Renzi pienamente interpreta l’essere oggi un democratico di sinistra
«Indeterminato», «moderato per necessità», «non di sinistra»,
«strumento di un’Idea-se stesso», «prodotto estremo della
personalizzazione della politica»… eccetera.
Non sono tutti questi pacati giudizi che mi hanno spinto a chiedere
al direttore di ospitare una mia replica all’articolo che Carlo Galli
dedica a quel “Democristiano e molto ambizioso” (come recita il titolo) di Matteo Renzi, perché appunto non sono argomentazioni, ma giudizi.
Invece, è evidente a tutti coloro che guardano, con animo libero e
sguardo analitico, quale sia la proposta politica di Matteo Renzi, ossia
quella di un leader democratico moderno, di una sinistra liberale ed
europea; e lo sarà a maggior ragione nel momento in cui, a regole
definite, potrà emergere la sua visione attraverso la proposta che
–immagino – farà al Partito democratico e al paese da candidato alla
segreteria nel congresso che verrà (a proposito, quando?).
Dell’articolo di Galli, invero, mi ha colpito la visione del mondo che quei giudizi esprimono.
In particolare, mi ha colpito una frase: quella nella quale si
teorizza la necessità che oggi sia necessario «un partito che
ri-civilizzi la società» (il trattino è suo, si badi bene). Perché in
quella frase c’è il condensato perfetto di tutto quel coacervo di idee
che –a mio avviso naturalmente – impediscono alla sinistra italiana di
essere – con serenità, a viso aperto e senza pasticciare in accordi
politici innaturali pur di stare al potere – maggioranza politica piena e
coerente in questo paese, come nel resto d’Europa.
Quella frase, infatti, è la sintesi di tutto l’armamentario
ideologico di una sinistra ancora convinta della necessità che si debba
tornare indietro: ad una politica auto-centrica, invasiva di ogni sfera
sociale ma, al tempo stesso, pure del tutto irresponsabile, in primis
verso le generazioni future; a partiti politici, con la lettera P
maiuscola, presenti in ogni ambito del nostro vivere quotidiano, dalla
culla alla tomba (vacanze incluse); a una visione del bene pubblico come
statale, alla faccia di ogni forma di poliarchia e di reale
sussidiarietà; ad un’architettura istituzionale assemblearista, non
realmente parlamentarista; ad una visione dell’Europa in chiave
rivendicativa e non propositiva.
Una sinistra, insomma, che sentendosi moralmente superiore, si vive
depositaria del “sapere che civilizza”. Così, appunto, proclama la
necessità di tornare alle pubbliche virtù (o tempora, o mores… direbbe
Cicerone) ma, in molti casi, vive di vizi privati (come negli anni è
stato ampiamente dimostrato anche dalla stessa magistratura, al di là e
oltre la cosiddetta “tesi delle mele marce”); teorizza una visione
responsabilizzante dei rapporti sociali, ma difende in realtà il trionfo
dell’inter-mediazione e della consociazione come metodo di governo;
considera un leader che si afferma in virtù del proprio carisma un
pericoloso soggetto (anzi, “un fascistoide” come è stato scritto), ma
poi, non esita a ballare collettivamente danze tribali in cima al
Nazareno intorno a giaguari immaginari da smacchiare.
Ecco. Vorrei dire che a questo tipo di sinistra è il Novecento che ha
chiuso le porte della Storia (quella con la maiuscola). E lo ha fatto
profondamente consapevole dei danni che hanno comportato le visioni
assolutizzanti del vivere sociale, qualunque esse siano. Abbandonate le
quali –lo dico per chiarezza – non c’è un nichilismo a-morale o un
utilitarismo egoista senza valori, incapace di discernere “cosa è di
destra, cosa di sinistra” (o tempora, o mores…) perché è incerto sulle
sue gambe; c’è, invece, la consapevolezza delle grandi democrazie (e dei
rispettivi partiti, di sinistra e di destra) che esiste una frontiera
comune nella quale tutto il mondo opera – il liberalismo – e che esso è
per natura continuamente sotto la fatica di doversi districare, fissando
ogni giorno nuovi perimetri, tra i dilemmi che le sfide
dell’eguaglianza, dell’opportunità, dei diritti e dei doveri determinano
nelle nostre società.
Matteo Renzi – per quanto mi consta e per come “lo leggo” – è dentro
questo tempo. E pienamente interpreta l’essere oggi un democratico di
sinistra (da vero nativo Pd vorrei dire, sperando che nessuno si senta
offeso), proponendo una società aperta, plurale, più complessa ed
inclusiva, dove le opportunità, i meriti e i bisogni stanno insieme,
scontrandosi quotidianamente nel reale e non, invece, ideologicamente a
prescindere.
Questo tipo di sinistra, quella dei grandi partiti delle altre
liberaldemocrazie, non fa alcuna selezione sociale sul “tasso di
militanza”, perché se una democrazia è tale, anche la “casalinga di
Voghera” merita di sentirsi inclusa nel dibattito pubblico; d’altronde, è
la modernità che impone che si può vivere avendo diversi gradi di
coinvolgimento politico, senza per questo doversi vedere giudicato
dall’alto, con spocchia boriosa, da chi vive l’appartenenza politica in
modo totalizzante.
Questo tipo di sinistra punta a rompere i corporativismi, a riformare
il mercato del lavoro superando la cultura consociativa
istituzionalizzata, a tagliare gli sprechi e le tasse, a ripensare la
giustizia e i suoi tempi, oltre che a dare alla pubblica amministrazione
la dignità (e il merito) che ad essa costituzionalmente spetta.
Si tratta di una sinistra che non ha paura degli elettori,
allontanandoli da sé perché convinta che essi debbano, nel momento della
partecipazione o nel voto, passare prima attraverso un’operazione di
tipo pedagogico-rieducativo da parte di un elite politico-culturale di
“illuminati”.
Una sinistra, insomma, che si allarga alla società, e che dunque,
così facendo, allarga se stessa, giocando fino in fondo la partita della
vocazione maggioritaria, quella propria dei bipolarismi di qualità a
noi affini.
Ecco, Matteo Renzi è questa sinistra proprio perché – mi pare – non
ha alcuna intenzione di fare “crociate”, “ri-civilizzare popoli”,
“convertire infedeli”. D’altronde, non soltanto quel tempo della
sinistra non c’è più, ma anche, forse, quello non è mai stato, davvero,
un modo corretto di essere (e viversi) di sinistra.
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