sabato 28 aprile 2018

CALMA E GESSO: TENIAMO UNITO IL PD, E SCIOGLIEREMO I NODI INSIEME

Enrico Borghi
Di fronte alla piega della situazione politica, vorrei esprimere qualche valutazione. Partendo da un dato a mio avviso decisivo. Dobbiamo avere in mente tutti –soprattutto noi dirigenti- che l’obiettivo di fondo deve essere mantenere unito il partito, e non piegarci alla tentazione pericolosissima di definire la nostra identità sul piano delle alleanze da fare. Circostanza che ci indurrebbe alla subalternità culturale, e ci metterebbe in una condizione di spaccatura interna perniciosa.
L’unità di un partito non si raggiunge con le prediche o gli appelli generici. La si raggiunge con la politica. E allora su questo, proviamo a dire qualche parola di verità.
La vicenda del nodo 5 Stelle fa venire a galla un tema da tempo messo nell’angolo, e riemerso dopo il 4 marzo in modo fragoroso: l’identità del Pd. Insomma, chi siamo e dove vogliamo andare. Sento in giro troppa aria di restaurazione, dentro il Partito, come se la Waterloo del 4 marzo potesse prefigurare un “Congresso di Vienna” dove le lancette del progressismo italiano vengono riposizionate a prima del 2013 (facendo magari rientrare qualche generale ammaccato) e da lì si ricomincia come se niente fosse cambiato. Questa idea subliminale sta alla base di un ragionamento aristocratico, che si esprime con una battuta che circola in salotti, redazioni giornalistiche, confronti politici: “i 5 stelle hanno i voti, noi abbiamo il cervello, li mettiamo insieme e si ricomincia!”. Sintesi greve, la mia, ma spero efficace di una corrente di pensiero che da Eugenio Scalfari in giù spinge per ridefinire il progressismo italiano dentro un’alleanza politica con il Movimento 5 Stelle (identificato come una sorta di “costola della sinistra”).
Credo che l’errore di questa posizione sia duplice: la prima perché concepisce la nostra identità in una dimensione subalterna rispetto ad altri, e la seconda perché assegna un connotato di progressismo ad una formazione politica che sotto questo profilo ha un cumulo immenso di contraddizioni da sciogliere (a cominciare dal suo refrain “destra e sinistra sono cose superate”).
Ma in ogni caso, resta il punto. Quello che il compagno Lenin avrebbe definito del “che fare”. Proviamo allora a metterci d’accordo sul piano preliminare interno. La discussione odierna sulle alleanze non è la prova tecnica di congresso. Se fosse questo, immaginare di forzare la mano con conte improbabili in direzione, muscolarismi interni o giochi di corridoio sarebbe esiziale per il Pd. Non possiamo fare un congresso informale e sotto mentite spoglie su questa vicenda. Il congresso –che deve essere fatto, e anche in fretta- dovrà ridefinire la nostra identità a prescindere dal quadro politico delle alleanze, che eventualmente discende dalla nostra identità e non può né precederlo né tantomeno definirlo. Altrimenti davvero resteremmo nel campo della subalternità, culturale e politica. E con essa, buona notte al progetto del Lingotto. Insomma, qualunque cosa decideremo di fare, o la fa si fa con Matteo Renzi o non la si fa. Immaginare di bypassare questo tema giocando di sponda sulla vicenda alleanze appare una tattica di cortissimo respiro, destinata ad evaporare rapidamente.
Chiarito questo aspetto, credo che un Pd dall’identità forte –che non si definisce sulla base delle alleanze, ma definisce queste dalla propria idea di Paese- e che si è sempre definito come partito con una cultura di governo, non debba avere timore di nessuno. E quindi non debba avere paura di confrontarsi nel merito, sia con il Movimento 5 Stelle che con il centrodestra, qualora il Presidente della Repubblica definisca un incarico.
Perché è solo così, entrando nel merito del confronto, che potremmo far esplodere le contraddizioni che esistono all’interno del centrodestra e del Movimento 5 stelle, che sono fortissime e che vengono tenute sotto la cenere solo grazie alla nostra straordinaria (e autolesionista) cacofonia.
Dentro il centrodestra, infatti, la differenza di visione strategica tra Salvini e Berlusconi è ormai a livelli di rottura conclamata. E sul piano di governo, mi piacerebbe capire come faranno stare insieme la posizione del presidente del parlamento europeo Tajani, merkeliano di ferro, e quella del principale collaboratore di Salvini, il mio omonimo Borghi Aquilini Claudio, che continua a teorizzare l’uscita dell’Italia dall’euro.
Dentro i 5 Stelle, solo il silenzio fuori ordinanza imposto leninisticamente da Rocco Casalino e dalla Casaleggio ed Associati impedisce di far emergere una posizione interna ai gruppi fortemente ostile a qualsivoglia abbraccio con noi.
E sul piano sociale, i miei sensori puntati sul territorio mi dicono che il popolo della Lega spinge a tutta velocità verso l’abbandono di Berlusconi e l’accordo con il Movimento 5 stelle.
Stiamo quindi molto attenti a non fare la fine di Mario Segni, che alla vigilia delle elezioni politiche del 1994 sottoscrisse un accordo con Roberto Maroni che servì soltanto alla Lega Nord di Bossi per alzare il prezzo dell’accordo di Berlusconi, col risultato che Segni restò al palo e la Lega incassò da Berlusconi moltissimi seggi sui collegi del nord.
Abbiamo, insomma, molti motivi per andare cauti e soprattutto uniti a vedere le carte di questa vicenda, senza accelerazioni, senza isterismi e senza immaginare che la direzione del partito del 3 maggio sia il giudizio divino, l’ordalia dalla quale uscire con vincitori e sconfitti. Anche perché, su questo tema, io ritengo che si debba spolverare lo statuto del Pd e far emergere lo strumento del referendum degli iscritti per qualunque scelta noi si debba compiere.
Un gruppo dirigente all’altezza, a mio avviso, deve condurre questa difficilissima fase in questo modo, e per quel che mi riguarda cerco di dare in tal senso qualche riflessione che vada in questa direzione.

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