Marco Damilano
Si chiude con un irresistibile Jovanotti, «in questa notte
fantastica/che sembra tutto possibile/ribalteremo il mondo», la
gigantesca ex stazione Leopolda diventa un enorme discoteca in cui
migliaia di corpi ondeggiano. Il momento in cui Matteo l’icona pop che
per tre giorni introduce video di Benigni e di Bisio, quello che «se
avesse le tette farebbe anche l’annunciatrice», come diceva Enzo Biagi
di Berlusconi, e Renzi il politico scafato abilissimo nella manovra e
micidiale nell’esecuzione tornano a essere una sola persona. Perché la
Leopolda vista in questi giorni è qualcosa di più dell’ormai arcinota
cattedrale post-rivoluzione industriale, caotica, affollata, di giovani,
anziani, bambini, amministratori, telecamere, circo mediatico scatenato
e finalmente a suo agio nel suo habitat naturale, dove messaggi,
suggestioni, seduzioni rimbombano senza limiti. È il cuore pulsante del
progetto Renzi per cambiare il Pd e poi, chissà, il Paese. È il suo
partito. Tanto più significativo ora che in apparenza il Leader non
avrebbe bisogno di tenerlo vivo, gli basterebbe aspettare e prendersi il
potere, tra quaranta giorni, l’8 dicembre, in un altro partito: il Pd.
Ero tra quelli che temevano alla Leopolda l’assalto di combattenti,
reduci e riciclati, i colonnelli e qualche generale dell’esercito
sbagliato, quello del centrosinistra degli anni Duemila che ha perso
tutte le battaglie. E credevo che questa sarebbe stata l’ultima edizione
del raduno fiorentino: si spiegava quando Renzi era un outsider, un
sindaco fuori dai circuiti romani con l’esigenza di farsi sentire e di
dare voce a quelli come lui, una minoranza in un partito che a ogni
edizione, puntualmente, organizzava una contro-programmazione, un altro
evento nazionale del Pd per condizionare o oscurare l’appuntamento
renziano. Ma ora che, come sembra, tra qualche settimana Renzi
conquisterà il vertice del Pd, mi chiedevo, che bisogno avrà di
continuare a riunirsi alla Leopolda?
Mi sbagliavo. E la risposta alle mie domande è arrivata fin dalla
prima sera, ai cento tavoli programmatici riuniti sotto la volta della
stazione. Tavoli tondi a metà strada tra il ricevimento di nozze, il
bingo e il condominio. Una babele, chi parlava di stabilimenti balneari e
chi di polenta, chi di marketing e chi di riforme, chi di femminicidio e
chi, Dio lo perdoni, di packaging for news, talmente criptico che
perfino i partecipanti di quel tavolo avevano preferito parlare d’altro.
Neppure un tavolo sul Pd. Eppure i tavoli già erano un indizio per
capire come sarà il Pd di Renzi. I politici di professione, deputati e
senatori, renziani e non, della prima e dell’ultima ora, si perdevano
nel colpo d’occhio del grande dibattito a cielo aperto. La contromisura
presa dal Bimbaccio alla Leopolda, qui le regole le detta lui. Nessun
politico di professione al microfono, se non i sindaci come Piero
Fassino o Michele Emiliano, e il segretario del Pd Guglielmo Epifani che
si sta dimostrando di una pazienza infinita. Ci voleva capacità di
sopportazione senza limiti per non scomporsi troppo di fronte alla
sequenza di accuse che piovevano dal palco sulla testa dell’ex
segretario della Cgil. «I sindacati hanno rubato il futuro ai giovani»,
sparava Davide Serra, il finanziere della City di Londra che un anno fa
aveva provocato una campagna dell “Unità”, di Ugo Sposetti, del gruppo
bersaniano contro il sindaco amico dei paradisi fiscali. E poi botte
contro «l’accozzaglia di gerontocrati perdenti» che governa il
“Corriere” e contro i capitalisti italiani «che truccano le regole del
gioco». Quando è intervenuto Epifani sembrava appartenere a un’altra
epoca, quella della Cinquecento e della Vespa in mostra fuori la
Leopolda e sul palco.
Come sarà il Pd di Renzi, solido o liquido? Né l’uno né l’altro, sarà
un partito disciolto. Con i suoi vecchi dirigenti condannati a sparire
nel mare magnum della Leopolda, come Nicola Latorre o come Dario
Franceschini che entra in sala proprio mentre sul palco si evoca la
parola coerenza. I protagonisti continuano a essere altri: i non
invitati, un popolo costruito in anni di lavoro, che a questo punto ha
un linguaggio, un progetto, un percorso comune, qualcosa di molto raro
nella politica italiana degli ultimi anni. Un’appartenenza. Un’identità.
Ma flessibile, magmatica, mobile, non bloccata dalle ideologie, in
grado di assorbire, accogliere, ascoltare, rimettere in circuito.
«Noi siamo quelli che scommettono sulla politica», ed è la cosa più
di sinistra detta dal sindaco-rottamatore. Dopo anni di atti di fede e
di innamoramenti per la società civile, gli imprenditori, i tecnici e
gli attori comici, Renzi si candida a governare l’Italia da puro,
purissimo professionista della politica, uno che alla politica ci crede e
ne fa una scelta di vita. Renzi, presentato a ragione come il
distruttore della forma-partito, il destrutturatore degli antichi
apparati, è la vera alternativa della politica alla dissoluzione del
Pdl, diviso tra gli antichissimi riti dei consigli nazionali e dei
documenti di corrente senza più un partito forte in grado di sostenerli
come erano la Dc o il Psi o il Pci e la soluzione monarchico-ereditaria
Marina Berlusconi, ma anche alle piramidi tecnocratiche sostenute
dall’alto, il collante comune delle larghe intese alla Monti e alla
Letta, e al ciclone del Movimento 5 Stelle. È Renzi l’anti-politico il
difensore della nobiltà smarrita della politica. Solo un politico
strutturato può permettersi il lusso di fare l’elogio della semplicità.
Uno che si è costruito negli anni, non solo come comunicatore, uno che
ti offre la Nutella ma è abituato alle asprezze delle guerre politiche,
una sofisticatissima macchina da combattimento.
«Che cosa c’entra la Leopolda con la politica?», si chiede infatti il
ministro Graziano Delrio, qualcosa di più di un numero due della
gerarchia renziana, per Matteo una specie di fratello maggiore saggio,
paziente e giusto, con l’esperienza del medico e del padre di nove
figli, l’ideale per un leader che divora colonnelli e mal sopporta
consiglieri. «Il partito è uno spazio pubblico, come la sanità o la
scuola, ma io vorrei che si riunisse per parlare di Imu o della Siria,
non solo per eleggere i segretari di circolo, porco boia!». L’Onda
renziana, per la prima volta, si misura con la possibilità di vincere.
Ma anche con la necessità di attendere: il tempo delle elezioni si
allontana. E l’agenda si aggiorna,si infittisce: riforma elettorale in
senso maggioritario, eliminazione del Senato, chiusura delle
amministrazioni provinciali. La novità più forte: la riforma della
giustizia, «ineludibile, ce lo dice la storia di Silvio», spiega Renzi,
trattiene il fiato come tutta la platea, «nessun fischio, bene: dico
Silvio Scaglia, l’amministratore di Fastweb ingiustamente detenuto, non
l’altro Silvio», meno male. L’Europa e l’attacco ai parametri e
all’assenza da Lampedusa e dal Mediterraneo, «lady Ashton è stata un
disastro» (D’Alema sarà stato contento). Il lavoro, con l’attacco alla
sinistra e ai suoi tabù, «una sinistra che non aiuta a creare posti di
lavoro in più non è sinistra, la sinistra che conserva non è sinistra, è
destra». E la cultura, con la riapertura di un fronte polemico evocato a
Verona al momento di lanciare la candidatura a premier il 13 settembre
2012: gli intellettuali, «dai sovrintendenti agli editorialisti», i
conservatori del pensiero che «con la storia del ‘68 continuano a
raccontare una storia non vera». La sera prima era stato un altro
intellettuale a regalare a Renzi un paio di forbici per tagliare le
corde che tengono imprigionato Gulliver: lo sceneggiatore Umberto
Contarello, un ex ragazzo della Fgci di D’Alema. Con toni e stili
diversi lo stesso aveva fatto l’amministratore delegato di Luxottica
Andrea Guerra, uno dei volti da copertina della tre-giorni renziana.
Volti di un’Italia psicologicamente fuori dalla crisi, né vuotamente
ottimisti e neppure succubi della propaganda governativa, tipo «la
ripresa è arrivata, siamo fuori dal tunnel» ecc.
Chi farà tutte queste cose? Il governo Letta? Mai nominato. Il Pd
formato Renzi? È un’incognita. Le elezioni anticipate si allontanano dal
radar, almeno per ora. Non si possono fare perché non le vuole
Napolitano e non le vuole l’Europa. Ma il sindaco non smette di
pensarci, in realtà. La sua apertura di credito verso questo Parlamento è
tutta renziana, «è tra i Parlamenti tra i più giovani d’Europa», sono i
parlamentari ragazzini, spiega Renzi, ad avere tutto l’interesse a
passare alla storia come quelli che hanno fatto le riforme. Non la
commissione dei saggi, e neppure il governo, ma «la commissione dei
bischeri», che a Firenze non è una parolaccia, anche se i bischeri
persero tutto. Come in bilico tra trionfo e sconfitta resta Renzi. «Se
pensate che uno da solo possa cambiare tutto vi sbagliate», conclude il
candidato segretario ed è l’ultima ammissione, quasi intimista. «Ma non
ho paura della leadership, troppi a sinistra la temono, la leadership
non è una parolaccia». Come ha scritto il politologo Mauro Calise nel
suo ultimo libro (Fuorigioco, Laterza), da troppo tempo la squadra del
centrosinistra tarda a passare la palla alla sua punta d’attacco,
finendo per metterla in fuorigioco. Ecco uno che occupa tutte le zone
del campo e che la palla va a cercarsela da solo. Con il rischio,
solito, di finire affondato in un terreno di gioco impraticabile e
infido. Nelle prossime settimane Renzi dovrà guardarsi da serpenti e
coccodrilli che affollano il Pd. La Palude che un anno fa era esterna al
partito ora Renzi ce l’ha in casa. Per questo non smetterà di guardare
altrove, verso un elettorato più largo, che non si riconosce in nessun
partito o è stato deluso da tutti. La Leopolda è la metafora che tutti
contiene, il suo partito senza bandiere e senza simboli. E la verifica
degli impegni presi ieri nella ex stazione sarà fatta l’anno prossimo
ancora qui, ancora una volta in una nuova edizione della Leopolda. Fuori
dalle sedi ufficiali del partito, lontano dal Pd. Oltre le larghe
intese, l’anno da far passare, oltre questo quadro politico, oltre il
Pd, come da tempo è il candidato segretario. Forse, perfino, almeno come
l’abbiamo conosciuto in questi anni, oltre Matteo Renzi.