martedì 22 ottobre 2013

Renzi vuole i voti di Grillo

 di Marco Damilano

In una settimana decisiva per la corsa a segretario Pd (da venerdì c’è l’appuntamento alla Leopolda)  Matteo aumenta i toni battaglieri. Contro la politica tradizionale, a caccia dell’elettorato grillino. Dicendo la sua su tutto: dall’amnistia ai salotti buoni, dalle larghe intese alla Cgil

Mica facile cambiare verso, quando tutto rema contro di te. Matteo Renzi apre una settimana decisiva per la sua candidatura a segretario del Pd. Si concluderà tra venerdì e domenica con l’incontro della stazione Leopolda di Firenze, il tradizionale raduno dei renziani ormai giunto alla quarta edizione. E deve attraversare il terreno minato dei congressi locali (di circolo, di federazione, provinciali) dove votano i tesserati, gli iscritti e dove le cordate consolidate valgono molto di più di qualsiasi vento di cambiamento.
Cambiaverso è lo slogan di Renzi, sperimentato una settimana fa in un difficile esordio a Bari. Quando Renzi ha preferito mettere da parte i fogli già scritti e usare toni più battaglieri, improvvisando, camminando su e giù su una pedana, facendo scivolare il microfono da una mano all’altra con la disinvoltura dell’attore di professione. E accentuando la sua immagine di outsider in guerra contro i poteri costituiti: «Sono stato troppo gentile un anno fa a parlare di rottamazione. Qui c’è un intero establishment che ha fallito. Serve una rivoluzione radicale!».
Anche a costo di far scorgere dietro di sé l’ombra di Beppe Grillo. Come ha insinuato il ministro Flavio Zanonato, avversario interno del sindaco:«Renzi è come Grillo». In sintonia con il settimanale cattolico “Famiglia Cristiana”: «Grillo sul reato di clandestinità e Renzi su indulto e amnistia assecondano la pancia del Paese, anziché portare avanti idee e valori».
Non c’è nulla di improvvisato, in realtà, nella nuova strategia renziana. Ma il punto è che la caccia all’elettorato più mobile, in cerca di nuovi riferimenti dalla Lega al Pdl, è l’obiettivo storico di Renzi. E quelli di Grillo sono i voti più mobili di tutti.Un anno fa Renzi puntava sulla cassaforte dei consensi berlusconiani, l’invincibile armata del Pdl in rotta con il condottiero di Arcore fuori gioco.
Una tattica dell’attenzione verso l’elettorato del Cavaliere smarrito: attacco alla Ditta post-comunista rappresentata da Massimo D’Alema e da Pier Luigi Bersani, riabilitazione dei finanzieri ben introdotti nella City (e nei paradisi fiscali) alla Davide Serra, sfida aperta alla Cgil di Susanna Camusso.
Oggi il vero target su cui puntare è un altro, gli 8 milioni di voti raccolti alle elezioni del 2013 dal Movimento 5 Stelle di Grillo. «I giovani, i disoccupati, gli operai, gli imprenditori che non votano più per il Pd», li elenca Matteo il candidato nei suoi interventi.
Che i due ambienti, quello renziano e quello grillino, siano confinanti lo dimostra una storia di frontiera, la battaglia nel Pd di Ventimiglia dei capi del partito contro Carlo Iachino. Candidato sindaco per conto di Marco Caudano, ex segretario cittadino del Pd, renziano della primissima ora, è stato pizzicato sul sito del locale meetup grillino come iscritto al Movimento (dal primo marzo 2013), con tanto di foto.
Un caso isolato? Mica tanto. Già nel mese di marzo, subito dopo il voto, le indagini di Nando Pagnoncelli segnalavano che il 60 per cento dell’elettorato grillino avrebbe preferito Renzi come leader rispetto al 40 dell’ex comico ligure.
Nei mesi successivi, con il governo delle larghe intese, Renzi si è ancora più caratterizzato come il possibile demolitore dell’attuale equilibrio fondato sul governo Letta, come hanno riconosciuto due quotidiani abissalmente distanti come il berlusconiano (ancora per quanto?) “Il Giornale” e l’anti-berlusconiano “Il Fatto quotidiano”.
«C’è un’Italia del cambiamento di cui fanno parte a titolo e con obiettivi diversi Berlusconi, Renzi e Grillo. E un’altra arroccata attorno al Quirinale, con Letta e Alfano.
Un’inedita versione di bipolarismo», ha scritto il direttore del foglio di Arcore Alessandro Sallusti. «Renzi vincerà perché è l’unico a violare il tabù che impone il bacio della pantofola a Giorgio Napolitano, l’unico che non si prosterna alla vera “nuova destra”, l’accrocco contro natura delle larghe intese che ha sul Colle la sua cabina di regia», prevede Paolo Flores d’Arcais sul giornale diretto da Antonio Padellaro, attentissimo a registrare e rilanciare le posizioni e gli umori del Movimento 5 Stelle, messo ora sotto tiro dal blog di Beppe Grillo dopo le critiche alla sconfessione del capo e di Casaleggio nei confronti dei senatori grillini che avevano votato per abolire il reato di immigrazione clandestina.
«In Italia si confrontano il partito trasversale della stabilità, ben rappresentato dal governo di Enrico Letta, e un partito trasversale della discontinuità», spiega il sondaggista Roberto Weber (ieri alla Swg, oggi fondatore dell’istituto Ixè), il primo a individuare un anno fa il boom del voto grillino. «Sono elettorati che in parte si sovrappongono, si equivalgono nei sondaggi, insieme raggiungono il 70 per cento, il restante 30 non si schiera. Renzi aspira a guidare il fronte della discontinuità, molto più frammentato di prima».
Il gruppo degli indecisi resta stabile: il 37-38 per cento degli italiani, se ci fossero ora nuove elezioni, non saprebbe se votare e a chi dare la sua preferenza, è il campo su cui il sindaco gioca la sua partita perché, sottolinea Weber, «per lui non esiste una campagna per la segreteria del Pd e una per la premiership, nella sua testa sono la stessa cosa, stessi messaggi, stesso elettorato su cui puntare».
La mossa a sorpresa del discorso di Bari, il no alla legge di amnistia e all’indulto ipotizzata dal presidente Napolitano nel suo messaggio alle Camere, ha raggiunto l’effetto desiderato. Quasi tutto il ceto politico, a partire dai ministri Zanonato, Emma Bonino, Maurizio Lupi, si è scagliato contro il guastafeste, l’opinione pubblica però è schierata dalla sua parte, quasi il 70 per cento è contro un provvedimento di clemenza che svuoti le carceri. E il fragoroso no al Quirinale ha oscurato altri punti della nuova versione di Matteo sperimentata una settimana fa a Bari.
La rimessa in discussione dei parametri di Maastricht, per esempio: «Il 3 per cento è un criterio di 20 anni fa che risale a un altro mondo e a un’altra Europa: va superato». E la dichiarazione di guerra nei confronti dell’establishment, non più solo politico: «Telecom, Alitalia… Ci sono commentatori che scrivono lo stesso pezzo da decenni, un salotto pigro che ha fatto il suo tempo. Fanno bene ad aver paura di me». Riferimento al “Corriere della Sera” che dopo averlo vezzeggiato per mesi sembra averlo abbandonato.
Temi e modi espressivi che sembrano studiati per aggredire l’elettorato di 5 Stelle deluso dai parlamentari grillini, ma anche per segnare un fossato tra il sindaco e i politici tradizionali. «A sinistra c’è paura del populismo, ma grandi leader democratici hanno dimostrato una sintonia con il popolo, da Bill Clinton a Tony Blair», osserva Antonio Funiciello, giovane responsabile comunicazione del Pd, uno degli emergenti renziani, un liberal lontano da tentazioni giustizialiste, eppure convinto che intercettare il consenso in politica non sia un male, anzi.
Il resto del partito, però, continua a considerare Renzi un campione dell’anti-politica. «Sapete come mi ha spiegato la sua idea di ricandidarsi a sindaco di Firenze anche in caso di elezione alla segreteria del Pd?», ha raccontato quasi scandalizzato l’attuale numero uno di largo del Nazareno Guglielmo Epifani.
«Mi ha ripetuto che non vuole passare la sua vita a Roma, che ha bisogno di non perdere contatto con la realtà». Un osservatore come il politologo Roberto D’Alimonte, editorialista del “Sole 24 Ore”, pensa l’opposto: «Renzi deve mantenere la sua diversità, se fosse percepito come gli altri sarebbe la sua fine. E deve continuare a prendere voti fuori dal perimetro della sinistra».
Ancora più preoccupati sono a Palazzo Chigi, dove siede Enrico Letta, percepito dai renziani come il campione dell’establishment e dei patti di sindacato (sempre più fragili) che governano la politica e che reggono l’economia. Più affidabile e rassicurante presso i salotti buoni del rivale fiorentino, come si è visto al momento di scegliere il nome per Palazzo Chigi. Renzi, in realtà, non era mai stato nell’agenda di Napolitano.
Il presidente è considerato da Grillo l’avversario numero uno, è finito nelle polemiche dal palco della manifestazione sulla difesa della Costituzione e ha sempre potuto contare su una leadership del Pd pronta a recepire le sue indicazioni. Se Renzi fosse eletto segretario sarebbe la prima novità: un leader del Pd autonomo dal Quirinale. E Grillo non sarebbe più l’unico a dire di no al Colle.

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