martedì 3 settembre 2013

Pronto Barack? Sono Francesco

Massimo Faggioli 

Europa  

Mentre Obama si fa amletico in attesa del voto del Congresso, papa Bergoglio tuona e twitta contro il conflitto in Siria. Come Wojtyla ai tempi del Kosovo
La crisi siriana tocca il suo apice in un momento particolare per la collocazione della chiesa cattolica sulla scena globale: in piena transizione, nelle prossime sei settimane, da un’amministrazione (quella del segretario di Stato cardinale Bertone) che ha fatto scempio della grande tradizione diplomatica vaticana, verso il ritorno ad una segreteria di Stato capax sui con il nuovo segretario di Stato Parolin. Se questo fatto rappresenta un’incognita per le istruzioni che i diplomatici vaticani riceveranno sul terreno nei prossimi giorni, d’altro canto la situazione consente a papa Francesco di agire in modo personale, intrecciando dimensione politica e spirituale con il digiuno convocato per il 7 settembre.
Ma la crisi rivela anche un volto finora inesplorato del pontificato di Bergoglio, finora impegnato nel trattare dossier interni alla compagine ecclesiale alle prese con lo shock di VatiLeaks, del caos della Curia romana, e delle dimissioni di papa Ratzinger. Le stesse parole del papa all’Angelus di domenica – «c’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia» – rivelano molto della visione bergogliana circa il ruolo della chiesa nel mondo contemporaneo. Benedetto XVI non avrebbe mai parlato di un “giudizio della storia” per richiamare i potenti alle proprie responsabilità. Bisogna iniziare da qui per comprendere il radicalismo di Bergoglio.
Le parole di papa Francesco non hanno solo un rilievo teologico, ma anche politico. Questo momento anticipa e amplifica uno dei tratti fondamentali per comprendere la geopolitica del pontificato: il rapporto tra il papa latinoamericano, gli Stati Uniti e il cattolicesimo statunitense. Finora Francesco ha solo accennato ad alcune fondamentali differenze tra la sua visione di chiesa e quella del cattolicesimo rampante (e di destra) a stelle e strisce: circa la dottrina sociale sul lavoro e l’economia, l’enfasi sulla difesa della vita, la questione omosessuale nella chiesa. Alcuni vescovi americani non hanno gradito e lo hanno fatto notare al papa neo-eletto a mezzo stampa (cosa senza precedenti).
Con il possibile intervento americano in Siria il pontificato si trova davanti alla questione dell’atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti non tanto della guerra come tale. In questo senso, il vero paragone non è con la guerra in Iraq del 2003, ma con le campagne aeree nella ex Jugoslavia del 1999, su cui il messaggio proveniente dalla diplomazia vaticana fu allora necessariamente pieno di ambiguità, dato lo schieramento delle chiese ortodosse (e della Russia di Eltsin) con la Serbia di Milosevic, e dati i sensi di colpa della diplomazia wojtyliana circa l’inizio dell’implosione nei Balcani per via del riconoscimento dato precocemente dal Vaticano a Slovenia e Croazia.
Oggi, la chiesa americana ha prontamente fatto proprie le parole di pace di papa Francesco: questa guerra è apparentemente lontana dagli interessi strategici americani, l’America è stanca, e quindi il papa saprà farsi ascoltare meglio su questa che su altre questioni. Ma la Siria occupa un posto cruciale nella visione vaticana del Medio Oriente, e la convergenza di questi giorni non deve ingannare: papa Francesco sarà un interlocutore difficile, sia per gli americani liberal che per quelli conservatori e neo-conservatori.

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