sabato 3 settembre 2016

Perché la riforma Boschi ha realizzato il mandato degli elettori democratici


Francesco Sanna
L'Unità 3 settembre 2016
Ha ragione Arturo Parisi, il testo sottoposto a referendum è nel solco dell’Ulivo
Le elezioni politiche del 2013, ancor più dopo la sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale che ha sancito l’illegittimità della legge elettorale, hanno fatto emergere specie tra gli elettori del centro-sinistra,  una domanda che, per farla semplice potrebbe dirsi così: chi vi autorizza a cambiare la Costituzione?
Mentre nelle legislature precedenti era implicito che il Parlamento potesse intraprendere la revisione costituzionale, oggi tra le critiche – anche in forma dotta – di chi dissente sulla riforma, ve ne è una più radicale che contesta la mancanza di un’investitura preliminare degli elettori a cambiare la Carta fondamentale.
Normalmente, la risposta che diamo si fonda sulla natura straordinaria del momento politico, il discorso di insediamento di Giorgio Napolitano, il dovere di dimostrare che il Parlamento aveva la capacità di fare le riforme, l’assunzione del tema quale punto programmatico dei Governi Letta e Renzi. Ma è chiaro che tale risposta non soddisfa la domanda di coloro che pretendono l’investitura costituente, ritenendo che non vi sia mai stata. Se non si risponde bene si rischia di subire l’accusa di usurpare una funzione che non si possiede ed il conseguente “not in my name“.
E’ allora importante, per chi non voglia eludere nessuno dei temi che si discutono nella campagna referendaria, andare a riprendere brevemente cosa  proponevano gli ultimi programmi del centrosinistra. Anzitutto per rintracciare in essi (se vi era) il “mandato” a riformare la Costituzione. E poi vederne più da vicino coerenze e distanze con il testo approvato, e magari trovarvi idee e motivazioni per il proprio voto nel referendum confermativo.
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Intanto è da rilevare come la proposta agli elettori di intervenire sulla seconda parte della Costituzione non è una novità di questa legislatura.
Le tesi dell’Ulivo, pubblicate nel dicembre del 1995,  introducevano il tema del superamento del bicameralismo paritario in maniera nettissima: esso era collocato tra i primi punti del programma. Certo, la Carta non aveva visto la riforma del Titolo V, l’ampliamento della legislazione concorrente tra Stato e Regioni e l’enorme contenzioso che nei quindici anni successivi la Corte Costituzionale sarebbe stata chiamata a dirimere, e dunque la tesi indicava una mutazione in senso federale della Repubblica senza porsi il problema di definire meglio il confine delle competenze tra le Regioni e lo Stato.
Ma sicuramente l’Ulivo proponeva che il Senato non votasse più la fiducia al Governo, fosse composto da “esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche locali“, in un numero che  “dipenderà dalla popolazione delle Regioni stesse, con correttivi idonei a garantire le Regioni più piccole“.  Le “istituzioni regionali” alle quali i senatori sarebbero dovuti appartenere sono evocate genericamente, ma è chiaro che potessero essere  sia i rappresentanti delle assemblee legislative sia gli esecutivi, le Giunte regionali. Sicuramente il numero dei senatori determinato dalla entità della popolazione della Regione non avrebbe potuto portare al modello Bundesrat, la seconda camera del Parlamento tedesco formata dai delegati dei Governi regionali, né al modello americano in cui gli stati piccoli o grandi “portano” comunque a Washington due senatori. Inoltre, tale seconda Camera avrebbe avuto un potere legislativo fortemente differenziato, poiché sarebbe stato esercitato ” per la deliberazione delle sole leggi che interessano le Regioni, oltre alle leggi costituzionali“.
L’Ulivo voleva la “riduzione dei tempi di discussione dei provvedimenti, assicurando tempi certi per il voto sui progetti del Governo“, l’innalzamento del numero di firme per proporre il referendum abrogativo, e valutava  “l’eventualità di introdurre nella Costituzione la previsione di forme di referendum “propositivo” collegate all’iniziativa popolare, con tutte le regole e le cautele necessarie in tema di condizioni dell’iniziativa, di formulazione dei quesiti e di disciplina della consultazione“.
Vedo una assonanza delle Tesi uliviste molto forte con i contenuti della riforma di oggi.
Quindi sono d’accordo con Arturo Parisi, che riconosce alle riforme costituzionali approvate dal Parlamento un contenuto “nel solco” delle tesi programmatiche dell’Ulivo del 1996, mentre penso sbagli Andrea Pertici, professore a Pisa, tendenza “Possibile”  – a sostenere che le distanze prevalgono sulle similitudini.
Per tenere in piedi la critica di Pertici occorrerebbe forzare le parole di Parisi, tramutando il “solco” tracciato ben venti anni prima dalle Tesi dell’Ulivo in un articolato preciso di norme costituzionali. Il solco per forza di cose ha subito l’erosione del tempo e si colloca in paesaggio istituzionale mutato. Ma l’orientamento della riforma è decisamente il medesimo.
Del resto, è la logica stessa della revisione costituzionale, necessitando di un consenso parlamentare vasto, che porta a non trascrivere pedissequamente i programmi di una forza politica, anche maggioritaria, nella norma costituzionale. Anche in vista del possibile referendum confermativo, infatti, è utile che le forze presenti in Parlamento si riconoscano complessivamente nella riforma e rintraccino nei testi il proprio anche parziale contributo.
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Dieci anni dopo, nel 2006, il programma de l’Unione, “Per il bene dell’Italia” (quello delle 281 pagine), pur reagendo polemicamente al tentativo del centrodestra di affermare la logica della “dittatura della maggioranza”, “evitando ogni confronto democratico”, propone modifiche a 18 articoli della Costituzione.
Sugli istituti di partecipazione, l’amplissima coalizione guidata da Romano Prodi affermava l’intenzione di ampliarli e arricchirli anche rivitalizzando il referendum abrogativo: “proponiamo per questo di aumentare da 500.000 a 750.000 il numero di firme necessarie per indire un referendum e di ridurre il quorum previsto per la validità della consultazione alla metà dei voti espressi nelle precedenti elezioni alla Camera dei Deputati“. La soluzione adottata dalla riforma 2016 è identica, salvo che per la previsione di 800.000 firme di richiesta e per il mantenimento, in una sorta di doppio binario, del sistema attuale (500.000 firme e referendum valido se partecipa la metà più uno degli elettori).
Sulle garanzie istituzionali, ci si impegnava ad “elevare la maggioranza necessaria ad eleggere il Presidente della Repubblica“, senza peraltro individuarla né indicare a partire da quale scrutinio. Il tema è recepito dalla riforma 2016, che dal quarto al sesto scrutinio prevede non più la maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento in seduta comune, ma i tre quinti, e dal settimo scrutinio i tre quinti dei votanti.
Molto chiara la proposta della riforma sulla funzione del nuovo Senato: “bisogna coinvolgere le autonomie territoriali nella definizione dell’indirizzo politico nazionale“. L’obiettivo si ottiene “superando l’attuale bicameralismo paritario, ovvero istituendo un Senato che sia camera di effettiva rappresentanza delle regioni e delle autonomie“, “espressione delle autonomie territoriali“, “titolare di competenze legislative differenziate rispetto alla Camera dei Deputati”. Il numero dei senatori, “effettivi rappresentanti degli interessi del loro territorio“, “sarà ridotto a 150“.
Sulla divisione dei poteri tra lo Stato e le Regioni, il programma ritiene che occorra ridefinire “le materie di esclusiva competenza statale“, ricentralizzando “la disciplina dei rapporti di lavoro, la tutela e la sicurezza del lavoro (ma la competenza sul mercato del lavoro e la formazione professionale rimane alle Regioni), l’ordinamento delle professioni e delle comunicazioni, le norme generali sulle grandi reti di trasporto e navigazione, il trasporto e la distribuzione dell’energia, la strategia nazionale per il turismo“. A questo proposito si può dire che la manovra sulla ridefinizione delle competenze effettuata dalla riforma è più ampia, ma tutti i punti del programma 2006 vi sono ricompresi.
“Per il bene dell’Italia” prevede l’introduzione di una clausola di supremazia per la quale al Parlamento è consentito di “intervenire con legge per tutelare l’interesse della Repubblica anche in materia di competenza regionale quando siano in gioco superiori interessi della collettività, quando si debba garantire l’unità giuridica o economica del Paese o garantire l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio dei diritti costituzionali“. Come è noto, la riforma 2016 introduce la clausola di supremazia, richiedendo però che essa possa essere attivata solo per iniziativa del Governo, che il nuovo Senato possa richiederne l’esame e la Camera possa superare le sue proposte di modifica a maggioranza assoluta a sua volta con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei deputati.
La legislatura dell’ultimo Governo Prodi ebbe vita breve, ma va ricordato che molte delle proposte contenute nel programma “Per il bene dell’Italia” furono trasfuse nel lavoro parlamentare della Commissione Affari Costituzionali della Camera, noto come “Bozza Violante”.
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Nelle prime elezioni – anno 2008 – alle quali partecipa il Partito Democratico, il nuovo soggetto politico presenta un programma nel quale molti dei contenuti che ho ricordato sono ripresi e precisati. In primo luogo, “il Presidente del Consiglio dovrebbe ricevere da solo la fiducia esclusivamente dalla Camera“. E “i disegni di legge approvati dal Governo dovrebbero essere votati entro una data certa, comunque non oltre due mesi“. Entrambi questi punti – esclusa la fiducia al solo Presidente –  fanno parte della attuale riforma.
La differenziazione dei compiti del Senato è disegnata nella previsione  per cui “le leggi, tranne quelle costituzionali, di revisione costituzionale e quelle che ordinano i rapporti tra centro e periferia, dovrebbero – in caso di conflitto persistente – essere approvate dalla sola Camera.”
Il Senato, formato da “100 membri scelti dalle autonomie regionali e locali, è la sede della collaborazione tra lo Stato e tali autonomie.  La opportuna revisione dell’elenco di materie del Titolo V con una clausola di supremazia, trasversale alle materie, per il livello federale, col consenso del Senato, consentirebbe di superare la conflittualità  permanente“.
E ancora “vanno introdotti il referendum propositivo, nel caso in cui una proposta di legge di iniziativa popolare con un milione di firme sia ignorata dal Parlamento per un biennio, e norme rigorose contro tutti i conflitti di interesse e il cumulo di cariche pubbliche; il quorum di partecipazione per la validità  dei referendum va ricondotto alla metà  più uno dei partecipanti politicamente attivi, quelli che hanno votato alle precedenti elezioni politiche; alla Camera va previsto un significativo Statuto dell’Opposizione, a cominciare dalle Commissioni parlamentari di inchiesta, che devono essere decise su richiesta di un quarto dei deputati.”
Come si vede, il PD a vocazione maggioritaria di Veltroni precisa ed amplia, nel programma offerto agli elettori, la prospettiva riformatrice aperta dall’Ulivo e dalla coalizione del 2006.
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Il Partito Democratico, con Pierluigi Bersani segretario forza di opposizione nella legislatura 2008/2013, raffina ulteriormente i punti di aggiornamento della Costituzione con il documento elaborato dalla Assemblea Nazionale programmatica (eletta dalle primarie a cui parteciparono oltre tre milioni di persone) del 21 e 22 maggio  2010, i cui contenuti – ulteriormente discussi nel seminario del Forum Istituzioni tenutosi alla Camera alcune settimane dopo, a cui partecipano e intervengono decine di costituzionalisti – saranno trasfusi nel programma delle elezioni politiche.
E così, nelle elezioni del febbraio 2013 la coalizione di centro-sinistra “Italia. Bene Comune” (PD, SEL, Socialisti, Centro Democratico) che propone Bersani alla guida del Governo, attribuisce esplicitamente alla attuale legislatura una “funzione costituente“.
Nel documento programmatico di sintesi, che impegna tutti i futuri eletti, il primo punto si intitola “Democrazia“. In esso si afferma che “sulla riforma dell’assetto istituzionale, siamo favorevoli a un sistema parlamentare semplificato e rafforzato, con un ruolo incisivo del governo e la tutela della funzione di equilibrio assegnata al Presidente della Repubblica. Riformuleremo un federalismo responsabile e bene ordinato che faccia delle autonomie un punto di forza dell’assetto democratico e unitario del Paese…..Daremo vita ad un percorso riformatore che assicuri concretezza e certezza di tempi alla funzione costituente della prossima legislatura“.
Più in dettaglio, il documento del Partito Democratico, “L’Italia Giusta – Riformare le istituzioni per superare la crisi della democrazia”, partendo dalla necessità di cambiare la legge elettorale, vuole “una netta differenziazione tra il sistema elettorale della Camera – che deve favorire la costruzione nelle urne di una maggioranza di governo – e il sistema elettorale del Senato –  che deve favorire la rappresentanza dei territori”.
L’obiettivo sarebbe stato “riqualificare il Parlamento come luogo della rappresentanza politica della nazione (Camera) e dei territori (Senato)”.
Ci si arrivava ridando “autorevolezza e rappresentatività al Parlamento, oltre che con una nuova legge elettorale, attraverso il dimezzamento del numero dei parlamentari, il potenziamento delle funzioni di controllo, il superamento del bicameralismo paritario con funzioni e competenze differenziate tra Camera e Senato: la Camera dei deputati, rappresentante della nazione, sarebbe titolare del rapporto fiduciario mentre il Senato, rappresentante delle autonomie territoriali, avrebbe il potere di richiamare tutte le proposte di legge approvate dalla Camera entro i limiti e alle condizioni fissate dalla Costituzione; dovrebbe inoltre “governare” il rapporto tra Stato, Regioni, Autonomie locali. Le leggi costituzionali e quelle che regolano i rapporti tra Stato, Regioni e Autonomie locali sono bicamerali. Deve essere valorizzato, come richiesto dal Trattato di Lisbona, il ruolo dell’intero Parlamento e dei Consigli regionali nei processi di decisione comunitaria”.
E ancora “si deve inoltre rafforzare l’istituto del referendum, aumentando il numero delle sottoscrizioni necessarie per l’iniziativa, anticipando il giudizio della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti, abbassando il quorum richiesto per la validità della consultazione, riferendolo alla partecipazione al voto registrata nelle precedenti elezioni per la Camera dei deputati. Rafforzare le proposte di legge di iniziativa popolare, assicurando entro termini ragionevoli l’esame parlamentare della proposta e il voto finale“.
“Sui disegni di legge del governo può chiedere il voto a data fissa, compatibile con la complessità del provvedimento, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai regolamenti parlamentari “.
Nell’ambito di un  “regionalismo cooperativo e solidale“, la riforma proposta dal Partito Democratico avrebbe puntato a “ridurre le sfere di competenza concorrente, introdurre la clausola di sovranità, definire una cornice unitaria di comune responsabilità (Stato, Regioni, AALL) nell’attuazione delle politiche nazionali. Anche rispetto al rapporto e alla ripartizione di competenze tra Stato e Regioni le parole chiave sono: razionalizzazione ed efficienza”.
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Leggere il complesso dei più importanti punti programmatici del centrosinistra italiano accanto ai contenuti della riforma costituzionale racconta una continuità ideale, di analisi dell’invecchiamento della organizzazione istituzionale della Repubblica e di indicazione di soluzioni frutto di un lungo e competente confronto democratico.
Analisi, elaborazioni e soluzioni discusse alla luce del sole, e con la capacità di coinvolgimento di cui i partiti ed il sistema politico sono stati capaci, nel tempo politico, sociale e culturale dato.
Per questo sono convinto che aver affrontato il compito difficile della riforma costituzionale in questa legislatura non abbia tradito il mandato degli elettori democratici, ma lo abbia realizzato. Il rimaner fermi, questo sì, avrebbe significato negare la “funzione costituente della legislatura” a cui si è impegnato chi è entrato in Parlamento nelle liste del PD. Ma anche i contenuti della riforma mantengono il senso ed in alcuni casi il tratto puntuale della promessa assunta davanti ai cittadini.

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