blog CONFINI
Pierluigi Mele
10 aprile 2018
Giorgio Tonini, dopo quattro
legislature lei non si è ricandidato e adesso è un ex-senatore, ma
rimane un esponente politico del PD, autorevole perché di grande
esperienza (nella precedente legislatura è stato, tra l’altro,
Presidente della Commissione Bilancio del Senato). Proviamo, per
quanto è possibile, a fare un ragionamento sulla crisi del suo
partito. Non si può non prendere le mosse dalle cause della
sconfitta. Come è stato possibile che un intero gruppo dirigente non
si sia accorto del grido di dolore, di protesta che saliva dalla
società? Eppure la sconfitta referendaria del famoso 4 dicembre
avrebbe dovuto essere motivo di grande allarme…
Non credo si possa dire che, al di là
della propaganda, il gruppo dirigente del Pd pensasse di poter
vincere le elezioni. Dopo il 4 dicembre era chiaro a tutti che nel
paese era in atto una crisi di rigetto nei confronti del nostro
riformismo. In particolare, tutti sapevamo di essere tagliati fuori
dal confronto politico nel Mezzogiorno: l’area del paese che aveva
pronunciato il No più categorico al referendum costituzionale,
un’area nella quale la partita era tra la destra e Cinquestelle,
con un forte vantaggio del movimento grillino. Sapevamo che anche al
Centro, nelle tradizionali roccaforti rosse, rischiavamo un pesante
ridimensionamento, anche a causa di una scissione che, contrariamente
a quel che pensavano i leader di LeU, sarebbe stata a somma negativa.
In molti (ed io ero tra questi), speravamo in un risultato migliore
al Nord, ove era ed è maggiormente percepibile un dividendo sociale
della ripresa economica. Ma abbiamo sottovalutato quella che io
chiamo la “sindrome bavarese”: un malessere diffuso, in gran
parte indotto dal complesso fenomeno dell’immigrazione e che, anche
nella regione più prospera della Germania, ha penalizzato fortemente
il partito di governo, la Csu, l’alleato fondamentale della Merkel.
Alla fine il risultato è stato peggiore delle previsioni più
pessimistiche per il Pd, molto lontano, in peggio, perfino dalla
sconfitta del 4 dicembre. Al di là del dato numerico, tuttavia, sul
piano politico si è verificato quel che si prevedeva: una sconfitta
del Pd, ma senza nessun vincitore, nessuno in grado di avere i numeri
per governare sulla base di un chiaro mandato elettorale. Non riesco
a non dire che solo se fosse stata approvata la riforma
costituzionale, insieme all’Italicum, avremmo oggi un governo
deciso dagli elettori. Il 19 marzo avremmo avuto il turno di
ballottaggio, che probabilmente avrebbe visto uno spareggio tra
Cinquestelle e Pd. Ma i due vincitori del 4 marzo, la destra e i
Cinquestelle, il 4 dicembre avevano preferito puntare sullo sfascio,
pur di abbattere Renzi, il governo e il Pd. E oggi, per uno dei
frequenti paradossi della storia, devono chiedere al Pd i voti per
governare…
La sconfitta è figlia di tanti errori,
ma qual è stato l’errore “letale” fatto dal PD?
Aver pensato che il 40 per cento delle
europee fosse una delega in bianco. E non aver colto che in quel voto
c’era una contraddizione interna che non sarebbe stato facile
sciogliere. Mi riferisco alla contraddizione tra la componente
populista del renzismo, quella che ne faceva una proposta in netta
discontinuità con le politiche del governo Monti, una discontinuità
simboleggiata dagli 80 euro, che sono parsi annunciare una nuova
stagione redistributiva, e la necessaria, vorrei dire inevitabile,
disciplina europea della politica economica dell’Italia, che ha
segnato, io dico positivamente, l’azione del governo Renzi e, in
modo ancora più netto, quella del governo Gentiloni. Per la verità,
Renzi a me è parso sempre consapevole di questa contraddizione, di
questa tensione tra un voto al Pd in quanto unico partito europeista
e un voto al renzismo, in quanto versione omeopatica del populismo.
Renzi e noi con lui abbiamo pensato che l’unico modo possibile di
gestire questa tensione tra europeismo e populismo fosse scommettere
sul riformismo, innanzi tutto a livello europeo. E infatti il 40 per
cento del Pd è servito a “riformare”, all’insegna della
flessibilità, il Patto di stabilità e crescita e il Fiscal Compact.
Lo stesso indirizzo espansivo della politica monetaria, impresso da
Draghi alla Bce, è stato coerente con questa riforma europea. Ma il
riformismo, come ha ripetutamente spiegato il ministro Padoan, è un
“sentiero stretto”, che impone una pazienza e una disciplina
condivise, a livello diffuso, tanto più per un Paese come il nostro,
afflitto da problemi strutturali immensi: il debito pubblico più
grande, la demografia peggiore, la produttività più bassa, il più
alto livello di disuguaglianza, la più estesa area di sottosviluppo
in Europa. Qui facciamo i conti con il limite più grave della
politica renziana: la sottovalutazione del ruolo del partito,
strumento essenziale per costruire questa consapevolezza diffusa.
Renzi può invocare molte attenuanti, perché nessuno dei suoi
predecessori ha davvero capito la necessità di costruire modalità
innovative di organizzazione politica della società civile. Resta il
fatto che lui ha sostanzialmente abbandonato questa decisiva
frontiera e quando ha avuto bisogno del partito ha trovato solo
macerie: quello che doveva essere non un “nuovo partito”, ma un
“partito nuovo” era ridotto ad una confederazione di correntine,
un po’ patetiche e molto ridicole, naturalmente in perenne lotta
tra loro, per un potere che si stava sbriciolando.
Non le ha fatto impressione che
parecchi lavoratori iscritti alla Cgil abbiano votato 5Stelle e Lega?
No, perché purtroppo non è una
novità. Sono decenni che il voto operaio va in maggioranza a destra.
Anche nel 2013 il Pd di Bersani si era piazzato al terzo posto nelle
preferenze degli operai, dopo Cinquestelle e destra. Si potrebbe
ricercare una radice antica di questo fenomeno perfino nel
gramscismo, che stabilì il primato della “riforma intellettuale e
morale” su quella economica e sociale… Forse è anche per questa
ragione che non abbiamo mai avuto in Italia un grande partito
riformista, perché la sinistra ha preferito discutere per decenni su
come riformare il comunismo, anziché su come riformare il
capitalismo… Chissà, forse se avessimo avuto Di Vittorio, invece
di Togliatti, alla guida della sinistra italiana, le cose sarebbero
andate diversamente… Ma senza andare troppo indietro, in tutta la
Seconda Repubblica, dal 1994 ad oggi, solo una volta il
centrosinistra ha avuto la maggioranza dei voti operai: è stato alle
elezioni europee del 2014, quelle del Pd al 40 per cento. Semmai, la
brutta notizia delle elezioni del 4 marzo è che abbiamo perso il
primato nel voto degli impiegati, in particolare pubblici, a
cominciare dagli insegnanti.
Ora da parte di alcuni intellettuali, e
anche riviste vicine alla sinistra si chiede di sciogliere “questo”
PD e ripensare, in profondità, le ragioni di una forza di sinistra
nel nostro Paese. Insomma siamo all’anno zero della sinistra
italiana?
Ecco, appunto: torniamo a discutere di
come riformare la sinistra, invece di come riformare il Paese…
Pensiamo alla quantità di energia sprecata nella scissione, motivata
dalla ricerca della sinistra perduta: tonnellate di carta, milioni di
parole, per spostare seimila voti, quelli che, sulla base dei conti
dell’Istituto Cattaneo, LeU ha preso in più nel 2018, rispetto a
quelli che Sel aveva preso da sola nel 2013. Seimila voti, su 60
milioni di italiani. Lo 0,01 per cento. L’ex-presidente del Senato,
Piero Grasso, è tornato a Palazzo Madama alla testa di un gruppo di
quattro senatori, compreso se medesimo. E al suo posto ora c’è una
pasdaran berlusconiana, eletta coi voti dei Cinquestelle. Un
capolavoro di eterogenesi dei fini. No, non è riaprendo l’inutile
disputa teologica circa l’essenza della sinistra che ritroveremo la
via delle menti e dei cuori degli italiani. Per me un partito è
fatto di tre cose: una visione del mondo, che per noi è data dal
tentativo mai perfetto di coniugare crescita economica e uguaglianza
sociale nella democrazia; un programma, fatto di risposte concrete ai
problemi del Paese; e un’organizzazione per elaborarlo in modo
collettivo e realizzarlo col consenso dei cittadini. Il programma non
può essere altro che un nuovo tentativo di quadrare il cerchio tra
europeismo e populismo, attraverso il riformismo. Dobbiamo smontare
mentalmente quello che abbiamo fatto e rimontarlo in modo più
convincente. E dobbiamo mettere mano ad una nuova forma di
organizzazione politica, mutuando le tecniche organizzative più
efficaci e innovative dal mondo che vive attorno a noi.
L’organizzazione è una scienza, che ha prodotto tecniche
sofisticate. E invece noi l’abbiamo affidata a dei praticoni, senza
alcun investimento intellettuale, professionale, finanziario.
Per qualcuno una via d’uscita alla
crisi è quella “macroniana”, ovvero costruire un partito
alla Macron… A me sembra una cosa che non risponde alla crisi
del Pd. C’è stato un voto chiaramente antiestablishment e si
propone, invece, un modello che è establishment o tecnocratico.
Certo alcuni valori di Macron, vedi l’Europa, sono importanti altri
sono distanti. Qual è il suo pensiero?
Il mio pensiero è che la inaspettata
vittoria di Macron ha salvato l’Europa, che sarebbe morta se avesse
vinto il fronte nazionalista lepeniano. Salvando l’Europa, Macron
ha rimesso la Francia al centro della politica europea, rilanciando
l’asse franco-tedesco. Nei due anni precedenti non era stato così.
Dalle europee del 2014 fino al referendum costituzionale, l’Europa
era stata guidata da un asse italo-tedesco, con l’Italia di Renzi
che non ha imposto la sua agenda, questo no, ma è riuscita a
condizionare in modo significativo quella tedesca. La crisi del Pd, a
partire dal 4 dicembre 2016, e il parallelo riemergere prepotente
della Francia di Macron, hanno ristabilito il vecchio schema, che
prevede il primato franco-tedesco e l’Italia come partner debole
dei due più forti, insidiata dalla Spagna nel ruolo di numero 3. Ora
il Pd non ha più la forza di imporre il suo gioco e non vedo per noi
altra vocazione che quella originaria: essere parte della famiglia
socialista per costruire un centrosinistra europeista più ampio, che
abbia oggi in Macron il suo primo interlocutore. Penso che il primo
obiettivo dovrebbe essere quello di individuare, per le elezioni
europee del ‘19, un candidato comune alla presidenza della
Commissione europea, in alternativa a quello che proporranno i
popolari. Non si tratta quindi, per il Pd, di scegliere tra Macron e
i socialisti, ma di lavorare ad un’alleanza tra queste forze.
Il futuro di Matteo Renzi?
Un vecchio sindacalista diceva: se non
riesci ad essere una risorsa, cerca almeno di diventare un problema.
Ecco, io spero che Renzi non ascolti consigli come questo. Spero che
lavori ad un disarmo bilanciato delle correntine che stanno
dilaniando il Pd, che oggi appare diviso tra fedelissimi del capo
sconfitto e nostalgici della sconfitta precedente. Due posizioni, una
più respingente dell’altra. Mi auguro che Renzi nutra l’ambizione
di aprire una fase nuova, mostrando il coraggio dell’umiltà e
dell’inclusione.
Torniamo al partito. Nel progetto del
PD, sintetizzato nella sua carta dei valori, c’era il meglio del
riformismo italiano. Era presente un’eco della “terza via”. Una
“terza via” che non è stata capace di regolare la
globalizzazione. Anzi, per certi versi, è apparsa troppo
accondiscendente. Insomma se un qualche “ripensamento” andrà
fatto dove trovare sul piano culturale politico spunti per una nuova
“lingua” del PD?
Non ho mai condiviso questi giudizi
sommari sulla “terza via”, perlopiù pronunciati da esponenti
della sinistra minoritaria, se non gruppuscolare, quella che sogna la
bella sconfitta e disprezza le brutte vittorie, quelle che fanno i
conti col principio di realtà. La “terza via”, da un secolo a
questa parte, è sempre stata il sinonimo del riformismo. La “terza
via” è la riforma del capitalismo, il suo condizionamento
attraverso l’azione sociale e politica, la sua graduale
trasformazione in economia sociale di mercato. Il problema oggi
aperto davanti al riformismo, nei paesi occidentali, è che la via
riformista per tutto il Novecento ha potuto fare leva sullo Stato
nazionale, perché era a quel livello che era possibile condizionare
in modo efficace il capitalismo, mentre oggi questo non è più
possibile. Il capitalismo globalizzato sfugge alla regolazione degli
Stati nazionali. Di qui la vera alternativa del tempo presente:
ristabilire il primato degli Stati nazionali, anche a costo di
sacrificare lo sviluppo capitalistico, in realtà lasciandolo ad
altri, o invece adeguare gli strumenti di regolazione, spostandoli ad
un livello sovranazionale, nel nostro caso almeno europeo e in parte
transatlantico. Ecco, io penso che il nostro problema non sia oggi
rinunciare alla “terza via” in nome di una chiusura
neo-sovranista, sulla linea vagheggiata da Trump, ma di costruirla,
la “terza via”, la riforma del capitalismo, ad un livello
sovranazionale, sulle orme del grande lavoro fatto negli anni scorsi
da Obama. Cominciando dalla riforma europea, sulla falsariga di
quella proposta da Macron.
Se lei dovesse indicare, in estrema
sintesi, le priorità del PD quale metterebbe?
La riforma europea. La costruzione di
una sovranità europea condivisa tra gli Stati che accettano di
farlo. Difesa, sicurezza, immigrazione, frontiere comuni. E poi, nodo
decisivo, una capacità di bilancio dell’Eurozona. Solo se
riusciremo a rimettere in moto la costruzione di un’Europa
politica, potremo quadrare il cerchio in Italia tra crescita,
occupazione e riduzione del debito. Per ridurre il debito dobbiamo
fare un elevato avanzo primario, ossia destinare a quell’obiettivo
una quota significativa di entrate fiscali, che per molti anni devono
essere sottratte a investimenti produttivi e servizi sociali. Ma il
voto del 4 marzo ci dice che il Paese non ce la fa più a sostenere
questo sforzo. Perché è un paese che da troppo tempo non investe
più sul futuro: infrastrutture materiali e immateriali, scuola,
università, ricerca, innovazione. Solo se scende in campo l’Europa,
attraverso un bilancio dell’Eurozona, a sostegno della crescita e
dell’occupazione, il doveroso e indispensabile rientro dell’Italia
dal debito può farsi sostenibile. Anche politicamente.
Ultima domanda: Ha qualche consiglio da
dare ai suoi amici impegnati nelle consultazioni?
Penso che il Pd abbia il dovere di
avanzare una proposta programmatica per il governo del Paese. Poi è
evidente che, sulla base dei rapporti di forza in parlamento, la
costruzione di un assetto di governo non è nelle nostre mani. Ma
dobbiamo evitare di trasmettere ai cittadini sia l’impressione che
ci chiamiamo fuori da ogni responsabilità per rabbia e per rancore,
sia la sensazione di essere alla ricerca di una quota di potere a
qualunque costo. Alcuni punti programmatici molto chiari possono
rendere comprensibile la nostra scelta, qualunque essa risulti
essere, alla fine di una crisi politica che certo non sarà breve.
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