giovedì 5 settembre 2013

Il partito contro il Partito

Mario Lavia 

Europa  

Non è vero che il Pd morirà democristiano: lo scontro piuttosto è fra innovatori e frenatori. Ma comunque per la prima volta la sinistra non esprime un nome competitivo per la leadership
Parafrasando ciò che scrisse Miriam Mafai quando i Ds lasciarono Botteghe Oscure – «sembra semplicemente incredibile» – viene da stropicciarsi gli occhi per quanto sta avvenendo nel Pd. L’“incredibile” oggi è questo: la sinistra di derivazione comunista per la prima volta non appare in grado di esprimere un nome vincente per la guida del partito. Un partito nel quale quell’area ha avuto, e in un certo senso ha tuttora – nel senso dell’immaginario dei militanti – la quota di maggioranza.
“Il Pd si scopre democristiano”, ha scritto ieri Paolo Franchi sul Corriere della Sera. Ma è giusto  leggere quanto sta avvenendo come la “rivincita” della cultura popolare-democristiana su quella diessina-comunista? O non piuttosto come un clamoroso passaggio di testimone generazionale, un fragoroso scontro fra vecchio e nuovo. No, “moriremo democristiani” è solo una bella frase propagandistica: «I commentatori guardano alle cose del Pd con gli occhiali del Novecento: ex pci, ex dc… Io direi piuttosto che lo scontro è sempre lo stesso, fra innovatori e conservatori, fra chi pensa che bisogna innovare e chi pensa che bisogna andare avanti con le vecchie logiche», sintetizza Claudio Petruccioli. «E Matteo Renzi deve stare attento agli appoggi che gli vengono dati se lui lascia il potere reale in mano ai conservatori come Franceschini», aggiunge.
La verità caso mai è che la scuola democristiana possiede, e tramanda, linguaggi (Renzi) e tecniche (Enrico Letta) che quella comunista non ha mai avuto. Ce la fa meglio, alla lunga. Ecco perché il Pd, se vince Renzi, si avvia a non essere più identificato come l’ultimo pezzo della filiera Pci-Pds-Ds ma come una cosa diversa.
Certo, il fatto che le aree di D’Alema e Bersani possano realisticamente finire in minoranza è abbastanza sconvolgente. Ed è strano che D’Alema, che si picca di non aver mai perso un congresso, si arrenda. È il segno di una “minorità” non già assegnata dalla Storia ma dalla realtà che cambia. Se vogliamo, è la sanzione del tramonto del gruppo dirigente post-comunista che fece in tempo ad avere funzioni dirigenti nel Pci e che si accinge ad una battaglia identitaria.
Diranno poi gli storici se la sconfitta di Bersani alle politiche abbia simbolicamente costituito la tappa ultima della leadership ex comunista del partito. «Bersani – ragiona Peppino Caldarola – è un po’ come Gorbaciov, che inseguì un sogno mentre in realtà tutto era finito. Il popolo ex comunista, disorientato da anni, non ha più saputo trovare un approdo. Nella dissociazione fra aspirazioni del popolo e politiche dei leader è entrato a viva forza Renzi». In sedicesimo, è avvenuto ciò che secondo François Furet capitò al comunismo: finì come un rivolo nel deserto, in fondo bastò buttare giù un Muro. La vicenda dei leader del Pds-Ds si presenta quindi come un affannoso cercare un senso a questa storia, senza però trovarlo.
Era già chiarissimo il fatto che quella storia non riusciva a spianarsi la strada per la guida del governo: sempre battuti, i leader ex Pci, dinanzi alla soglia di palazzo Chigi, con il sostanziale fallimento del D’Alema di governo, la sconfitta di Veltroni nel 2008, quella appunto di Bersani quest’anno, mentre Fassino non aveva mai partecipato alla gara che conta e a un altro ex Pci, Cofferati, gli stessi suoi compagni avevano tagliato la strada. Solo un ex dc, Prodi, era riuscito a vincere, oggi un altro ex dc della stessa cultura, Enrico Letta, governa.
Altro che Dio minore. Altro che fattore K. Ma c’era pur sempre il partito, anzi il Partito, la Ditta.
Sarebbero serviti gruppi dirigenti fortissimi. Complice anche una certa confusione fra gruppi dirigenti e staff e una frettolosa “scuola” fatta più di telegenia che di padroneggiamento degli strumenti politici autentici, i vari tentativi di saldare popolo e politica (governo) sono falliti tutti. La stessa idea della leadership non è stata assimilata. Racconta Alessandra Sardoni in un saggio (Il fantasma del leader) scritto quattro anni fa e che andrebbe riletto alla luce degli sviluppi odierni che secondo i dettami bersaniani «la leadership, se solitaria, è un peccato e come tale richiede capacità di dissimulazione». A Veltroni, quando cercò  uno sbocco al di fuori di questi canoni, venne fatta pagare. Con “Red”, con altro. E lui si mostrò inadatto a reggere. Nella pratica, Bersani ha scontato una difficoltà esattamente sul piano della affermazione della leadership.
In fin dei conti l’idea un po’ consolatoria degli ex ds è stata che le vere leve del potere fossero destinate a restare nelle mani degli eredi della sinistra. Proposito albergato fin qui, anzi, ancora oggi è la base della piattaforma dalemiana: Renzi a palazzo Chigi, Cuperlo al Nazareno. Il primo aggira il fantasma del Dio minore, il secondo preserva una memoria, come scrisse Giovanni Macchia a proposito di tutt’altra questione, incapace di «farsi avventura». Una memoria inerte. E le idee della sinistra, fatalmente, paiono destinate a trovare altri protagonisti che le incarnino.
Il vero limite storico di quel gruppo dirigente post-comunista sta qui, nell’aver estenuato un corpo militante assottigliatosi ma pur sempre grande in mille controversie di vario tipo senza peraltro che il famoso “patto di sindacato” fra ristrettissime oligarchie tenesse. Quando quel “patto” si è definitivamente lacerato (dopo le elezioni e con la vicenda del Quirinale) dentro di sé il partito si è ribellato al Partito. E ora guarda a Renzi, l’Estraneo.

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