire di nuovo una grande nazione, cosciente e
orgogliosa di sé. Unire gli italiani, unire ciò che oggi viene
contrapposto: Nord e Sud, giovani e anziani, operai e lavoratori
autonomi. Ridare speranza ai nuovi italiani, ai ragazzi di questo
Paese convinti, per la prima volta dal dopoguerra, che il futuro
faccia paura, che il loro destino sia l’insicurezza sociale e
personale. Per questo nasce il Partito democratico. Che si chiamerà
così. A indicare un’identità che si definisce con la più grande
conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane
possono esistere e convivere solo con la libertà individuale e
collettiva, con la piena libertà delle idee e la libertà di
intraprendere. Con la libertà intrecciata alla giustizia sociale e
all’irrinunciabile tensione all’uguaglianza degli individui, che
oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità per ognuno.
Il Partito democratico, il partito di
chi crede che la crescita economica e l’equa ripartizione della
ricchezza non siano obiettivi in conflitto, e che senza l’una non
vi potrà essere l’altra. Il Partito democratico, il partito
dell’innovazione, del cambiamento realistico e radicale, della
sfida ai conservatorismi, di destra e di sinistra, che paralizzano il
nostro Paese. Il Partito democratico, il partito che dovrà dare
l’ultima spallata a quel muro che per troppo tempo ha resistito e
che ha ostacolato la piena irruzione della soggettività femminile
nella decisione politica e nella vita del Paese. La rivoluzione delle
donne ha affermato in tutte le culture politiche il principio del
riconoscimento della differenza di genere come elemento costitutivo
di una democrazia moderna. È questa esperienza che dovrà essere
decisiva, fin dal momento della fondazione del nostro partito. Il
Partito democratico, un partito che nasce dalla confluenza di grandi
storie politiche, culturali, umane. Che nasce avendo dentro di sé
l’eredità di quelle formazioni che hanno restituito la libertà
agli italiani, di quelle donne e di quegli uomini che hanno pagato
con il carcere e con la propria vita il sogno di dare ad altri la
libertà perduta.
Quelle formazioni che hanno fatto
crescere l’Italia e gli italiani, che hanno portato il nostro Paese
a trasformarsi da una comunità sconfitta a una delle nazioni che
siedono a pieno titolo al tavolo dei grandi della Terra: quanta
strada è stata fatta, da quando Alcide De Gasperi, alla Conferenza
di Pace di Parigi, si rivolgeva al mondo che lo ascoltava dicendo:
“Tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”.
Quelle formazioni che hanno combattuto il terrorismo e l’hanno
sconfitto. Ma il Partito Democratico non è la pura conclusione di un
cammino. Se lo fosse, o se si raccontasse così, inchioderebbe se
stesso al passato. Invece, ciò di cui l’Italia ha bisogno è un
partito del nuovo millennio. Una forza del cambiamento, libera da
ideologismi, libera dall’obbligo di apparire, di volta in volta,
moderata o estremista per legittimare o cancellare la propria storia.
Un partito che non nasce dal nulla, e insieme un partito del tutto
nuovo. È quello a cui ha pensato, a cui ha lavorato, per cui si è
speso con coerenza e determinazione il fondatore dell’Ulivo, Romano
Prodi.
Il Partito democratico, un partito
aperto che si propone, perché vuole e ne ha bisogno, di affascinare
quei milioni di italiani che credono nei valori dell’innovazione,
del talento, del merito, delle pari opportunità. Quei milioni di
italiani che nelle imprese, negli uffici e nelle fabbriche dove
lavorano, nelle scuole dove insegnano, sentono di voler fare qualcosa
per il loro Paese, per i loro figli. Quei milioni di italiani che si
impegnano nel volontariato, che fanno vivere esperienze quotidiane e
concrete di solidarietà. Quei milioni di italiani che trovano la
politica chiusa, e che se provano ad avvicinarsi ad essa è più
facile che si imbattano nella richiesta di aderire ad una corrente o
ad un gruppo di potere, piuttosto che a un’idea, ad un progetto.
Sono convinto che il 14 ottobre sarà un giorno importante per la
democrazia italiana. Nasce, in forma nuova, un partito nuovo. Nasce
consentendo a chiunque creda in questo progetto di iscriversi,
naturalmente e direttamente, e di candidarsi. Associazioni e gruppi,
comitati e movimenti, singole persone potranno, nello stesso momento,
formare un nuovo partito e decidere gli organi dirigenti e il leader
nazionale. È un fatto mai accaduto prima. È stato sempre più
facile che nuovi partiti nascessero da scissioni o da proiezioni
personali di leader carismatici. Nel Partito democratico ognuno sarà
e dovrà essere, fin dal primo momento, alla stessa stregua
dell’altro. Per questo abbiamo voluto il principio “una testa, un
voto”». Ho iniziato con questa lunga citazione del discorso del
Lingotto del 2007 per ricordare a noi tutti le ragioni fondanti del
Partito democratico. E lo faccio a tre giorni dall’anniversario,
l’ottavo, della nascita del PD.
Quella scelta fu sancita da 3 milioni e
mezzo di persone che si recarono ai gazebo organizzati in tutta
Italia per votare alle primarie. Alle elezioni successive, pur in una
situazione politica terribile, ottenne più di dodici milioni di
voti. Una cifra che resta il record assoluto del consenso ai
democratici. Pochi mesi dopo, a un anno dalle primarie, ci
ritrovammo al Circo Massimo in quella enorme manifestazione che è
nella memoria di tutti con l’idea di fondare una opposizione
riformista di massa al governo Berlusconi. Con un progetto di fondo:
dimostrare che non era vero che la sinistra potesse solo avere, in
questo paese, un profilo minoritario e che l’unico compito che
dovesse assegnarsi era trovare alleanze spurie e improbabili pur di
governare, a scapito della reale praticabilità di un progetto
riformista di radicale cambiamento della società italiana. Era
quella che si chiamava “vocazione maggioritaria”, senza la quale
il Pd non aveva e non ha senso. Mettemmo delle radici buone e solide,
pur in una stagione arida.
Nel corso di questi anni prima con
Dario Franceschini, poi con Pier Luigi Bersani e infine con Matteo
Renzi, che all’ispirazione di quella nascita ha fatto più
esplicito riferimento, la pianta del riformismo democratico in Italia
è cresciuta. Oggi è governo e, comunque la si veda, è governo del
cambiamento. Oggi è tornata sopra il trenta per cento dei consensi
in modo stabile. Oggi è il più grande partito politico europeo, il
più grande della sinistra del continente. Tutto bene , dunque?
Meglio, ma non tutto bene. Torno alle parole che ho scelto per
concludere la citazione del Lingotto. Davvero oggi il Pd è un
partito di “una testa, un voto”? O la vita di questa comunità,
che continua a inverarsi nella società italiana, non rischia di
essere sequestrata da un correntismo senz’anima, più potere che
politica, più trasformismo che pluralismo? Allora si avvicinarono ai
democratici tante persone che volevano dare una mano, partecipare ad
un progetto aperto e inclusivo. Le vecchie appartenenze, per di più
frantumate in gruppi e fazioni contrapposte, alzarono muri o chiesero
adesione correntizia. E non hanno smesso di farlo. Così molti si
sono allontanati e la logica dei gruppi ha finito con l’inficiare
la vita del partito, col renderla asfittica, col sottrarle la
meraviglia della discussione libera, della selezione su base di
merito dei gruppi dirigenti. Persino le primarie, che erano il senso
alto della sfida di un partito aperto, sono diventate una gara tra
correnti interne. Correnti non animate, lo ripeto e ciascuno lo vede,
non da differenze politiche e ideali, inevitabili in un grande forza,
ma da un scientifica ricognizione delle convenienze. La penso, ancora
una volta, come Romano Prodi: «Io sono l’uomo delle primarie,
quindi. Ma sono un mezzo delicatissimo e vanno regolate. Non essendo
stata fatta una legge sulle primarie né una regolamentazione, anche
questo strumento è stato indebolito entrando in crisi».
Nella mia ultima legislatura da
parlamentare presentai insieme ad Arturo Parisi un disegno di legge
per lo svolgimento delle primarie. Mi piacerebbe che si riprendesse
quel dibattito. Altrimenti anche quello strumento straordinario,
necessario in un partito davvero moderno, può diventare la conta in
platee sempre più ristrette, con gli orrori delle partecipazioni
inconsapevoli e organizzate alle quali il correntismo esasperato ci
ha costretto. Un partito forte non è, ormai, un partito strutturato
come nel passato. Ma è forte solo se è aperto, se coltiva il
discorso politico, se rifiuta i consensi ipocriti e l’opposizione
«a prescindere» come diceva Totò. Se fa vivere il protagonismo dei
circoli e dei loro militanti, che bisogna ascoltare e rendere liberi
dalla catene delle correnti. Il riformismo italiano è oggi di fronte
a una prova carica di possibilità. Può intestarsi l’uscita dalla
più grave crisi economica del dopoguerra, la ripresa del lavoro, un
buon pacchetto di riforme, una nuova credibilità del nostro paese
nel mondo. Ma deve aprirsi, deve includere, deve smontare le
casematte dietro le quali si possono nascondere anche usi
spregiudicati del potere, specie a livello locale. Quello che
fondammo, otto anni fa, tutti insieme, era un grande partito
riformista. Partito, come comunità aperta che discute e decide
liberamente. Riformista, soggetto della modernizzazione e della
giustizia sociale inedito in un paese che spesso ha scisso questi due
termini. Partito e riformista. Buon compleanno, Pd.