giovedì 3 dicembre 2015

Gli investimenti sono arrivati: la ripresa dov’è?


Tortuga dal blog l'inkiesta
Il governo Renzi ha deciso di rinunciare alla redistribuzione e si è lanciato su riforme per aumentare la produttività e la crescita. Ma se gli investimenti finalmente tornano a salire, ora servono segnali dalla produttività per consolidare la ripresa dopo un ventennio bruciato
Stefano Fassina ha definito la politica economica di Matteo Renzi un “liberismo da happy days”, Berlusconi lo accusa di “copiare il nostro programma”, Brunetta e i Cinque Stelle la giudicano fallimentare e incoerente. In effetti, le ricette economiche di Renzi non erano chiare fin dall’inizio, hanno piuttosto preso forma col proseguire degli eventi e dell’azione di governo, passo dopo passo, cercando di mantenere un equilibrio politico precario e cogliendo le occasioni quando si presentavano.
Questa politica economica, giudicata da alcuni un po’ “à la carte”, si è lanciata con forza su riforme riconosciute come “prioritarie”, “di buon senso”, “necessarie” per il rilancio dell’economia in termini produttività e crescita. Piuttosto che da una volontà di redistribuzione della ricchezza o di difesa di particolari interessi o classi sociali, la Renzinomics sembra partire dal concetto che in vent’anni di mancate riforme l’economia italiana sia rimasta ben al di sotto della sua frontiera di efficienza, lasciando ampio spazio per provvedimenti “pareto improving”, in grado nel lungo periodo di alzare tutte le barche, aumentando la torta per tutti. Pochi preconcetti (si parte “da sinistra” ma anche “parlando alla parte più produttiva del Paese”), molto focus sui risultati. Per questo forse il dibattito sui dati è più infiammato del solito: la pura efficacia in termini economici della politica di Renzi è per molti la discriminante fondamentale nel giudizio sul governo.
“Secondo l’Ocse, se implementate fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad un rialzo del Pil del 6 per cento”
Purtroppo, i dati non sono così semplici da interpretare, ma sono facili da estrapolare e sfoderare in un discorso o in un “cartello” di un programma televisivo. Crediamo invece sia utile tirare un attimo le fila riguardo ai fondamentali della nostra economia: crescita, debito e finanza pubblica, lavoro, diseguaglianza e povertà saranno i capitoli su cui costruiremo questa analisi. Facciamo quindi una panoramica volutamente generale, confrontando l’Italia con i partner europei, guardando agli ultimi decenni e utilizzando qualche stima nel breve periodo da fonti autorevoli.
In termini reali l’Italia ha sicuramente recuperato terreno rispetto ai principali partner europei. La crescita del nostro Paese raggiungerà livelli di poco inferiori alla Germania nel 2016, superando la Francia. Padoan you-tuber annuncia questo risultato come il successo della politica di riforme, che ha restituito credibilità e capacità di innovare al Paese. Questa visione è in buona parte condivisa da molti analisti, dalla Commissione Europea e dall Ocse, secondo cui “se implementate fino in fondo le riforme introdotte in Italia potrebbero portare ad un rialzo del Pil del 6 per cento”. Tra queste riforme, si citano la riforma del processo civile, della Pa, il credito d’imposta R&S, ma sopratutto il Jobs Act. Secondo l’Ocse, la riforma del lavoro “traina la crescita”, puntando a sbloccare le assunzioni, a favorire l’investimento in formazione, a rendere più flessibile il mercato del lavoro a fronte però di maggiori sussidi di disoccupazione.
“Prima o poi, il segno più dovrà venire non più dal deficit, ma dall’aumento degli investimenti e della produttività. Gli investimenti negli ultimi sei anni sono crollati, con una ripresa solo negli ultimi trimestri”
Bisogna tuttavia considerare i fattori esterni di cui ha beneficiato la nostra economia, per esempio il basso prezzo del petrolio, che per un Paese con poche risorse energetiche come il nostro significa un crollo nei costi di produzione, ed il QE, che garantisce bassi interessi sul debito pubblico e un euro debole a favore dell’export. Inoltre, come spiegato in questo articolo, le manovre “espansive”, ovvero che utilizzano un deficit di bilancio come successo nel 2014 e nel 2015, per definizione danno una spinta “extra” al Pil che in futuro dovrà essere rimodulata, per evitare l’aumento esponenziale del debito. Prima o poi, il segno più dovrà venire non più dal deficit, ma dall’aumento degli investimenti e della produttività.
Investimenti e produttività erano in effetti due punti chiave del programma Renzinomics: con crescita demografica nulla, investire nell’innovazione ed aumentare la produttività rappresentano l’unica strada per poter crescere nel lungo periodo. Dal 2008 al 2014 gli investimenti sono crollati ad un ritmo medio di 80 miliardi l’anno: le aziende ed i privati hanno congelato gli investimenti, lo Stato ha ridotto la spesa in conto capitale e gli investitori stranieri sono stati spaventati da un Paese inefficiente e a rischio default. Negli ultimi trimestri vi è stato tuttavia un netto miglioramento: da gennaio gli investimenti hanno ricominciato a crescere fino al 6% a trimestre e l’Italia è tornata tra le prime 20 mete per gli investimenti esteri. Ora bisognerà vedere se anche la produttività reagirà ai nuovi investimenti e alle riforme che, come quella del lavoro, hanno l’esplicito obiettivo di aumentare la formazione dei lavoratori e l’efficienza del mercato del lavoro.
Se questo governo ha davvero cambiato verso alla crescita del Paese si vedrà quindi solo nei prossimi anni. Tuttavia, allargando lo sguardo ai dati decennali, dobbiamo renderci conto di come l’Italia esca da un ventennio completamente bruciato: in termini reali, il Pil si attesta su una media di -0,75% tra 2001 e 2014, peggio della Grecia. Il fatto che dopo decenni di stagnazione e i duri colpi inflitti della doppia crisi il nostro Paese stia reagendo testimonia, come dice Padoan, la resilience della nostra economia. In aggiunta a questo, bisogna però riconoscere i meriti di un contesto politico mutato rispetto al Berlusconi deriso in Europa o alle manovre d’emergenza del governo Monti, insieme a una politica economica giudicata favorevole alla crescita dalla maggior parte degli addetti ai lavori e che forse permette una maggiore fiducia, perseguendo esplicitamente un obbiettivo di crescita della produttività.

Nessun commento:

Posta un commento