venerdì 30 dicembre 2016

Il Natale della politica per sentirsi comunità


David Sassoli
Nella prima Repubblica non si usava parlare dei partiti come fossero “una comunità”. Erano tante cose, ma quell’espressione sarebbe suonata strana, anomala per dirigenti allenati alla battaglia dentro e fuori gli spazi della loro appartenenza. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di andare a un congresso o a un comitato centrale e parlare di comunità.
Tuttalpiù si poteva parlare di movimento, come faceva Pietro Ingrao quando voleva indicare la prospettiva di un Pci alla guida di un fronte largo, inclusivo di realtà dinamiche e spontanee. Di comunità parlavano i cattolici, ma solo quando erano in ambito ecclesiale. Oppure ne parlavano Adriano Olivetti e le reti evangeliche e confessionali.
Alla comunità nazionale poi, ci si riferiva per evitare di pronunciare la parola patria, termine nazionalistico e dal sapore militaresco; a quella internazionale, soprattutto nei casi di interventi armati. L’espressione, comunque, era inadatta per gruppi immersi nella lotta politica. Anche le correnti democristiane avevano pudore nel riferirsi a quei legami morali che la politica poteva spezzare con grande facilità. Soltanto un caso salta alla memoria: la Comunità del Porcellino di La Pira, Dossetti e Lazzati negli anni della Costituente.
Ma quello è stato un caso molto particolare. Erano persone consacrate, come si saprà successivamente, legate da forti amicizie, che vivevano insieme, e insieme lavoravano, studiavano, pregavano. Da allora, per cinquant’anni, difficile trovare riferimenti per associare i partiti all’idea di comunità. E qui c’è un primo paradosso: anche se non se ne parlava, il paese era tenuto insieme da quell’architettura di corpi intermedi che ne costituivano l’impalcatura sociale. Comunità di comunità, come ha raccontato per anni il professor Achille Ardigò.
Nel tempo della crisi dei partiti, invece, di comunità politica si parla riferendosi al proprio piccolo spazio. A destra, sinistra e al centro, la politica si svolgerebbe sempre all’interno di comunità. Un modo, in mancanza di visioni comuni, per tentare di saldare i propri destini e al tempo stesso per appellarsi a imprecisati valori di fondo e abbozzare la cornice del proprio stare assieme. Spesso e volentieri è anche un richiamo sentimentale per misurare rapporti di forza o riportare all’ordine i riottosi.
L’uso improprio della dimensione comunitaria appare molto spesso stonata, anche perché il più delle volte viene accompagnata da improperi, maledizioni e bestemmie. Essere comunità è un’altra cosa. E certo sarebbe utile se i partiti si sforzassero di esserlo. Sarebbe bello, per esempio, se i dirigenti locali non si sentissero respingere da quelli nazionali e gli rispondessero almeno al telefono; che a uno che ti scrive si abbia la bontà di rispondere; che si esercitasse l’autorità con la disponibilità all’ascolto; che vi sia pazienza, inclusività; che si consideri il proprio ruolo al servizio di qualcosa che viene condiviso e non solo per affermare il proprio prestigio.
Basterebbero piccoli segni per dare significato a una parola abusata ma dal significato prezioso, da usare con parsimonia per non inquinarne il significato profondo perché conduce a quei legami di fraternità che tanto spesso la politica violenta. Se in comunità non si vive il senso profondo dell’uguaglianza non c’è comunità; se una comunità non si fonda sull’amicizia è inutile parlarne; se in una comunità non si esercita la virtù della moderazione difficile condividere le difficoltà.
Ma anche tutto questo, di certo utile, non basterebbe comunque a invertire la tendenza che spinge società disintermediate ad affrontare la contemporaneità. Espellere corpi sociali dal dibattito pubblico, non suscitare nuove forme di partecipazione, disinteressarsi al dialogo sociale impedisce al paese di essere rappresentato da reti di comunità. Questo è il riferimento più prezioso a cui dovrebbero far riferimento i partiti. “Per un partito non avere una base definita significa esistere nel vuoto”, scrive Colin Crouch in “Postdemocrazia”.
Non occorre essere particolarmente acuti per notare che società disintermediate sono sempre più esposte a virus oligarchici o populisti. Parlare di comunità è riferirsi alla salute della nostra democrazia. Che il Natale scenda a esorcizzarci almeno dall’utilizzare parole improprie, a recuperare spirito democratico, e a togliere la maschera dietro la quale si nascondono ipocrisie dalle ripercussioni pericolose.

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